PIRANDELLO UNO NESSUNO E CENTOMILA

PIRANDELLO UNO NESSUNO E CENTOMILA


Dopo “Si gira”, Pirandello si dedica prevalentemente al teatro, tuttavia lavora ancora ad un romanzo, “uno, nessuno e centomila” iniziato nel 1909 ma portato a termine molto più tardi, pubblicato nel 1925 su una rivista e nel 1926 in un volume a parte. Il problema si ricollega al “Fu Mattia Pascal” riprendendo il tema centrale della visione pirandelliana : la crisi d’identità individuale.

Il protagonista Vitangelo Moscarda, scopre casualmente che gli altri si fanno di lui un’immagine diversa da quella che egli si è creato di se stesso, scopre cioè di non essere “uno”, come aveva creduto fino a quel momento, ma di essere “centomila”, nel riflesso delle prospettive degli altri e quindi “nessuno”. Questa scoperta fa saltare tutto il suo sistema di certezze e gli determina una crisi sconvolgente. Vitangelo ha orrore delle “forme” in cui gli altri lo rinchiudono e nelle quali non si riconosce, ma ha anche paura della solitudine in cui sprofonda nello scoprire di non essere “nessuno”. Decide allora di distruggere tutte le immagini che gli altri hanno di lui, prima di tutte quella dell’ “usuraio” (il padre gli aveva infatti lasciato in eredità una Banca) cercando di essere “uno per tutti. Ricorre quindi ad una serie di gesti folli e sconcertanti come vendere la Banca che gli assicura l’agiatezza.  Ferito gravemente da un’amica della moglie colta da un raptus di follia, per evitarle lo scandalo cede tutti i suoi averi per fondare un ospizio per poveri dove egli stesso si fa ricoverare estraniandosi totalmente dalla vita sociale. Proprio in questa scelta trova una sorta di guarigione dalle sue ossessioni rinunciando definitivamente ad ogni identità e abbandonandosi pienamente al puro fluire della vita, rinascendo nuovo ogni istante, vivendo tutto fuori di se e identificandosi di volta in volta nelle cose che lo circondano, alberi, vento, nuvole.

Il romanzo porta alle estreme conseguenze la critica all’identità che era stata proposta più di vent’anni prima nel “Fu Mattia Pascal”  : l’eroe però non si limita più ad una condizione negativa, sospesa (Mattia Pascal), ma trasforma la mancanza di identità in una condizione positiva, gioiosa, in liberazione completa della “vita” da ogni limitazione mortificante.

In questo abbandonarsi al “fluire della vita” in questo perdersi nella natura in una sorta di esperienza panica è possibile scorgere quell’orrazionalismo misticheggiante che connota l’ultima stagione pirandelliana.

Il romanzo porta anche all’estremo la disgregazione della forma romanzesca già sperimentata con le prove narrative precedenti, in particolare il “Fu Mattia Pascal”. Si tratta anche qui di una narrazione retrospettiva da parte del protagonista, ma essa non si concreta più nella forma organica del memoriale scritto o del diario, ma resto allo stato “magmatico” , informale di un ininterrotto monologo. La voce narrante si abbandona ad un in convulso argomentare, riflettere, divagare che dissolve la narrazione dei fatti. Per una buona metà del libro non vi è racconto, ma solo l’arrovellarsi ossessivo del protagonista, monologante sui temi dell’identità fittizia, dell’inconsistenza della persona.


 

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