RIVOLUZIONE FRANCESE SINTESI

RIVOLUZIONE FRANCESE SINTESI


FASI PRINCIPALI
1) 1789 (maggio-giugno): Stati generali;
2) 1789-91 : Assemblea nazionale costituente;
3) 1791-92 : Assemblea nazionale legislativa;
4) 1792-95 : Convenzione nazionale e prima repubblica francese (repubblica giacobina);
5) 1795-99 : Governo del Direttorio
Come vedremo, il colpo di Stato del 18 brumaio (novembre) 1799, operato da Napoleone, non
solo distrusse di fatto il sistema democratico-liberale (che pure, nonostante il Terrore e altre
emergenze, era stato tenuto in vita), instaurando un regime autocratico e militare, ma chiuse un
intero ciclo rivoluzionario durato 10 anni (1789- 1799).


CAUSE I PRIVILEGI

La Francia prerivoluzionaria del ‘700 non era certamente un paese del tutto arretrato
economicamente, anzi, per molti aspetti (attività industriali o manifatturiere, commercio,
apparato burocratico-statale) poteva competere con la stessa Inghilterra.
Il problema più grave della società francese, da lungo tempo non risolto, anzi aggravato dai
sovrani borbonici, era quello dell’ingiustizia e dei privilegi: una minoranza della popolazione
(quasi 500000 persone tra nobili ed alto clero) deteneva notevoli ricchezze fondiarie ed inoltre
occupava tutte le cariche amministrative, burocratiche e militari.
Tutto ciò senza contribuire minimamente al bilancio dello Stato, poiché questo ceto privilegiato
era praticamente esentato da qualsiasi vera tassazione che non fosse una pura e semplice
donazione volontaria offerta allo Stato. Anzi, tale ceto utilizzava largamente i soldi pubblici, non
solo perché se ne appropriava attraverso stipendi, pensioni e rendite varie ma anche perché la
Corte, formata da alcune migliaia di persone dedite agli ozi, ai vizi e alle feste, veniva mantenuta
appunto con i soldi dello Stato.


LE CLASSI SOCIALI

Questa situazione di privilegio strideva fortemente con la difficile condizione economica e fiscale
delle altre classi, in particolare la borghesia, il proletariato urbano e i contadini.
Queste tre classi reggevano tutto il peso del fisco, a cui contribuivano in diversa misura, ed
inoltre costituivano l’ossatura dell’economia della nazione, la vera fonte della sua ricchezza, in
contrapposizione al parassitismo nobiliare. La borghesia francese infatti era ormai la struttura
portante della società, creava ricchezza, creava lavoro, pagava le tasse, finanziava il forte debito
statale (= prestava i soldi allo Stato sotto forma di titoli ad interesse): essa però era
praticamente esclusa da qualsiasi forma di partecipazione sia al potere politico sia a quello
burocratico-amministrativo.
Pertanto la borghesia francese, ormai forte e solida sul piano economico-sociale (nell’Europa
continentale la Francia, insieme ai Paesi Bassi, aveva avuto un sensibile sviluppo delle attività
manifatturiere, bancarie e mercantili che, tra la fine del ‘700 e i primi dell’800, si trasformarono
anche in attività industriali vere e proprie), chiedeva una riforma complessiva dello Stato che le
consentisse di accedere anche al potere politico centrale: sotto questo aspetto la Rivoluzione
francese fu sicuramente una rivoluzione borghese, poiché la borghesia conquistò anche il
controllo politico dello Stato, liquidando il vecchio assolutismo legato alla nobiltà feudale. Infatti
le varie Costituzioni che si susseguirono nel corso del processo rivoluzionario furono soprattutto
l’espressione delle esigenze giuridiche, politiche ed economiche della borghesia.
Il proletariato e il sottoproletariato urbano della Francia settecentesca vivevano invece in una
condizione di estrema precarietà, spesso ai limiti della sussistenza.
Bastava una carestia, un calo di produzione o un improvviso aumento dei prezzi dei beni di prima
necessità per far piombare tali classi nella disperazione e nella fame. Il ruolo delle masse
proletarie e sottoproletarie fu decisivo nelle fasi più calde della rivoluzione: furono espressione di
esse (delle masse) soprattutto i famosi sanculotti parigini che, organizzati politicamente dai
giacobini e dagli arrabbiati (= estrema sinistra), cercarono di spingere la rivoluzione verso
soluzioni sempre più radicali ed estremistiche.


Infine c’erano i contadini, che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione francese
ed erano formati in prevalenza da piccoli proprietari e affittuari. La classe contadina era
culturalmente e politicamente tradizionalista e conservatrice ed era oppressa da un sistema
fiscale vessatorio ed iniquo.
Esistevano almeno tre tipi di imposte gravanti sui contadini:
1) le decime ecclesiastiche;
2) la rendita annuale riscossa dai proprietari;
3) le imposte dello Stato.
Nel complesso questo sistema fiscale arrivava a consumare circa il 40-60% del reddito dei
contadini. Essi, d’altra parte, non ricevevano alcuna forma di assistenza da parte dello Stato ed
erano costretti spesso ad accettare contratti d’affitto prevalentemente favorevoli ai proprietari.
Inoltre occorre precisare che l’agricoltura francese non aveva conosciuto un processo di
trasformazione in senso capitalistico simile a quello che si era verificato nelle campagne inglesi
tra il ‘500 e il ‘700, era quindi un’agricoltura ancora fondamentalmente feudale e arretrata.
Infine, ad aggravare le già difficili condizioni dei contadini, contribuirono anche le numerose
guerre condotte dalla Francia tra la fine del ‘600 e la prima metà del ‘700, guerre che coinvolsero
direttamente gli stessi contadini, giacché a partire da Luigi XIV era stato imposto il servizio
militare obbligatorio.


DEFICIT DEL BILANCIO STATALE E PROBLEMA DEGLI APPALTI

Ci furono sicuramente delle cause profonde e lontane della Grande rivoluzione (privilegi,
ingiustizie, conflitti politici e istituzionali, crisi agricola ecc.), ma a scatenare i fatti del 1789
furono in particolare i problemi legati al deficit del bilancio statale (lo Stato era in passivo, le sue
uscite superavano di gran lunga le entrate). Alcuni ministri (Turgot, Necker, Calonne, De
Brienne) tentarono di riformare il sistema finanziario e fiscale, tra gli anni ’70 e ’80, ma tali
tentativi, a causa dell’opposizione dei ceti privilegiati, fallirono. In particolare il problema più
grave era legato alla riscossione delle imposte indirette (applicate cioè ai consumi), basata sul
sistema degli appalti: gli appaltatori (fermier) che acquistavano dallo Stato l’appalto (cioè il
diritto di riscuotere le imposte), applicavano spesso tassazioni arbitrarie e vessatorie,
alimentando così il malcontento popolare; d’altra parte lo Stato francese, al fine di risolvere i suoi
problemi di deficit, era costretto ogni anno non solo a vendere l’appalto a tali fermiers ma anche
a chiedere ulteriori prestiti agli stessi (che erano ricchi borghesi), indebitandosi sempre più (lo
Stato infatti, in cambio di questi prestiti, pagava interessi molto elevati).
Bisognava dunque non solo riformare il sistema degli appalti e del fisco ma anche attuare una
manovra economica complessiva che da un lato riducesse il peso fiscale sui contadini,
permettendo loro di disporre di un reddito maggiore da utilizzare nell’acquisto delle merci
prodotte dall’industria nazionale, e dall’altro inducesse la nobiltà fondiaria, sostanzialmente
passiva e parassitaria, ad investire in attività produttive una parte della propria rendita. Politica
fiscale e politica economica erano le due facce di un unico problema.
Come abbiamo già accennato, prima Turgot e poi Necker, Calonne e De Brienne tentarono di
riformare il sistema fiscale iniquo ed inefficiente, ma furono tutti costretti a dimettersi per
l’opposizione delle classi e dei ceti privilegiati (nobiltà di spada, nobiltà di toga, alto clero), che
controllavano sia il parlamento di Parigi sia quelli provinciali. La nobiltà, quindi, difendeva le
proprie prerogative e i propri privilegi tradizionali contro i tentativi riformatori del re e del
governo, mostrando una totale indifferenza verso la grave situazione in cui versavano lo Stato e
la società.
Questa tensione sfociò nello scontro del 1788, quando soprattutto la nobiltà togata (ossia i
magistrati che formavano i vari parlamenti) mise in discussione le basi giuridiche dell’assolutismo
regio. I nobili cioè, di fronte ai tentativi di riforma fiscale dei governi del re, sostennero la
necessità di riformare alla base tutto l’edificio giuridico dello Stato, mettendo in crisi così lo
stesso principio dell’assolutismo regio. In questa lotta contro il potere del re, la nobiltà si trovò
paradossalmente alleata con la borghesia, che da parte sua si opponeva all’assolutismo per
ragioni del tutto diverse: la convergenza di queste forze sfociò in una richiesta di riforma
complessiva della Costituzione. Maturò così la convinzione che fosse ormai giunto il momento di
riformare lo Stato assolutista, andando ben al di là di semplici riforme economiche. Ma per
attuare ciò bisognava convocare gli Stati Generali, cioè l’assemblea di origine medievale (era
stata convocata per la prima volta da Filippo IV il Bello, all’inizio del 1300, e l’ultima volta nel
1614), che rappresentava i tre Stati (= ceti o corpi o ordini sociali) principali della società
francese (nobiltà – clero – Terzo stato). Solo un’assemblea nazionale rappresentativa come gli
Stati Generali possedeva l’autorevolezza e i requisiti necessari per poter elaborare e approvare il
progetto di una nuova Costituzione.


STATI GENERALI: IL PROBLEMA DEL VOTO (MAGGIO-GIUGNO 1789)

Appena convocati, negli Stati Generali si creò un forte contrasto tra i primi due stati, che
chiedevano di votare separatamente per ordine (il che avrebbe comportato una vittoria sicura dei
due ceti superiori, essendo il rapporto di forza di 2 a 1), ed il terzo stato.
Quest’ultimo, avendo un numero di deputati complessivamente pari alla somma degli altri due,
chiedeva invece il voto comune in un’unica assemblea. In questo caso le possibilità di vittoria
erano notevoli, anche perché una parte della nobiltà più illuminata e riformatrice ed una parte del
clero, soprattutto il basso clero, convergevano sulle posizioni riformatrici della borghesia.
Il contrasto sulla questione del voto (“giuramento della pallacorda”) sfociò nella nascita
dell’Assemblea costituente, il primo parlamento della Grande Rivoluzione: il Terzo Stato si
autoproclamò rappresentante di tutta la nazione e la sua assemblea divenne appunto l’Assemblea
nazionale costituente. Si trattò di un parlamento composto da un’unica camera (monocamerale).


MOVIMENTI POLITICI DELLA RIVOLUZIONE

Con la Grande rivoluzione si delinearono i primi movimenti politici moderni, che avranno poi uno
sviluppo nel corso dell’800, divenendo progressivamente veri e propri partiti politici.
Schematicamente si possono indicare questi movimenti:
1) giacobini: appartenevano alla piccola e media borghesia francese, in prevalenza ostili al re e
fautori della repubblica; proponevano riforme piuttosto avanzate sul piano politico ed
economico-sociale. Tra i loro leaders bisogna ricordare in particolare Robespierre e Saint-
Just;
2) foglianti: rappresentarono l’ala moderata della Rivoluzione. Si separarono dai giacobini dopo
la strage del Campo di Marte. Sostenevano una riforma dello Stato in senso liberale, cioè
secondo il modello della monarchia costituzionale inglese. Possiamo considerare esponenti di
questa corrente personaggi come La Fayette, Mirabeau, Sieyés;
3) cordiglieri: furono una variante più estremistica dei giacobini, tra i loro capi Danton e Marat;
4) girondini: anch’essi appartenevano alla piccola-media borghesia urbana, soprattutto quella
legata alle professioni ed al commercio marittimo; erano prevalentemente favorevoli alla
repubblica ma si opposero all’esecuzione del re. Sul piano economico-sociale erano più
moderati dei giacobini, furono contrari ai provvedimenti restrittivi dell’economia presi durante
il Terrore, nonché alle limitazioni delle libertà imposte da Robespierre. Il loro leader fu
Brissot. Furono i maggiori responsabili della guerra voluta dalla Francia contro le potenze
straniere, nell’aprile del ’92. Furono eliminati con l’attacco alla Convenzione del 2 giugno
1793: i giacobini li accusarono di moderatismo, di ambiguità, di patteggiamento con i nemici
della rivoluzione;
5) arrabbiati: costituivano l’ala sinistra più estrema della rivoluzione. Erano formati dalle masse
dei sanculotti, cioè del proletariato e del sottoproletariato urbano. Sostenevano la necessità di
portare fino in fondo il processo rivoluzionario imponendo una repubblica radicale quasi
socialisteggiante, ossia una democrazia dal basso; erano inoltre fautori della necessità di
sterminare tutti i controrivoluzionari e arrivarono a mettere in discussione lo stesso principio
dell’intangibilità della proprietà privata. Per questo loro eccessivo radicalismo economicopolitico
Robespierre li eliminò (1794). I loro leaders furono Hébert e Roux.


PRINCIPALI PROVVEDIMENTI PRESI DALL’ASSEMBLEA COSTITUENTE

1) Abolizione di una parte dei privilegi feudali (attraverso i decreti di agosto).
2) Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (17 articoli – 26 agosto 1789)
3) Nuovo assetto amministrativo: la Francia fu divisa in 83 dipartimenti, suddivisi sulla base
delle caratteristiche geografiche dei territori. Ogni dipartimento, a sua volta, era diviso in
distretti (o circondari) e in comuni. Scomparvero i parlamenti provinciali, monopolio della
nobiltà, e gli organi amministrativi locali divennero elettivi.
4) Abolizione delle dogane interne ed affermazione di una politica liberista, che eliminò le
restrizioni ed il monopolio nel commercio e nella produzione.


5) Adozione del sistema delle recinzioni sui maggesi e sui demani comuni: l’agricoltura cominciò
ad avviarsi sulla strada della privatizzazione di tipo borghese, così come era avvenuto in
Inghilterra, anche se in Francia esisteva, diversamente dall’Inghilterra, una piccola proprietà
contadina molto diffusa.
6) Nazionalizzazione dei beni ecclesiastici: lo Stato incamerò tali beni sottraendoli alla Chiesa e
li mise in vendita.
7) Emissione di assegnati, ossia di titoli di Stato ad interesse da vendere ai cittadini per
consentire loro di acquistare le terre espropriate ai nobili e alla Chiesa. Questi assegnati si
trasformarono nel 1791 in una vera e propria cartamoneta in quanto lo Stato ne emise una
notevole quantità, anche di piccolo taglio, ossia di valore basso, per cui essi finirono per
svolgere di fatto le funzioni di una moneta. La forte svalutazione degli assegnati, che la gente
faceva fatica a considerare come vera moneta, determinò il grave fenomeno dell’inflazione.
8) Costituzione civile del clero: il clero cattolico e la sua organizzazione vennero messi alle
dirette dipendenze dello Stato, numerosi ordini religiosi furono sciolti e molti beni della Chiesa
cattolica furono nazionalizzati (= acquisiti dallo Stato). Questa Costituzione civile del clero in
realtà accentuò ed estremizzò le tradizionali aspirazioni autonomiste della Chiesa Gallicana
(vedi Luigi XIV). Essa si rivelò tuttavia un fallimento per la Rivoluzione perché buona parte
del clero la rifiutò, ponendosi contro la Rivoluzione (fu definito clero refrattario). Iniziò così
quella spaccatura tra rivoluzionari e cattolici che culminò nella condanna papale e nella rivolta
controrivoluzionaria della Vandea (1793).
9) Adozione del sistema metrico decimale, che sostituì i vecchi sistemi di misura.


LA COSTITUZIONE DEL 1791 E LA NUOVA LEGGE ELETTORALE

L’assemblea parlamentare elaborò il testo di una nuova Costituzione, che fu chiamata
Costituzione del ’91, in quanto fu votata ed approvata definitivamente il 4 settembre 1791.
Era una costituzione moderata e borghese, basata sul modello della monarchia parlamentare
inglese: essa riconosceva il principio democratico della divisione dei poteri, affidando quello
legislativo ad un’unica Camera (parlamento monocamerale), quello esecutivo al re e al governo,
quello giudiziario ad un corpo di magistrati eletti dal popolo (essi non potevano più essere
nominati dall’alto o ereditare la loro carica).
Il re non aveva più il potere di sciogliere la Camera a suo piacimento e poteva opporsi, solo per
una volta, alle deliberazioni del parlamento (se si riproponeva la stessa legge, essa doveva
comunque passare).
Venne riconosciuta l’uguaglianza giuridica a tutti i cittadini e caddero tutte le discriminazioni di
ordine religioso: protestanti ed ebrei divennero cittadini a pieno titolo. Tuttavia questa prima
Costituzione non riconobbe dignità ed uguaglianza ai neri e ai mulatti, mantenendo di fatto la
schiavitù nelle colonie francesi.
Collegata a questa Costituzione fu la nuova legge elettorale, che non accolse il principio del
suffragio universale (diritto di voto a tutti), ma distinse i cittadini in passivi (= che non
pagavano un minimo di imposta diretta, quindi non avevano diritto di voto) ed attivi (= che
pagavano un’imposta minima ed avevano diritto al voto).
Fu adottato un sistema elettorale a doppio grado, nel senso che i cittadini votavano dei
rappresentanti che a loro volta formavano un collegio di grandi elettori, che eleggeva poi i
deputati veri e propri.


L’ASSEMBLEA LEGISLATIVA (1791-1792)

Fu il secondo parlamento della Grande rivoluzione, anch’esso monocamerale e durò poco meno di
un anno. In esso si delinearono grosso modo questi schieramenti politici:
1) i foglianti o costituzionali, moderati e filomonarchici, a destra.
2) gli indipendenti, ossia un ampio schieramento composito e non ben definito, che occupava
grosso modo le posizioni di centro, spostandosi di volta in volta più a destra o più a sinistra a
seconda delle convenienze;
3) i seguaci di Brissot (brissottini), poi chiamati girondini, filorepubblicani e fautori di una
democrazia più moderna e compiuta, che costituivano la sinistra moderata;
4) i giacobini, ancora più a sinistra. Essi erano ostili al re ed erano fautori della repubblica;
proponevano un modello di democrazia politica e sociale molto avanzata, ispirata alle idee del
filosofo Rousseau.


10 AGOSTO 1792 LA COMUNE

A provocare i fatti del 10 agosto del 1792 fu la disastrosa situazione militare in cui la Francia
venne a trovarsi nella primavera-estate del 1792, con gli eserciti dell’Austria e della Prussia che
stavano entrando nel paese. La rivoluzione, dopo il 10 agosto, si radicalizzò.
Infatti giacobini, cordiglieri, girondini e arrabbiati accusarono gli elementi moderati ed il re di
tramare contro la rivoluzione e di volere la disfatta militare della Francia (accordandosi con gli
stranieri) al fine di arrestare il processo rivoluzionario. L’assalto alle Tuileries, la sede parigina
del re, fu la conseguenza di questa convinzione. Il re fu arrestato, i foglianti ed i moderati
vennero messi del tutto fuori gioco, la Guardia nazionale fu sciolta, fu istituito il Tribunale
rivoluzionario, che aveva il compito di smascherare e colpire tutti quelli sospettati di tradire la
rivoluzione e la patria. L’insurrezione popolare del 10 agosto vide come protagonista soprattutto
Danton, avvocato dotato di un’oratoria trascinante e leader dei cordiglieri. Danton s’impossessò
della Municipalità di Parigi, ossia estromise dal Comune gli amministratori moderati ponendo al
loro posto esponenti radicali. Si creò così la cosiddetta Comune rivoluzionaria, un organismo che
gestiva il potere nel comune di Parigi, ma che, per il peso politico che acquistò, assunse una
funzione di guida della politica generale della Francia, ponendosi quasi sullo stesso piano del
parlamento e del governo. La Comune divenne così una sorta di potere nel potere e condizionò lo
sviluppo rivoluzionario. Questo clima di accesa lotta politica sfociò il mese dopo nelle “stragi di
settembre”, quando folle di sanculotti entrarono nelle carceri e massacrarono migliaia di
prigionieri considerati nemici della rivoluzione, mentre il governo non fece nulla per evitare la
strage.


LA CONVENZIONE NAZIONALE: SCHIERAMENTI POLITICI E ALCUNI PROVVEDIMENTI

La Convenzione Nazionale (il termine Convenzione derivava dalla tradizione politica
anglosassone) fu il terzo parlamento della rivoluzione, e fu anch’esso formato da una sola
camera. Si costituì nel settembre del 1792, quando il pericolo di un’occupazione militare della
Francia da parte delle potenze straniere era stato dissolto dalla vittoria francese di Valmy sulla
Prussia. Dopo Valmy, nell’autunno del 1792, la situazione volse a favore dell’esercito francese
che nel mese di novembre, a Jemappes, sconfisse gli austriaci ed ebbe via libera per occupare il
Belgio.
Nella storia della Convenzione nazionale bisogna distinguere due fasi molto diverse: la prima,
ossia la Convenzione prima di Termidoro (con la parola Termidoro, ossia il mese di luglio del
1794, si indica la caduta di Robespierre), che andò dal settembre del ’92 al luglio del ’94, e la
seconda fase, ossia la Convenzione dopo Termidoro, detta anche termidoriana, che andò dal
luglio ’94 all’ottobre del 1795. In questa sede noi ci occuperemo solo della prima fase.
Gli schieramenti politici che la caratterizzarono prima del 2 giugno 1793 (eliminazione dei
girondini) furono questi:
1) a destra i girondini, contrari all’estremismo politico ed economico dei giacobini, che essi
accusavano di essere troppo acquiescenti verso le richieste radicali dei sanculotti;
2) al centro uno schieramento composito e variegato denominato spregiativamente palude o
pianura, che costituiva una maggioranza oscillante tra destra e sinistra a seconda delle
circostanze e delle convenienze;
3) a sinistra la cosiddetta Montagna, che era formata da elememti democratici più estremisti.
Alcuni dei provvedimenti più significativi approvati da questo parlamento furono:
1) proclamazione della repubblica (settembre 1792);
2) processo e condanna a morte del re (gennaio 1793);
3) dichiarazione di guerra all’Inghilterra e all’Olanda (febbraio 1793), che si rivelò un errore
clamoroso in quanto nella primavera del 1793 gli eserciti europei furono di nuovo sul punto di
invadere la Francia;
4) corso forzoso dell’assegnato: l’assegnato, divenuto carta moneta, si era molto svalutato a
tutto vantaggio delle monete metalliche. Lo Stato allora eliminò la circolazione delle monete
metalliche e impose per legge solo l’uso degli assegnati (= corso forzoso degli assegnati);
5) introduzione del maximum, vale a dire un calmiere che stabiliva il prezzo massimo di alcuni
beni di prima necessità e poneva un tetto massimo anche per i salari; questo maximum
doveva servire a impedire l’aumento dell’inflazione nonché il mercato nero, ma in realtà i
prezzi continuarono a salire perché il governo non riuscì ad eliminare il contrabbando;


6) abolizione definitiva di ogni titolo signorile e di ogni residuo riscatto che i contadini dovevano
ancora pagare per affrancarsi definitivamente dai vecchi privilegi (obblighi feudali).


COSTITUZIONE DELL’ANNO I

La Convenzione scrisse una nuova Costituzione, detta Costituzione dell’anno I, ossia del 1792,
anno in cui fu proclamata la repubblica (anno I a partire dal settembre 1792): fu la Costituzione
più democratica ed avanzata della rivoluzione, riconobbe il matrimonio civile e il divorzio e alcuni
diritti sociali come quello all’istruzione, al lavoro, all’assistenza per gli anziani e quanti altri
avessero bisogno del “soccorso pubblico”. A causa del Terrore però questa Costituzione,
approvata il 24 giugno del 1793, non entrò mai effettivamente in vigore. La Costituzione
dell’anno I, che sicuramente si ispirò alle teorie politiche di J. J. Rousseau, non mise tuttavia in
discussione il diritto alla proprietà privata e diede poco spazio a forme di democrazia diretta
come il referendum. A questa Costituzione fu abbinata una nuova legge elettorale che istituì il
suffragio universale maschile, da cui furono esclusi solo ristretti gruppi di persone.


LA RIVOLTA VANDEANA

Fu una rivolta contadina controrivoluzionaria scoppiata nella Vandea, regione della Francia nordoccidentale.
La popolazione della Vandea era prevalentemente contadina ed era legata ai valori
tradizionali della monarchia e della religione cattolica. I vandeani aderirono alla prima fase della
rivoluzione, quella che soppresse il sistema feudale, ma lo scontro avvenne quando l’Assemblea
Costituente varò la Costituzione civile del clero, ponendosi contro la tradizione cattolica. Nessun
parroco vandeano accettò di giurare fedeltà alla suddetta Costituzione e la popolazione della
Vandea si schierò in massa con i propri parroci (il cosiddetto clero refrattario). A questo motivo di
scontro se ne aggiunsero altri, ad esempio l’arresto, il processo e la condanna a morte del re: i
vandeani si sentivano legati alla monarchia e ai valori tradizionali che essa significava e non
condividevano gli ideali laici e repubblicani sostenuti dai borghesi parigini, rispetto a cui essi si
sentivano diversi ed estranei. Infine, ad alimentare la rivolta controrivoluzionaria, ci furono anche
i provvedimenti restrittivi del commercio e della libera iniziativa economica e i nuovi obblighi
burocratici imposti dal governo rivoluzionario. A questi fattori si aggiunse poi l’imposizione della
leva obbligatoria, che funzionò da vero e proprio detonatore. Le proteste e i disordini scoppiarono
già nel maggio del 1791 e proseguirono nel 1792 (agosto). Nella primavera del 1793 la protesta
della Vandea divenne una rivolta di massa. Il governo di Parigi rispose con la repressione brutale,
si ricorse addirittura ad esecuzioni di massa (annegamenti collettivi nella Loira). Con questi
sistemi, tra la fine del 1793 e il 1794, la controrivoluzione vandeana fu definitivamente
schiacciata.


IL TERRORE (1793-94)

Dall’estate ’93 al luglio ’94 (Termidoro) si sviluppò la politica del Terrore.
Il Terrore non fu l’esplosione della follia personale di Robespierre, come si potrebbe pensare, ma
fu invece una linea politica ben precisa. Il Terrore, infatti, era ritenuto da Robespierre la risposta
necessaria da parte dello Stato repubblicano alle forze che operavano contro la Rivoluzione sia
all’interno della Francia (quindi i diversi schieramenti di destra e di estrema sinistra) sia
all’esterno (le potenze della Prima coalizione antifrancese e i nobili emigrati).
Il Terrore, quindi, fu una scelta politica estrema, anche se aberrante, necessaria per fronteggiare
una situazione straordinaria, una scelta che aveva una sua giustificazione politica, per quanto
molto discutibile. Sennonché esso si rivelò una macchina infernale che stritolò i suoi stessi
promotori, facendoli finire sulla ghigliottina (Termidoro 1794, la Convenzione, ormai impaurita,
fece arrestare Robespierre e i suoi seguaci condannandoli a morte).
L’organo istituzionale del Terrore fu il Comitato di Salute Pubblica, una sorta di governo, formato
da 12 deputati, che prendeva tutte le decisioni e che fu dominato dalla personalità di Robespierre
(la Convenzione creò diversi Comitati, attraverso cui veniva esercitato il potere esecutivo, ma il
più importate fu senz’altro il Comitato di salute pubblica).
Il suo strumento operativo fu invece il Tribunale Rivoluzionario, un tribunale politico che
giudicava gli avversari e li condannava: le sentenze emesse da tale tribunale furono per lo più
scontate. Nella primavera del 1794 Robespierre si trovò a fronteggiare due opposizioni, quella di
estrema sinistra degli arrabbiati, che chiedevano l’accentuazione del Terrore e sostenevano
posizioni socialisteggianti, e quella di destra definita degli indulgenti, guidati da Danton:
quest’ultimo riteneva che la politica del Terrore, perseguita tenacemente da Robespierre, fosse
ormai inutile e dannosa, in quanto non più giustificata né dalla situazione interna (l’andamento
economico e politico, che era migliorato) né da quella esterna (l’andamento della guerra,
favorevole in quei mesi alla Francia). Gli indulgenti chiedevano quindi la fine delle esecuzioni
sommarie e il ripristino delle libertà civili e politiche, quelle stesse libertà per cui si era fatta la
rivoluzione. A questa linea si opposero soprattutto i falchi (= estremisti) del Comitato di Salute
Pubblica (tra cui Saint-Just e Couthon), che imbastirono contro Danton accuse di corruzione
(appropriazione indebita di beni) e di tradimento (accordi con i nemici della rivoluzione) e
chiesero a Robespierre di eliminarlo.
Dopo un processo politico in cui gli fu praticamente impedito di difendersi, Danton fu
ghigliottinato. Poco tempo prima erano stati condannati e ghigliottinati anche i capi degli
arrabbiati. La politica del Terrore è stata diversamente interpretata e valutata dagli storici e il
loro giudizio è dipeso anche dalla loro collocazione politica.
Alcuni contemporanei del Terrore, emigrati francesi o controrivoluzionari, videro in esso
l’incarnazione della più cieca violenza e considerarono le sue vittime quasi come santi martiri
(Vincenzo Monti).


Gli storici liberali italiani Luigi Salvatorelli e Benedetto Croce valutarono negativamente il Terrore
in quanto videro in esso qualcosa di estraneo e di contrario a quella visione umanitaria e
democratica che costituì la vera essenza della Rivoluzione francese, che aveva proclamato
appunto i diritti dell’uomo e del cittadino, aveva abbattuto il dispotismo ecc.
Secondo Croce e Salvatorelli, il Terrore rappresentò invece una sorta di degenerazione
nazionalistica ed estremistica dell’idea di libertà e di diritto, una degenerazione dovuta anche
all’influenza negativa delle teorie del Rousseau. I due storici liberali non condivisero quindi la tesi
che tendeva a giustificare il Terrore sulla base delle necessità della guerra e dei pericoli interni;
infatti “con l’accettazione da parte della maggioranza dei dipartimenti ribelli della nuova
Costituzione del 24 giugno, il momento veramente pericoloso fu superato e proprio allora la
Montagna rinviò sine die l’applicazione della Costituzione, perpetuando la dittatura”(Salvatorelli).
Inoltre “dal settembre del 1793 al giugno del ’94 è un succedersi di vittorie degli eserciti
rivoluzionari. Contemporaneamente abbiamo a Parigi un certo movimento estremistico, quello di
Hébert, di scarsa consistenza ed efficacemente controbilanciato dal moderatismo di Desmoulin e
Danton. Che cosa fece invece il Comitato di Salute pubblica e, in esso, Robespierre, asceso al
culmine della sua potenza?… Soppresse gli uni e gli altri” (Salvatorelli).
Il Terrore quindi, secondo la tesi del Salvatorelli, fu successivo e non precedente la repressione
del movimento vandeano e la sconfitta degli austro-prussiani; quindi esso si verificò dopo la
liberazione del territorio dal pericolo controrivoluzionario interno ed esterno e si manifestò in
modo aberrante e cruento soprattutto con la Legge di Pratile (la Legge dei sospetti, giugno ‘94),
voluta da Robespierre e da Couthon, “la quale sopprimendo ogni gerarchia, ogni formalità,
mandò in un mese e mezzo alla ghigliottina di Parigi più vittime che non in tutto il tempo
precedente” (in base a tale legge si poteva essere condannati sulla base di un semplice sospetto
di colpa).
Contrari a questa interpretazione liberale sono stati invece alcuni storici francesi come Aulard,
Mathiez e Lefebvre (quest’ultimo è considerato uno dei massimi storici della Grande rivoluzione),
i quali hanno giustificato in qualche modo la politica del Terrore, addossandone la responsabilità
alle forze controrivoluzionarie.
Secondo Aulard la violenza fu voluta, preparata ed attuata dapprima dalla monarchia e dalle
classi reazionarie “di fronte a una rivoluzione che si svolgeva nella legalità, fu l’antico regime, con
la sua resistenza armata, che introdusse la violenza nella Rivoluzione, e fu solo allora che, di
fronte a questa violenza, il popolo di Parigi si ribellò e oltrepassando la violenza s’impadronì della
Bastiglia”.
Tutti i successivi atti di violenza, secondo Aulard, furono imposti o provocati dalla minaccia della
reazione e della controrivoluzione.
Allo stesso modo anche Mathiez e Lefebvre hanno ritenuto che gli eccessi del Terrore fossero stati
provocati in ultima analisi dalle azioni dei controrivoluzionari “il terrore infierì specialmente nelle
due zone dove i controrivoluzionari si spinsero fino alla guerra civile e al tradimento aperto. A
dispetto degli elementi che lo estesero sconsideratamente e lo insozzarono, esso (il terrore)
rimase sino al trionfo della Rivoluzione quel che era stato sin dal primo momento: una reazione
punitiva indissolubilmente legata all’impulso difensivo contro la cospirazione aristocratica”
(Lefebvre).


INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

La storiografia sulla Rivoluzione francese è quasi sterminata e risulta alquanto difficile tentarne
una sintesi anche sommaria. Al suo interno si trova un intreccio complesso di temi. Ad esempio,
sul tema relativo all’influenza dell’illuminismo sui rivoluzionari, sono state avanzate differenti
ipotesi. Molti storici hanno ritenuto che l’influsso delle teorie politiche e giuridiche dei filosofi
illuministi come Voltaire, Rousseau, Montesquieu fosse stato determinante, mentre altri hanno
cercato di ridimensionare tale influenza, mettendo in evidenza il fatto che la maggioranza degli
illuministi non fosse certo rivoluzionaria e non attribuiva nemmeno ai propri scritti una portata
rivoluzionaria; anzi essi furono semmai dei riformatori contrari alla violenza e alla sovversione
rapida dei rapporti sociali.
Secondo il Touchard ad esempio, prima del 1789, la diffusione delle opere di Voltaire e Rousseau
era stata piuttosto limitata mentre la celebre Enciclopedia (una specie di summa del pensiero
illuminista) si era diffusa solo nei ceti agiati.
A parere di Godechot, più che Voltaire, Rousseau e Montesquieu, godettero invece prestigio ed
esercitarono un sicuro influsso sulla borghesia gli scritti dei fisiocrati, pensatori che più degli altri
esprimevano gli ideali di quella classe.
Sul significato complessivo della rivoluzione si sono delineate diverse posizioni. Il Toqueville ad
esempio ha sostenuto che la Grande rivoluzione non abbia creato ex novo una nuova società ma
abbia piuttosto portato a compimento un qualcosa che era già in atto da alcuni decenni, se non
proprio da due secoli: essa semplicemente accelerò un processo già avviato da tempo. La
Rivoluzione quindi, secondo questo parere, integrò l’opera della monarchia assolutista del ‘600 e
del ‘700, nel senso che portò a termine la costruzione di un moderno Stato centralizzato.
Contrapposto a questo è stato invece il giudizio dello storico italiano Gaetano Salvemini, per il
quale la Rivoluzione costituì effettivamente un momento di rottura radicale rispetto al passato,
poiché rovesciò in modo violento e profondo la società feudale e il regime monarchico.
Il Lefebvre a sua volta ha visto negli eventi francesi l’attuazione di ben quattro rivoluzioni: quella
aristocratica, consistente nella lotta all’assolutismo regio; quella borghese, consistente nella
conquista del potere politico da parte della borghesia; quella popolare, consistente nel ruolo
attivo e decisivo svolto dalle masse popolari, che divennero un vero e proprio soggetto politico;
quella contadina, consistente non solo nello smantellamento dell’ordine feudale ma anche nella
resistenza dei contadini ad alcune decisioni prese dai governi rivoluzionari (vedi politica
antireligiosa).
Altri storici del diritto e delle istituzioni politiche hanno visto nella Rivoluzione l’atto di nascita del
liberalismo e della democrazia moderna.
Il De Ruggiero ad esempio ha parlato di un processo implicante tre rivoluzioni: una liberale, una
democratica e una sociale.
Tutte e tre però avrebbero sviluppato un medesimo principio, quello individualistico (la libertà e i
diritti dell’individuo), tipico della mentalità borghese “nell’89 il protagonista è il Terzo stato, nella
Convenzione le forze democratiche…quindi nel ’93 le rivendicazioni di carattere sociale…Nel breve
spazio di tempo, tra il 1789 e il 1793, tre rivoluzioni si svolgono l’una nell’altra, e l’una forma
nello stesso tempo il complemento e l’antitesi dell’altra. In esse vi è come l’anticipazione e il
sommario di tutte le lotte politiche e sociali del secolo XIX”.


DIZIONARIO POLITICO

Con la Grande rivoluzione dell’89 si formarono anche nuovi termini che da allora in poi entrarono
definitivamente nel linguaggio politico comune.
In particolare la distinzione tra destra e sinistra indicò rispettivamente una politica più
conservatrice o più democratica e trasse origine dalla posizione che i deputati francesi
occupavano nei vari parlamenti (Costituente, Legislativa ecc.).
Inoltre alla parola rivoluzionario, ossia sostenitore della rivoluzione, cioè della trasformazione
rapida e radicale dell’assetto sociale e politico, fu contrapposto il termine controrivoluzionario o
“reazionario”, ad indicare chi si oppose con ogni mezzo alla rivoluzione e a qualsiasi
cambiamento.

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