Nietzsche Nascita della tragedia

Nietzsche Nascita della tragedia

Apollineo e dionisiaco ne La nascita della tragedia


Il primo paragrafo de La nascita della tragedia illustra il significato di quei principi apollineo e dionisiaco che sostengono tutta la ricostruzione nietzscheana delle origini religiose dell’arte tragica. Una volta afferrato il senso dell’opposizione qui descritta, diventa difficile sottrarsi al fascino che da essa emana e risulta quasi inevitabile accoglierla come una vera e propria chiave di lettura applicabile a fenomeni estetici di diversa natura e provenienza. Quanto di apollineo e quanto di dionisiaco si può riscontrare nelle produzioni dell’arte contemporanea, della musica, del cinema? E in quale misura i due concetti si prestano a descrivere certe forme moderne di esperienza: la partecipazione a eventi collettivi, la festa, il concerto, forse persino l’evento sportivo?
Possiamo intuire da queste pagine la portata anticlassicistica della lettura che Nietzsche dà del mondo greco e insieme comprendere la vastità dell’orizzonte filosofico, estetico e storico che vi viene preso in considerazione.
Avremo acquistato molto per la scienza estetica, quando saremo giunti non soltanto alla comprensione logica, ma anche alla sicurezza immediata dell’intuizione che lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco, similmente a come la generazione dipende dalla dualità dei sessi, attraverso una continua lotta e una riconciliazione che interviene solo periodicamente. Questi nomi noi li prendiamo a prestito dai Greci, che rendono percepibili, a chi capisce, le profonde dottrine occulte della loro visione dell’arte non certo mediante concetti, bensì mediante le forme incisivamente chiare del loro mondo di dèi. Alle loro due divinità artistiche, Apollo e Dioniso, si riallaccia la nostra conoscenza del fatto che nel mondo greco sussiste un enorme contrasto, per origine e per fini, fra l’arte dello scultore, l’apollinea, e l’arte non figurativa della musica, quella di Dioniso: i due impulsi così diversi procedono l’uno accanto all’altro, per lo più in aperto dissidio fra loro e con un’eccitazione reciproca a frutti sempre nuovi e più robusti, per perpetuare in essi la lotta di quell’antitesi, che il comune termine «arte» solo apparentemente supera; finché da ultimo, per un miracoloso atto metafisico della «volontà» ellenica, appaiono accoppiati l’uno all’altro e in questo accoppiamento producono finalmente l’opera d’arte altrettanto dionisiaca che apollinea della tragedia attica.
Per accostarci di più a quegli impulsi, immaginiamoli innanzitutto come i mondi artistici separati del sogno e dell’ebbrezza, fra questi fenomeni fisiologici si può notare un contrasto corrispondente a quello fra l’apollineo e il dionisiaco […].
La bella parvenza dei mondi del sogno, nella cui produzione ogni uomo è artista pieno, è il presupposto di ogni arte figurativa, anzi, come vedremo, altresì di una metà essenziale della poesia. Nella comprensione immediata della figura noi godiamo, tutte le forme ci parlano, non c’è niente di indifferente e di non necessario. Tuttavia, nonostante la vita suprema di questa realtà sognata, traluce ancora in noi il sentimento della suaillusione: almeno questa è la mia esperienza, sulla cui frequenza, anzi normalità, avrei da addurre più di una testimonianza e le dichiarazioni dei poeti. L’uomo filosofico ha anzi il presentimento che anche sotto questa realtà in cui viviamo e siamo ce ne sia nascosta una seconda affatto diversa, che cioè anch’essa sia un’illusione; e Schopenhauer indica addirittura come segno distintivo dell’attitudine filosofica il dono naturale per cui a qualcuno gli uomini e tutte le cose appaiono a volte come meri fantasmi e immagini di sogno […]. E forse più d’uno ricorda, come me, di essersi talvolta detto, nei pericoli e nei terrori del sogno, per incoraggiarsi, e con successo: «È un sogno! Voglio continuare a sognarlo!». Come pure mi è stato raccontato di persone che erano in grado di proseguire per tre e più notti successive la concatenazione di uno stesso, identico sogno: fatti che attestano chiaramente come il nostro essere intimo, il sostrato comune di tutti noi, sperimenti in sé il sogno con profondo piacere e gioiosa necessità.
Questa gioiosa necessità dell’esperienza del sogno è stata ugualmente espressa dai Greci nel loro Apollo: Apollo, come dio di tutte le capacità figurative, è insieme il dio divinante. Egli, che secondo la sua radice è il «risplendente», la divinità della luce, domina anche la bella parvenza del mondo intimo della fantasia. La superiore verità, la perfezione di questi stati in contrasto con la realtà quotidiana solo lacunosamente intelligibile, poi la profonda coscienza della natura che nel sonno e nel sogno guarisce e aiuta, sono a un tempo in un rapporto simbolico di analogia con la facoltà divinatoria e in genere con le arti, da cui la vita viene resa possibile e degna di essere vissuta. Ma anche quella linea delicata, che l’immagine del sogno non può oltrepassare, per non agire patologicamente (in caso contrario la parvenza ci ingannerebbe come grossolana realtà), non deve mancare nell’immagine di Apollo: quella moderata limitazione, quella libertà dalle emozioni più violente, quella calma piena di saggezza del dio plastico. Il suo occhio deve essere «solare», in conformità alla sua origine; anche quando è in collera e guarda di malumore, spira da esso la solennità della bella parvenza. E così potrebbe valere per Apollo, in un senso eccentrico, ciò che Schopenhauer dice dell’uomo irretito nel velo di Maya: «Come sul mare in furia che, sconfinato da ogni parte, solleva e sprofonda ululando montagne d’onde, un navigante siede su un battello, confidando nella debole imbarcazione; così l’individuo sta placidamente in mezzo a un mondo di affanni, appoggiandosi e confidando nel principium individuationis». Si dovrebbe anzi dire di Apollo che l’incrollabile fiducia in quel principium e il placido acquietarsi di colui che da esso è dominato, hanno trovato in lui la loro espressione più sublime, e si potrebbe definire lo stesso Apollo come la magnifica immagine divina del principium individuationis, dai cui gesti e sguardi ci parla tutta la gioia e la saggezza della «parvenza», insieme alla sua bellezza.
Nello stesso luogo Schopenhauer ci ha descritto l’immenso orrore che afferra l’uomo, quando improvvisamente perde la fiducia nelle forme di conoscenza dell’apparenza, in quanto il principio di ragione sembra soffrire un’eccezione in qualcuna delle sue configurazioni. Se a questo orrore aggiungiamo l’estatico rapimento che, per la stessa violazione delprincipium individuationis, sale dall’intima profondità dell’uomo, anzi della natura, riusciamo allora a gettare uno sguardo nell’essenza del dionisiaco, a cui ci accostiamo di più ancora attraverso l’analogia con l’ebbrezza. O per l’influsso delle bevande narcotiche, cantate da tutti gli uomini e dai popoli primitivi, o per il poderoso avvicinarsi della primavera, che penetra gioiosamente tutta la natura, si destano quegli impulsi dionisiaci, nella cui esaltazione l’elemento soggettivo svanisce in un completo oblio di sé. Anche nel Medioevo tedesco schiere sempre più vaste si agitavano sotto lo stesso potere dionisiaco, cantando e danzando, muovendosi da un luogo a un altro: in quei danzatori di San Giovanni e di San Vito noi riconosciamo le schiere bacchiche dei Greci, con la loro preistoria in Asia Minore, sino a Babilonia e alle Sacee orgiastiche […].
Sotto l’incantesimo del dionisiaco non solo si restringe il legame fra uomo e uomo, ma anche la natura estraniata, ostile o soggiogata celebra di nuovo la sua festa di riconciliazione col suo figlio perduto, l’uomo. La terra offre spontaneamente i suoi doni, e gli animali feroci delle terre rocciose e desertiche si avvicinano pacificamente. Il carro di Dioniso è tutto coperto di fiori e di ghirlande: sotto il suo giogo si avanzano la pantera e la tigre. Si trasformi l’inno alla «gioia» di Beethoven in un quadro e non si rimanga indietro con l’immaginazione, quando i milioni si prosternano rabbrividendo nella polvere: così ci si potrà avvicinare al dionisiaco. Ora lo schiavo è uomo libero, ora si infrangono tutte le rigide, ostili delimitazioni che la necessità, l’arbitrio o la «moda sfacciata» hanno stabilite fra gli uomini. Ora, nel vangelo dell’armonia universale, ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso col suo prossimo, ma addirittura uno con esso, come se il velo di Maia fosse stato strappato e sventolasse ormai in brandelli davanti alla misteriosa unità originaria. Cantando e danzando, l’uomo si manifesta come membro di una comunità superiore: ha disimparato a camminare e a parlare ed è sul punto di volarsene in cielo danzando. Dai suoi gesti parla l’incantesimo. Come ora gli animali parlano, e la terra dà latte e miele, così anche risuona in lui qualcosa di soprannaturale: egli sente se stesso come dio, egli si aggira ora in estasi e in alto, così come in sogno vide aggirarsi gli dèi. L’uomo non è più artista, è divenuto opera d’arte: si rivela qui fra i brividi dell’ebbrezza il potere artistico dell’intera natura, con il massimo appagamento estatico dell’unità originaria. Qui si impasta e si sgrossa l’argilla più nobile, il marmo più prezioso, l’uomo, e ai colpi di scalpello dell’artista cosmico dionisiaco risuona il grido dei misteri eleusini: «Vi prosternate milioni? Senti il creatore, mondo?»

(F. Nietzsche, La nascita della tragedia, trad. di S. Giametta, in F. Nietzsche, Opere, vol. III, tomo I, Adelphi, Milano 19

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