La Germania dopo la I Guerra mondiale

La Germania dopo la I Guerra mondiale

 

Il Secondo Reich fondato da Bismarck nel 1870 crollò nel novembre 1918 sotto il peso della sconfitta militare: l’esercito ripiegò in disordine dalla linea del Reno. Il governo fu allora assunto da un Consiglio di commis­sari del popolo, mentre nelle città e nelle fabbriche si formavano spontaneamente – seguendo il modello sovietico – i Consigli di operai e di soldati che presero a organizzare – per quel che pote­rono – la vita civile (requisizioni e distribuzioni di viveri alle po­polazioni, controllo dei luoghi di produzione e dei mercati). Mentre l’agitazione rivoluzionaria si espandeva rapidamente nel paese, il 9 novembre veniva proclamata la Repubblica.

Un ruolo importante poteva ancora essere svolto dal vecchio Partito socialdemocratico (SPD), seguito a Berlino dalla mag­gior parte dei lavoratori; questo era, però, contrastato sulla sua sinistra da una galassia di gruppi radicali: i più importanti tra questi erano gli «indipendenti» del Partito socialdemocratico (USPD) e i rivoluzionari della Lega di Spartaco che formarono il primo nucleo del Partito comunista tedesco (KPD). Gli sparta­chisti erano guidati da due grandi leaders: la polacca Rosa Luxemburg (1870-1919), studiosa dell’imperialismo, e Karl Liebknecht (1871-1919), un avvocato berlinese antimilitarista. I socialdemocratici aspiravano ad una reale democratizzazione della vita politica tedesca, ma rifiutavano il modello sovietico. Esigevano, perciò, l’immediata convocazione d’una assemblea costituente che avrebbe potuto esprimere la voce di tutto il paese e in tal modo – cosi essi pensavano – sbarrare la strada al co­munismo. Gli indipendenti e gli spartachisti erano, invece, osti­li all’idea della Costituente: essi volevano che i Consigli diven­tassero le strutture di base della nuova democrazia tedesca, an­che a costo, se fosse stato necessario, d’una rivoluzione.

L’irriducibilità di questa contrapposizione sboccò nella lotta armata. Nei primi giorni del gennaio 1919 gli spartachisti inci­tarono i berlinesi a rovesciare il governo: la risposta del proleta­riato cittadino fu deludente, ma bastò a scatenare la repressione da parte del governo diretto dai socialdemocratici. Le vittime della «settimana di sangue» furono poco meno di cento; tra que­ste Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, sommariamente passati per le armi. Friedrich Ebert (1871-1925), il cancelliere socialde­mocratico del governo provvisorio, tollerò che alla repressione partecipassero, accanto alle truppe regolari, anche i «Corpi fran­chi», formazioni volontarie anticomuniste. I vincitori sfilarono per le vie di Berlino «senza trovare ostacoli, anzi applauditi dai ceti medi […]; il ricordo di quelle giornate e del brutale assassi­nio di Liebknecht e della Luxemburg fu uno dei fattori che im­pedirono la riconciliazione delle Sinistre quando Hitler bussò al­la porta» (Craig).

  1. La Costituzione della Repubblica di Weimar (agosto 1919). Una sfida alla tradizione tedesca?

Sempre nel gennaio 1919, pochi giorni dopo la drammatica conclusione dell’insurrezione spartachista, si andò alle elezioni per la Costituente. I comunisti si astennero; le urne premiarono i socialdemocratici (37% dei voti) e gli indipendenti (7,6% dei voti), ma non in misura tale da rendere loro possibile la forma­zione d’una maggioranza autonoma. Si costituì quindi un go­verno di coalizione allargato ai cattolici e ai liberaldemocratici, presieduto da Friedrich Ebert, «l’eroe della settimana di san­gue». Il 28 giugno si procedette alla ratifica del Trattato di pace di Versailles (cap. II, par. 14, lett. 14). La durezza delle condi­zioni scatenò la reazione dei ceti medi nazionalisti e dell’eserci­to: comunisti e socialisti furono indicati come responsabili della sconfìtta. Si disse che essi avevano «assestato un colpo di pugna­le nella schiena dei combattenti». Dilagarono le manifestazioni, le rappresaglie e gli omicidi politici.

I lavori della Costituente si tennero a Weimar, un antico cen­tro della Turingia legato alla memoria e alla cultura di Goethe. La scelta non era casuale e denotava la volontà di rompere con la tradizione militare ed imperiale tedesca, simboleggiata dalla Prussia e da Berlino.

La Costituzione- che fu detta di Weimar – fu promulgata 1’11 agosto 1919 e indubbiamente proponeva un modello avanzato di democrazia parlamentare. Un Parlamento (Reichstag) eletto a suffragio universale (maschile e femminile) avrebbe presentato e attuato le leggi che un’altra assemblea (Reichsrat), organo del­la rappresentanza regionale, avrebbe definitivamente confer­mato. Poteri particolari furono conferiti all’esecutivo. Il presi­dente della Repubblica (Reichspresident), eletto per sette anni dal  voto diretto dei cittadini, doveva nominare il capo del governo Reichskanzler che avrebbe provveduto alla formazione del mi­nistero. Spettava inoltre al Reichspresident – responsabile di fron­te agli elettori e non alle Camere – il diritto di sciogliere le as­semblee legislative ed anche di sottoporre a referendum popola­re, quando lo credesse opportuno, qualsiasi provvedimento, tan­to delle Camere che dell’esecutivo. In tal modo si dava vita ad una forma di governo che fondeva aspetti del regime assem­bleare con quelli presidenziali e che fu, comunque, caratteriz­zato da un’accentuata precarietà dei ministeri e da un continuo rafforzamento del ruolo del presidente (Della Peruta). E stato però osservato che, nonostante la novità dell’impianto costitu­zionale, rimanevano intatti il ruolo e il prestigio dello stato mag­giore, della banca, dell’industria, degli, ossia di quei «corpi separati» che continuarono a do­minare la società tedesca. Più che una svolta radicale – si disse non a torto – gli anni della Repubblica di Weimar segnarono un compromesso tra la vecchia e la nuova Germania.

Una prova della debolezza delle istituzioni di Weimar si ebbe nel marzo del 1920 con il Putsch tentato da un alto funzionario prussiano, Wolfgang Kapp (1858-1922), leader d’un raggruppa­mento che aveva assunto il nome di «Partito della Patria tede­sca». Forti dell’appoggio degli alti comandi militari, i golpisti si impadronirono del centro di Berlino e costrinsero il governo a riparare a Dresda; il colpo di Stato non fu neutralizzato dalle for­ze armate della Repubblica, bensì da un compatto sciopero ge­nerale proclamato dalle associazioni operaie. Altrettanto signifi­cativo fu il fatto che i promotori del complotto non incorsero in alcun provvedimento punitivo e poterono continuare ad esercitare le loro funzioni.

In quei primi cruciali mesi del 1920, mentre in un quadro di disordine generalizzato avanzavano le prime avvisaglie dell’in­flazione, si preparavano gli schieramenti della guerra civile. I comunisti, insorgendo nei centri industriali del­la Ruhr, creavano effimeri governi provvisori e in Baviera si or­ganizzavano le prime formazioni del Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi (NSDAP). Il 24 febbraio 1920, in una birreria di Monaco, un ex combattente austriaco, Adolf Hitler (1889-1945), illustrò a poco più di duecento persone le 25 tesi ispira­trici del partito che doveva «rimettere in equilibrio il corso del Destino […], dettare le leggi atte a riportare lo Stato tedesco ai suoi principi immortali: la nazione e il sangue». Il Partito nazio­nalsocialista – uno strumento per la lotta contro il parlamenta­rismo, il comunismo e l’ebraismo – doveva preparare la nazione germanica ad un futuro nel quale «la razza superiore degli Arii, la razza dei padroni», avrebbe potuto disporre dei mezzi e delle possibilità di tutto il globo». Con quella prima manifestazione, il Partito nazionalsocialista – ricorda Hitler nelle sue memorie -«spaccò il quadro ristretto delle piccole associazioni e si apri per la prima volta all’opinione pubblica presentandosi come il più potente fattore dell’avvenire del popolo tedesco».

Si votò ancora nel giugno 1920 e le urne registrarono un so­stanziale spostamento a destra dell’opinione. In un panorama generale molto frammentato i socialdemocratici crollarono da 11 milioni e mezzo di votanti a poco più di 6; pressoché dimez­zati risultarono anche i cattolici e i democratici. La sconfitta della SPD segnò una svolta nella storia di Weimar: i socialdemocra­tici abbandonarono il governo, «la Repubblica era, almeno per il momento, sfuggita di mano ai repubblicani».

  1. La Repubblica di Weimar: gli anni terribili (1922-1923)

Dopo le elezioni del giugno 1920 e la sconfitta dei socialde­mocratici, la politica di Weimar fu gestita dai cattolici e dai mo­derati: dal Partito tedesco nazionale, dal Partito tedesco popo­lare, dal Partito democratico tedesco. Nei primi mesi del 1921 le potenze alleate stabilirono che la Germania avrebbe dovuto pa­gare «in conto riparazioni» l’astronomica somma di 132 miliar­di di marchi-oro da versarsi in 42 rate annuali. Qualcuno ha af­fermato che, «per sfuggire ad un obbligo fantastico e quasi im­possibile, i Tedeschi deprezzarono il marco». In realtà l’infla­zione, già innescata durante gli anni di guerra, fu solo aggrava­ta dal peso delle riparazioni: raggiunse, comunque, dimensioni drammatiche nel 1922 e nel 1923. Se nel gennaio del 1921 per acquistare un dollaro occorrevano 65 marchi, nel gennaio 1922 ne erano necessari quasi 200 e circa 500 nel luglio successivo. L’inflazione polverizzò in pochi mesi il valore della moneta te­desca: nel gennaio del 1923 un dollaro costava circa 18.000 mar­chi, 4,5 milioni nell’agosto e 4000 miliardi a novembre. Ingenti patrimoni si ridussero a carta straccia, i redditi dei ceti medio-al­ti crollarono, il livello di vita dei lavoratori divenne quattro o cin­que volte inferiore rispetto a quello d’anteguerra. Solo alcuni gruppi di speculatori, pagando le merci acquistate all’interno del paese con denaro svalutato e vendendole oltre confine in cambio di solida valuta straniera, moltiplicarono i propri profit­ti. L’industria pesante tedesca conquistò, tra il 1921 e il 1923, i mercati dell’Europa scandinava, dell’America latina, dell’Indo­nesia (2ukov).

Nel dicembre 1922 il governo di Weimar chiese una sospen­sione temporanea dei pagamenti, ma la commissione alleata di controllo, per tutta risposta, ordinò a un contingente di truppe francesi e belghe l’occupazione del bacino industriale della Ruhr. L’intervento fu giustificato con la necessità di assicurare materialmente le consegne del carbone e del legname dovuti dalla Germania in conto riparazioni. Weimar ordinò la resisten­za passiva, ma non mancarono atti di sabotaggio ed attentati nei confronti degli occupanti, cui fu risposto con violenze e fucila­zioni.

Alla fine del 1923, «il più difficile dei due anni terribili», la si­tuazione fu resa drammatica da un nuovo tentativo di colpo di Stato, tramato, questa volta, dal leader àe\ Partito nazionalsocia­lista dei lavoratori tedeschi (NSDAP), Adolf Hitler, che, appog­giato da un gruppo di alti ufficiali, si impadroni per qualche giorno di Monaco e vi proclamò un governo provvisorio desti­nato, peraltro, ad eclissarsi rapidamente quando si trovò di fron­te alla decisa reazione delle forze armate. Hitler, arrestato e con­dannato a cinque anni di carcere, fu graziato dopo un anno di detenzione.

Giovò al ristabilimento della normalità l’opera di Gustav Stresemann (1878-1929) -un rappresentante della grande industria tedesca – che, impegnandosi nell’opera di governo dal 1923 si­no all’anno della sua morte, tentò di reinserire la Germania – co­me si vedrà nel prossimo paragrafo – nella pacifica comunità in­ternazionale.

  1. La Repubblica di Weimar: gli Accordi di Locarno (1925)

Nella commissione alleata per le riparazioni di guerra le po­sizioni più intransigenti nei confronti della Germania erano sta­te prese dalla Francia, mentre Stati Uniti e Gran Bretagna, preoccupati dell’insolvibilità tedesca, avevano promesso quelle iniziative per il risanamento dell’economia germanica ricordate come Piano Dawes (1924) e Piano Young (1929) dal nome dei finanzieri che le misero a punto. In sostanza, si cercò di stabili­re un nuovo spirito di collaborazione tra vinti e vincitori: una po­litica nella quale si incontrarono il tedesco Gustav Stresemann e Aristide Briand (1862-1932), ministro francese degli Esteri. Le prime testimonianze del nuovo spirito di cooperazione si mani­festarono negli Accordi di Locarn dell’ottobre 1925. In questo trattato, troncando un contenzioso secolare, la Germania rico­nobbe l’intangibilità delle frontiere occidentali, quali erano sta­te fissate a Versailles; l’anno dopo (1926), la Repubblica tedesca venne ammessa a far parte della Società delle Nazioni. Rimane­vano, tuttavia, aperti il problema della revisione delle frontiere orientali, la questione delle minoranze in Cecoslovacchia ed in Austria, le divergenze relative a Danzica ed al «corridoio polac­co»; questi nodi avrebbero offerto altrettanti pretesti per lo scatenamento della seconda guerra mondiale.

Rimaneva soprattutto vivo nell’atmosfera politica di Weimar quello che è stato chiamato il «malessere tedesco»: il contrasto tra gli ideali della pacifica cosmopoli e il «demonismo della po­litica di potenza». Negli ambienti militari pro­vati da una sconfìtta storica, nei diversi strati d’una società civile disorientata dalla crisi economica e dalla trasformazione di tut­ti i valori, emergeva una richiesta profonda di ordine. Vi era chi concepiva l’ordine in modo diverso da quello tradizionale, co­me ricerca degli instabili equilibri della democrazia, ma vi era anche chi continuava ad intenderlo come delega dei poteri ad un capo illuminato, e non mancavano coloro che preparavano gli strumenti – ideologici e pratici – che avrebbero dovuto im­porre l’ordine al posto della libertà. Questi contrastanti motivi, colti nella loro dimensione esistenziale, uniti al ricordo della guerra e all’oscura premonizione di tempi ancora più duri, si in­trecciarono nella vivacissima cultura di Weimar, testimonianza delle speranze e delle paure del primo Novecento.

  1. La «grande crisi» del 1929 apre la strada al nazismo

L’inflazione che aveva mandato in rovina i ceti umili e medi fini in Germania col rafforzare il grande capitale industriale (Zukov). L’anno 1924 segnò il momento del riassetto, cui segui, nel 1928, alla vigilia della crisi, un nuovo balzo in avanti che con­senti alla produzione di raggiungere e superare (di circa il 15%) i livelli del 1913. La chimica e la metallurgia continuarono ad es­sere i settori trainanti dell’economia. Grazie alla diplomazia di Gustav Stresemann, che aveva saputo – lo abbiamo accennato -reintrodurre la Germania nel pacifico contesto europeo, ed all’ingegno dei suoi ricercatori, la Repubblica di Weimar vinse la «battaglia dei brevetti», e la benzina sintetica, il caucciù, il rayon prodotti dai grandi trusts tedeschi conquistarono nei tar­di anni Venti il mercato mondiale. Sul piano politico, alla stasi della socialdemocrazia si contrapponeva l’avanzata della Destra tradizionale e dei comunisti. La Destra «nuova», eversiva, vio­lenta e razzista (par. 4), costituita dai nazionalsocialisti aderenti alla NSDAP, il partito di Hitler, rimase negli anni Venti una for­mazione minore, caratterizzata, per il momento, soltanto dalla struttura militare di alcuni suoi reparti (le Schutz-Staffeln, le SS, e le Sturmabteilungen, le SA) particolarmente addestrati allo scon­tro e pronti alla violenza.

Nel 1925 le elezioni per la presidenza della Repubblica erano state vinte dal vecchio maresciallo Paul Ludwig von Hindenburg (1847-1934), un rappresentante della Destra tradizionale e uno degli ultimi testimoni della Germania imperiale. Lo scarto tra i due schieramenti che in quella occasione si fronteggiarono era risultato minimo: 14,6 milioni di voti contro 13,7. Fino al 1929 gli equilibri generali rimasero più o meno tali. Furono i catastrofici effetti della «grande crisi» (cap. VI, paragrafi 1-6) a sconvolgere l’assetto della Repubblica. Tra il 1929 e il 1932 sopravvennero momenti durissimi. Molte industrie fallirono, la produzione calò del 58%, i disoccupati superarono i 6 milioni su una popolazio­ne complessiva di 66 milioni di abitanti. Troppi Tedeschi aveva­no perduto la fiducia in uno Stato che, nel giro di poco più d’un decennio, aveva dato loro la sconfitta in guerra, l’inflazione e poi ancora disoccupazione e miseria. In tale contesto avanzava con successo la propaganda eversiva dei nazisti che promettevano di cambiare le regole del sistema e proponevano una forma nuova di Stato. Per l’ideologia nazionalsocialista rimandiamo alle testi­monianze ed alle riflessioni cui sono dedicate, nella sezione an­tologica, le letture 7-13 e 28-30; qui basterà dire che i nazisti pro­clamavano l’esigenza di tornare allo spirito antichissimo del germanesimo e – rifiutando tutti i valori della civiltà moderna (il cri­stianesimo, il liberalismo, la democrazia) – intendevano fondare lo Stato sul mito della razza ariana (P.n.T.) e sul principio dell’obbedienza assoluta al capo carismatico (Fùhrertum).

I nazisti rivendicavano la superiorità biologica della nazione tedesca destinata al dominio del mondo. La loro bandiera era la «svastica» (P.n.T.), o croce uncinata (un simbolo mutuato dall’antica India, che essi ritenevano culla dei popoli ariani), un emblema che sostituì, con l’avvento del nazismo, la bandiera ne­ro-rosso-oro della Repubblica di Weimar. L’ecletticità del loro programma era tale da attirare insieme conservatori e rivoluzionari: anche questo spiega la fortuna del movimento. Hitler pre­sentava, infatti, ai Tedeschi il Partito nazionalsocialista come il solo strumento adeguato a tutelare la difficilissima congiuntura del momento: intendeva arbitrare lo scontro sociale favorendo i ceti popolari, senza porre in discussione i rapporti di proprietà e tantomeno il sistema di produzione. Lo Stato nazionalsociali­sta doveva essere uno Stato forte, antiparlamentare, anticomu­nista: avrebbe soprattutto assolto alla missione di vendicare i tor­ti perpetrati a danno dei Tedeschi dal Trattato di Versailles.

Nella Germania disperata e confusa del dopoguerra, dell’in­flazione e della crisi, gli ex combattenti, gli artigiani, i nego­zianti, la piccola borghesia delle città e delle campagne, moltis­simi studenti prestarono fede a questo messaggio. Le prime ele­zioni tenute a ridosso di tale crisi (settembre 1930) rivelarono che i nazionalsocialisti disponevano ormai di 6 milioni e mezzo di voti. A pochi mesi di distanza, questo successo sarebbe stato seguito da una serrata serie di trionfi elettorali che nel luglio 1932 rivelarono come la NSDAP fosse ormai divenuta il primo partito sulla scena politica tedesca. Mentre Hitler reclamava tut­to il potere, le squadre naziste imperversavano nelle città finen­do di screditare le ultime parvenze del regime costituzionale. Il 30 gennaio 1933 il maresciallo Hindenburg – cedendo alle sol­lecitazioni e superando le sue perplessità – conferi a Hitler l’in­carico di Reichskanzler per la formazione del nuovo governo. La Repubblica di Weimar aveva i giorni contati.

  1. L’eliminazione delle opposizioni e la conquista del potere

Molti Tedeschi erano convinti che i nazionalsocialisti, giunti al potere, avrebbero finito con l’accettare la prospettiva della normalizzazione e sarebbero entrati nell’ambito della legalità. In realtà Hitler intendeva liquidare le istituzioni repubblicane e instaurare, con la sua dittatura personale, uno Stato totalitario (P.n. T.). Poiché la Costituzione di Weimar prevedeva che la desi­gnazione del nuovo governo fosse convalidata dal voto popola­re, le elezioni furono indette per il 5 marzo di quell’anno 1933. Pochi giorni prima della consultazione un incendio distrusse la sede del Reichstag, il Parlamento germanico. Si trattò, molto ve­rosimilmente, d’una provocazione nazista. Hitler non esitò – co­munque – ad attribuire la responsabilità dell’accaduto ai comu­nisti: l’accusa servi per giustificare una dura repressione che ostacolò la campagna elettorale di tutte le opposizioni. Nono­stante le violenze e le intimidazioni, nella tornata elettorale del 5 marzo 1933 la NSDAP non varcò l’agognata soglia della mag­gioranza assoluta; si attestò infatti intorno al 44%, mentre quasi un terzo dell’elettorato rimaneva fedele ai partiti della Sinistra

(SPD, KPD).

Hitler, comunque, non intendeva governare con un ministe­ro di coalizione; esigeva, ormai, tutto il potere. Il 23 marzo fu presentato al Parlamento un decreto che – con la giustificazio­ne «dello stato di bisogno del popolo» – annullava le funzioni legislative dell’assemblea e, per quattro anni, le attribuiva al Reichskanzler. L’opposizione dei socialdemocratici fu messa a tacere e «con 441 voti favorevoli e 81 contrari la democrazia in Germania fu definitivamente sepolta». Governatori nazisti furo­no inviati nelle province, le assemblee popolari degli Stati re­gionali (Lànder) furono abolite e la struttura federale del Reich tedesco, antica di secoli (voi. II, cap. XII, par. 8, letture 16, 17 e 18), fu distrutta.

Nel 1934, tuttavia, il Partito nazionalsocialista non costituiva ancora un blocco monolitico. Accanto alla «Destra reazionaria», legata agli alti gradi dell’esercito ed ai ceti finanziari, esisteva una «Sinistra» piccolo-borghese e radicalizzante che reclamava una «seconda fase anticapitalistica della rivoluzione». Tali esi­genze erano avanzate con forza da Ernst Rohm (1887-1934), «nazista della prima ora» e comandante delle SA, un corpo co­stituito da reparti d’assalto che nell’ultimo anno aveva raggiun­to la consistenza di oltre 2 milioni di aderenti e che si contrap­poneva – come «armata popolare delle camicie brune» – alle for­ze armate dell’esercito regolare.

Posto di fronte alla prospettiva d’una lacerazione che avrebbe investito tutta la società tedesca, Hitler non esitò di fronte ad una decisione estrema: ottenuto l’appoggio dello stato maggiore, af­fidò alle SS l’esecuzione d’una terribile «purga». Rohm fu truci­dato con numerosi capi e gregari delle «camicie brune» in oc­casione d’un raduno presso la stazione climatica di Wiessee, non lontana da Monaco. Nello stesso tempo due «fedeli» di Hitier, Hermann Gòring (1893-1946) e Heinrich Himmler (1900-1945), procedevano a Berlino all’uccisione di altri esponenti delle SA. All’esecuzione – ricordata come la «notte dei lunghi coltelli» (30 giugno 1934) – seguirono arresti, processi, fucila­zioni sommarie di personalità invise o sospette. La versione uffi­ciale diede notizia dell’uccisione di settantotto tra «cospiratori e ribelli»; oggi gli storici avanzano la cifra di oltre mille vittime. Nel corso di quella stessa estate, il 2 agosto 1934, moriva il vec­chio maresciallo Hindenburg e, a sole tre ore dal decesso, la stampa annunciava che, in base ad una legge «approvata dal Ga­binetto il giorno prima», le cariche di Reichskanzler e Reichspresi-dent erano state unificate e che Adolf Hitler aveva assunto i po­teri di capo dello Stato e di comandante supremo delle forze ar­mate. Da allora Hitler fu designato ufficialmente con i titoli di Fùhrer e Cancelliere del Reich.

 

  1. La costruzione dello Stato totalitario

Pervenuto alla «solitudine del potere», Hitler procedette a quello che egli stesso volle chiamare «l’adeguamento» (Gkich-schaltung) delle istituzioni, cioè al rimpiazzo delle strutture de­mocratiche con gli organismi totalitari del Terzo Reich. Per tra­sformare la società civile tedesca libera e pluralistica in una «co­munità di popolo» cementata dai riti della terra e della razza, nonché dall’obbedienza al capo illuminato (letture 7, 8, 9 e 10), era anzitutto necessario escludere dal contesto della nazione non solo gli oppositori e i dissenzienti, ma anche tutti i «diver­si». Ciò significò lo scioglimento dei partiti e dei sindacati che furono dichiarati organizzazioni illegali e furono sostituiti con il  Partito nazionalsocialista («partito unico»: il solo tramite rico­nosciuto tra il «popolo» e il «capo») e con il «fronte tedesco del lavoro», organizzato secondo il modello fascista delle Corpora­zioni (cap. IV, par. 15).

Dalla comunità del popolo tedesco dovettero essere esclusi tut­ti i cittadini di origine straniera, quanti non potevano vantare una «pura discendenza ariana» e soprattutto gli Ebrei, «razza negati­va […] responsabile della morale da servi che regna nel mondo». L’odio razzista si intrecciava nei nazisti alle leggende antisemite che nel Medioevo avevano fatto d’una civilissima popolazione il capro espiatorio del malcontento popolare. Contro i 500.000 Ebrei tedeschi si rivolsero, sin dal 1935, le Leggi di Norimberga che tolsero loro la parità dei diritti civili e costituirono la premessa delle persecuzioni sistematiche che si sarebbero dovute conclu­dere con lo sterminio esteso anche agli Ebrei non tedeschi (ca­pitoli Vili e IX). Le persecuzioni antisemite si inserivano nel pro­gramma di «difesa della razza» che Hitler aveva posto alla base del suo movimento: si procedette all’eliminazione fisica degli in­fermi di mente, alla sterilizzazione imposta per legge ai portato­ri di malattie ereditarie, alla persecuzione degli omosessuali, con­siderati responsabili della degradazione del «popolo eletto».

La persecuzione contro i «diversi» non si arrestò neppure di fronte alle opere dell’arte e della cultura. Sin dal maggio 1933 si dovette assistere al pubblico rogo, sulle piazze, dei libri di auto­ri considerati, per i loro convincimenti democratici, esponenti di un’«arte degenerata» o comunque «indegni dello spirito te­desco». Le biblioteche vennero epurate degli «autori di sini­stra», una definizione che accomunava gli autori del XVIII e del XIX secolo e quelli contemporanei. Il nazismo condannò tutta l’arte moderna: dai musei furono ritirate le opere più significa­tive di quei tempi. All’architettura del Bauhaus (lett. 15), defini­ta «bolscevica», fu contrapposta l’architettura nazionalsocialista, ideata dallo stesso Hitier e realizzata nei giganteschi edifici pub­blici del Terzo Reich che avrebbero dovuto segnare «per millen­ni» i fasti della nuova civiltà.

Luoghi tragicamente simbolici dell’emarginazione dei «di­versi» furono i Lager, campi di concentramento gestiti dalle SS o dalle SA con un rigore che provocò troppo spesso la morte dei reclusi: tra il 1933 e il 1939 furono internati quasi un milione di dissenzienti, tra i quali circa 350.000 aderenti al Partito comuni­sta. Nello stesso periodo la magistratura asservita al regime pro­nunciò oltre duemila condanne a morte. Molti oppositori (poli­tici, uomini di cultura, Ebrei) riuscirono a mettersi in salvo con la fuga. Tra i Tedeschi più illustri scampati alle persecuzioni ri­corderemo il fisico Einstein, lo storico Meinecke, il romanziere e saggista Mann, il drammaturgo Brecht.

Da parte del proletariato mancò una resistenza di massa. Ciò si dovette in parte alla tecnica della propaganda – che, con spet­tacolari parate militari e sportive, con feste pubbliche incorni­ciate in scenografie monumentali, seppe portare a livelli avan­zati il processo di inserimento degli individui nel «grande tutto» della collettività nazionale -, ma in parte anche alla ripresa pro­duttiva che dette sicurezza e lavoro ai ceti operai. La media dei disoccupati, che nel 1932 era di circa 6 milioni, si ridusse nel 1938 a mezzo milione; questo anche grazie ad un grandioso pro­gramma di lavori pubblici, di edilizia statale e privata. «Prestiti  governativi ed esenzioni fiscali – scrive uno storico – incoraggia­rono la ripresa e l’espansione economica […], le esportazioni di capitali e l’uso di valuta estera vennero sottoposti a rigidi con­trolli, si proclamò come obiettivo dello sviluppo il raggiungi­mento dell’autarchia, cioè di uno stato di autosufficienza tale da rendere la Germania indipendente dall’economia mondiale e, insieme, capace di prepararsi alla guerra». Se non la popolarità, il regime riusci, comunque, a garantirsi un alto grado di con­sensi che sarebbero durati almeno fino a quando la popolazio­ne avesse conservato immutato il suo livello di vita.

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