IL REGIME FASCISTA IN ITALIA

IL REGIME FASCISTA IN ITALIA

IL REGIME FASCISTA IN ITALIA


Condizione sociale, politica ed economica dell’Italia nel primo dopoguerra

La partecipazione dell’Italia alla grande guerra sconvolse completamente l’assetto politico ed economico preesistente. La guerra aveva inevitabilmente accelerato una serie di processi di trasformazione e di rinnovamento che ebbero un peso determinante negli sviluppi della politica sociale ed economica del periodo postbellico, inoltre era stata un’eccezionale esperienza di massa ed aveva messo in evidenza le contraddizioni e i divari esistenti tra i vari ceti sociali, tra il nord industrializzato e il sud fortemente retrogrado e soprattutto aveva messo a nudo la debolezza dello stato liberale in quanto la classe politica dirigente non si rese conto in quale direzione si stavano muovendo le nuove forze politiche dell’Italia postbellica.

Sul piano economico l’Italia sembrava ormai prossima ad un grave crollo e ad una crisi finanziaria senza precedenti che forse era stata scongiurata dalla guerra ma che ormai iniziava a manifestarsi chiaramente. Le esigenze della guerra avevano motivato un notevole sviluppo di alcuni settori industriali determinando problemi di riconversione; avevano alterato gli equilibri internazionali ed incentivato un rapido processo inflazionistico oltre che un grave deficit del bilancio statale.

La vittoria rappresentava il successo più importante che l’Italia avesse mai conseguito nella sua storia unitaria; quella sofferta vittoria sembrava aver esaltato al massimo i sentimenti patriottici ma tradiva inevitabilmente le speranze delle persone comuni, di coloro che avevano “pagato” il prezzo della vittoria sacrificando il loro sangue, la loro vita durante gli anni di trincea. Chi era stato disposto a rischiare la vita sul campo aveva probabilmente raggiunto la consapevolezza di essere un uomo al quale spettavano diritti mai concessi che in quel momento era necessario rivendicare per reinserirsi nella società.

La borghesia cominciava a temere l’eventuale perdita del potere politico ed economico di fronte all’esplosione di tendenze eversive operaie del Nord, che riacquistata la libertà sindacale, manifestarono il loro senso di disagio seguendo linee di tendenza rivoluzionarie e antimilitariste che destarono risentimenti in vasti settori dell’opinione pubblica poiché simili prese di posizione di tipo bolscevica erano considerate come una violazione di quei motivi ideali in nome dei quali era stata combattuta e vinta la guerra.

Anche i contadini del Centro-Sud manifestavano la loro insofferenza per quel sistema di “equilibri sociali” ormai inadeguato e versavano in un pericoloso stato di frustrazione psicologica.

Quegli ideali superiori di unità nazionale in nome dei quali l’Italia aveva vinto la guerra erano stati rinnegati in nome di un massimalismo bolscevizzante che si richiamava apertamente alla Rivoluzione russa e che si manifestava quotidianamente nelle agitazioni di piazza, negli scioperi di operai, nelle occupazioni di terre da parte di contadini, in violente manifestazioni antimilitariste (Biennio rosso 1919/20).

La classe dirigente liberale sembrava sempre più disorientata di fronte a questi fenomeni di mobilitazione sociale e perse progressivamente il controllo della situazione politica ed economica del Paese. In questo contesto risultarono favorite le forze socialiste e cattoliche che da sempre si erano dichiarate estranee ai principi ispiratori del regime liberale, che non avevano alcuna responsabilità nei confronti della guerra e che erano più propense ad interpretare vantaggiosamente le proporzioni assunte dalla lotta politica.

Il Partito popolare italiano, costituito dai cattolici, pur presentando un programma di impostazione cattolico-democratica ed essendo legato alle strutture organizzative del mondo cattolico, si dichiarava laico e aconfessionale; il Partito socialista, essendo espressione del massimalismo, ovvero di quella tendenza che mira a realizzare il massimo dal proprio programma politico, e aspirando all’instaurazione di una repubblica socialista basata sulla dittatura del proletariato, finì per radicalizzarsi isolando il movimento operaio, riducendone il campo d’azione politica e precludendo ogni possibilità di cooperazione con le forze democratico-borghesi.

Sotto il profilo della politica estera l’Italia dovette affrontare la cosiddetta questione adriatica: le clausole del Patto di Londra del 26 aprile 1915 prevedevano che in caso di vittoria l’Italia avrebbe ottenuto il Trentino, il Sud Tirolo, la Venezia Giulia, la Dalmazia e l’Istria ad esclusione della città di Fiume.

La questione fiumana venne discussa tra le nazioni vincitrici, nella conferenza di Versailles e la delegazione italiana costituita dal presidente del Consiglio Orlando e dal ministro degli esteri Sonnino, richiese l’annessione della città in base al principio di nazionalità. I rappresentanti delle altre nazioni si opposero, in modo particolare gli Stati Uniti, si diffuse ben presto il mito della vittoria mutilata e sorse in larghi strati dell’opinione pubblica un risentimento nei confronti degli ex alleati e della stessa classe dirigente, apparentemente incapace di tutelare gli interessi della nazione.

L’impresa di Gabriele D’Annunzio che, alla guida di gruppi armati di ribelli e volontari, occupò Fiume nel settembre del 1919 dichiarandola città aperta e istituendo una “reggenza provvisoria”, ebbe vasta eco a livello internazionale.

Con il trattato di Rapallo tra la Jugoslavia e l’Italia, nel giugno 1920, venne stabilito che l’Italia, conservando Trieste, Gorizia e tutta l’Istria, avrebbe ottenuto la città di Zara e il riconoscimento di Fiume città libera mentre il resto della Dalmazia sarebbe spettato alla Jugoslavia. Questo trattato fu accolto con favore dalle forze politiche e D’Annunzio dovette abbandonare Fiume.

Oltre al malcontento dovuto alla delusione per la mancata gratificazione che lo Stato non seppe dare ai reduci, l’impresa fiumana e la questione adriatica avevano suscitato una serie di agitazioni e l’innalzamento del costo della vita aveva provocato per riflesso un’ondata di agitazioni sindacali che culminarono con l’occupazione delle fabbriche da parte di 400000 operai aderenti alla Fiom (Federazione degli operai metallurgici) movimento sindacale dipendente dalla Cgl.

Questa situazione portò durante il congresso socialista che si tenne a Livorno, nel gennaio del 1921, ad una scissione del partito socialista da cui nacque il partito comunista d’Italia formato dagli esponenti più estremisti tra i quali possiamo ricordare Antonio Gramsci.

Il biennio rosso era ormai giunto al suo inevitabile epilogo e la classe operaia era ormai indebolita e priva di risorse. A questo progressivo indebolimento aveva senza dubbio contribuito la nascita improvvisa del fascismo.

Nascita del fascimo

I Fasci di Combattimento, fondati il 23 marzo 1919 da Benito Mussolini fino alla fine del 1920 e agli inizi del 1921 non furono altro che un fenomeno quantitativamente e politicamente irrilevante per quanto caratterizzato da un acceso nazionalismo e da un’evidente avversione nei confronti dei socialisti dalle file dei quali proveniva lo stesso Mussolini.

Il leader del “movimento fascista” preferì sfruttare a suo vantaggio il riflusso antisocialista seguito al biennio rosso abbandonando l’originario programma d’impostazione radical-democratica e ingaggiando una sorta di “guerra civile” in particolare contro le leghe rosse della Valle Padana attraverso strutture paramilitari, le squadre d’azione.

La scintilla scoccò quando il 21 novembre 1920 i fascisti si mobilitarono per ostacolare l’insediamento della nuova amministrazione comunale socialista a Bologna: tragicamente i socialisti schierati in difesa della sede del comune fecero fuoco per errore sulla folla composta in gran parte dai loro stessi sostenitori.

La classe politica dirigente preferì non opporsi agli sviluppi del movimento fascista poiché pensavano che i fasci di combattimento da lì a poco si sarebbero estinti come forza politica; inoltre sia la classe politica, ma soprattutto i grandi industriali del nord e i latifondisti del sud non vedevano di buon occhio le manifestazioni operaie e contadine che si susseguirono a ritmo incalzante e finanziarono quindi le squadre d’azione.

Le squadre d’azione erano comandate dai ras, ovvero i capi locali del fascismo, i quali con il tempo avevano acquisito molti poteri e inoltre potevano contare sulle complicità dei poteri locali sia a livello politico che governativo. Questa situazione allarmò Mussolini il quale, al congresso di Roma del Novembre 1921, con la complicità dei suoi fedelissimi fece approvare la trasformazione dei Fasci di combattimento in Partito Nazionale Fascista. Il nuovo partito aveva una gerarchia piramidale al cui vertice c’era lo stesso Mussolini; in questo modo scongiurò eventuali rivendicazioni politiche da parte dei ras più potenti.

Dopo questo suo successo conseguito all’interno del partito, Mussolini si rese conto che era giunto il momento di mirare alla conquista del potere centrale dello stato; in effetti queste sue convinzioni furono ulteriormente amplificate dall’incapacità, dalla staticità e spesse volte dalla complicità degli apparati dello stato preposte alla sicurezza e all’ordine pubblico. Essi non intervennero quando le squadre d’azione mettevano in atto le loro violenze e i loro soprusi a discapito dei politici e di tutti quelli che osavano denunciarli o ribellarsi.

Presa del potere

Con un’abile mossa politica, Mussolini annunciò la marcia su Roma gettando la classe politica dirigente nella confusione e nello scompiglio totale, inoltre questo annuncio aveva lo scopo di testare il terreno politico e sociale e saggiarne le reazioni.

Il momento propizio fu fissato per il 28 ottobre 1922. La marcia su Roma una semplice ma efficace dimostrazione di forza, una rivoluzione simulata, che portò il governo Facta a dimettersi e convinse il re ad affidare a Mussolini le redini dell’esecutivo, segnando la definitiva disgregazione dello stato liberale.

Una volta giunto al potere Mussolini mise in atto una politica autoritaria e diede vita a nuove forme istituzionali, sotto molti aspetti incompatibili con i principi liberali, collaborando con le altre forze politiche.

Le opposizioni uscirono ulteriormente ridimensionate dalle elezioni del ’24 e nel giugno dello stesso anno il deputato socialista Giacomo Matteotti, che aveva denunciato i brogli elettorali e le violenze dei fascisti durante le elezioni, fu rapito e assassinato da un gruppo di squadristi. Due mesi dopo, al ritrovamento del cadavere, il governo fu investito da un’ondata di polemiche e di sdegno tanto che il potere di Mussolini sembrò vacillare: tuttavia le opposizioni, che avevano abbandonato la Camera (secessione dell’Aventino) erano troppo deboli per mettere effettivamente in crisi il governo. Il discorso di Mussolini del 3 gennaio ’25 sancì la svolta autoritaria del governo e l’inizio del cammino verso la più compiuta forma di totalitarismo che fosse mai stata realizzata nella storia.

Inizialmente l’opera di fascistizzazione delle masse intrapresa dal duce incontrò diversi ostacoli: il consenso popolare era decisamente limitato alla piccola e media borghesia e a fasce ristrette del ceto popolare. L’Italia era un paese arretrato a livello culturale ed economico e il progetto totalitario di Mussolini potè prendere il via definitivo solo in seguito al riconoscimento ufficiale dei Patti Lateranensi e al plebiscito del ’29.

Il regime monopolizzò in modo evidente l’ambito educativo, informativo e culturale del paese per accrescere e gestire nel migliore dei modi il consenso popolare.

Sul piano strettamente economico Mussolini seguì una linea protezionistica e di maggiore intervento statale: con la “battaglia del grano” l’Italia avrebbe dovuto rispondere ad una sfida molto importante ma l’economia italiana cadde in un periodo di crisi al quale il regime rispose con una politica di lavori pubblici e di intervento diretto dello Stato in campo industriale e finanziario. Superata la fase più drammatica della crisi l’economia italiana venne indirizzata verso la produzione bellica.

Politica economico-sociale del regime

La politica economica del regime, considerata la disastrata situazione del paese, portò inizialmente dei benefici a molte regioni, alla lunga finì comunque nel favorire economicamente i grossi industriali vicini al regime e a sfavorire l’Italia nei confronti degli altri paesi europei.

Per quanto riguarda la politica sociale essa era sicuramente intesa a raccogliere consensi dalle masse popolari che, in seguito, verranno sfruttate e usate come strumento di forza del regime.

Tra le molte iniziative di carattere economico-sociale possiamo citare:

  • Il deprezzamento e la successiva difesa della lira che, dopo una pesante svalutazione subita già durante la guerra e dopo un periodo di relativa stabilità, ricominciò a deprezzarsi fra il 1925 e il 1926. Se tale deprezzamento da una parte favoriva l’esportazione di merci italiane sul mercato internazionale, dall’altra rendeva per l’Italia rovinosa la contrattazione con il mercato estero per l’importazione di materie prime. Il governo pertanto reagì proponendo la battaglia del grano che avrebbe dovuto liberare l’Italia dalla dipendenza; inoltre furono avviate delle politiche per ridurre l’importazione di petrolio e per sfruttare al massimo le esigue risorse minerarie di cui si disponeva.
  • La fondazione, nel 1931, dell’Istituto Mobiliare Italiano (IMI) finanziato dallo Stato e che aveva come scopo la concessione all’industria di crediti facilitati a medio e lungo termine. In realtà le aziende finanziate furono soprattutto quelle di grandi dimensioni, le quali in poco tempo riassorbirono le aziende più piccole e in gravi difficoltà economiche. Si ha pertanto una concentrazione industriale, ossia il potere di produzione industriale in mano a pochi eletti, favorita inoltre da decreti legge emessi per consentire una più agevole fusione tra aziende con lo scopo palese di limitare la libertà di impresa a vantaggio delle grandi aziende che vedevano di buon occhio il regime.
  • La fondazione, avvenuta nel 1933, dell’Istituto di Riconversione Industriale (IRI) che aveva come scopo il finanziamento, con denaro pubblico, di imprese siderurgiche, meccaniche e i cantieri industriali.
  • Il programma per la bonifica integrale, iniziato nel 1928, che aveva come ambizioso scopo quello della costruzione di grandi opere fondamentali come la bonifica di ampie zone paludose ancora non urbanizzate, i rimboscamenti, il drenaggio dei fiumi, il controllo delle acque, ecc. Questo grande ed interessante progetto rimase in gran parte non attuato o si risolse con una serie di finanziamenti a fondo perduto a favore di pochi grandi agrari, eccetto per la bonifica dell’Agro Pontino, nei pressi di Roma.
  • Impulso per la costruzione di grandi opere pubbliche, questo progetto fu varato per consentire la frenata della disoccupazione che aveva raggiunto limiti molto alti.
  • L’autarchia, indipendenza dai mercati esteri per la produzione industriale, che ebbe una forte accentuazione a partire dal 1935, cioè dalla guerra d’Etiopia, doveva servire a contrastare le sanzioni economiche messe in atto dalle nazioni ostili al regime, dando all’Italia il massimo dell’autonomia produttiva soprattutto in campo siderurgico.
  • Politica demografica con la fondazione, il 10 dicembre 1925, dell’Opera Nazionale per la Maternità e l’Infanzia, mirante ad assicurare la potenza dell’Italia tramite l’aumento demografico.
  • La fondazione dell’EIAR, l’Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche, che in seguito prenderà il nome di RAI.

Politica estera del regime

Per quanto riguarda la politica estera del regime, bisogna ricordare che essa non fu mai adeguatamente incisiva e determinante per l’economia nazionale, in definitiva non portò dei veri vantaggi per la nazione, li portò piuttosto per il regime che usò i pochi successi conseguiti in politica estera e soprattutto l’espansionismo coloniale come mezzo propagandistico da tirare fuori nel momento opportuno.

Occorre comunque ricordare che ci furono anche dei successi reali, essi furono:

  • L’annessione della città di Fiume, con un nuovo accordo firmato tra l’Italia e la Jugoslavia il 27 gennaio 1924;
  • Il concordato tra Stato e Chiesa, che prese il nome di Patti Lateranensi, firmati l’11 febbraio 1929. Il concordato garantiva la più assoluta libertà alla Chiesa per l’esercizio delle sue funzioni religiose e, nello stesso tempo, lo Stato si garantiva che i chierici colpiti da censura non potessero esercitare alcun ufficio che li mettesse in contatto diretto con il pubblico. In questo modo il regime si rafforzò, in quanto poteva contare sull’appoggio politico della Chiesa e sull’influenza che quest’ultima aveva sulle masse.
  • Il successo della guerra d’Etiopia del 1935 rappresentò per Mussolini la realizzazione del “sogno imperiale” anche se il consenso ottenuto dal regime cominciò progressivamente a scemare.

Entrata in guerra dell’Italia e crollo del fascismo

L’Italia entrò in guerra, il 10 giugno 1940, completamente impreparata con l’illusione che il conflitto sarebbe stato di breve durata. Mussolini si illudeva di sedersi al tavolo della pace con “qualche migliaio di morti” per poter poi dettare le condizioni alle nazioni sconfitte. In realtà egli dichiarò guerra alla Francia quando quest’ultima, già messa in ginocchio dalla Germania, non aveva più ormai le energie sufficienti per reagire. Inoltre si cominciò a diffondere in Europa un sentimento avverso nei confronti degli italiani, che oltre a non essere visti di buon occhio poiché alleati della Germania, furono considerati anche dei vigliacchi proprio per questo gesto politico di Mussolini.

La guerra si estese in tutto il mediterraneo, dapprima Mussolini aggredì la Grecia e in seguito il teatro di guerra si spostò nel nord Africa. Dopo gli entusiasmi iniziali, gli italiani conobbero e subirono privazioni e sconfitte su ogni fronte.

Il 10 luglio 1943 gli angloamericani sbarcarono in Sicilia e fra il 24 e il 25 luglio il Gran Consiglio del Fascismo mise in minoranza Mussolini, il quale fu arrestato lo stesso giorno per ordine del re. Il regime crollò nell’esultanza generale della popolazione. L’8 settembre 1943 il nuovo capo del governo, il Maresciallo Badoglio, annunciò la firma dell’armistizio con gli alleati. Il re, il governo e i rispettivi seguiti fuggirono da Roma in gran segreto senza dare disposizioni alle truppe sparse sui fronti. Il paese divenne teatro oltre che di guerra anche della tragedia dovuta ad una duplice occupazione, quella angloamericana nel sud del paese e quella tedesca nel centro-nord.

E’ in questo contesto che la Resistenza italiana agisce riportando innumerevoli vittorie contro i reparti regolari dell’esercito tedesco e contro i reparti fascisti. La strategia della Resistenza non era quella di affrontare in campo aperto le divisioni nazifasciste ma effettuare azioni di guerriglia e di sabotaggio. In questo modo tennero impegnate le forze nazifasciste fino all’arrivo delle truppe alleate e, in molti casi, all’arrivo degli alleati le città erano già state liberate. La Resistenza era formata da combattenti di ogni fede politica che si allearono, contro un nemico comune rappresentato dai nazifascisti, fino alla fine delle ostilità.

Con la liberazione di tutto il nord Italia il 25 aprile 1945 la guerra si concluse. Il 28 aprile Mussolini fu fucilato dai partigiani insieme alla Petacci. I loro corpi furono esposti in piazzale Loreto a Milano, insieme a quelli di una quindicina di fascisti.

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