De rerum natura V 195-234

De rerum natura V 195-234

Lucrezio V, 195-234 APPROFONDIMENTI


…magna deum mater materque ferarum

et nostri genetrix haec dicta est corporis una.

Nel II libro (vv. 598-599) Lucrezio ricorda che così è stata definita la terra ed evoca il mito ed il culto della grande madre Cibele, ma infine conclude (vv. 652-654)

Terra quidem vero caret omni tempore sensu

Et quia multarum potitur primordia rerum

Multa modis multis effert in lumina solis

In realtà la terra è sempre priva di una vera sensibilità

Poiché possiede gli elementi primi di molti corpi

In mille modi molti ne produce alla luce del sole

Dunque la terra non è una divinità, ma, come ogni cosa del mondo, un aggregato di atomi di vario genere.

Nel V libro L. sviluppa in modo più chiaro ed ampio il suo discorso sulla terra, ribadendo che a ragione può essere definita madre perché ha dato origine a vegetali e ad esseri viventi nei tempi primordiali, in una sorta di parto spontaneo. Come ogni cosa esistente, la terra ha avuto una nascita ed uno sviluppo (vv. 780 ss.); come un corpo femminile, ha avuto un’età assai feconda, poi, invecchiando, si è isterilita ed è destinata a perire. (Di questo L. ha già trattato alla fine del II libro, vv.1150 ss.). Ogni qualvolta parla della terra, il poeta ne riconosce per lo più gli attributi materni, perché, nonostante il suo invecchiare ed isterilirsi, continua a nutrire gli esseri viventi.

Nel V libro, il discorso lucreziano muta notevolmente tono: la terra, che viene praticamente ad identificarsi con la natura, appare del tutto ostile all’uomo.


“De rerum natura” V, 195-234

“Ma se anche ignorassi quali sono i principi delle cose, questo oserei tuttavia affermare e sostenere grazie a molti altri fatti, che in nessun modo la natura delle cose è stata creata in nostro favore dagli dei: di tanti difetti è gravata.  Anzitutto quanto spazio ricopre il grande slancio del cielo, di questo un’ ampia parte occupano i monti e le selve (abitate) dalle bestie feroci, occupano le rocce e le desolate paludi e il mare che per ampio spazio separa le rive dei continenti.  Poi quasi 2/3 li portano via agli uomini il calore ardente e la caduta continua del gelo. Ciò che rimane di terra arabile, non di meno la natura con la sua potenza coprirebbe di rovi, se non le si opponesse l’energia umana, avezza, per sopravvivere (a causa della vita), a gemere sulla zappa robusta e a fendere la terra premendo l’aratro (con gli aratri premuti). Se non chiamiamo alla nascita rivoltando col vomere le glebe feconde, lavorando il suolo della terra, (le messi) non potrebbero spontaneamente uscire nell’aria chiara; e tuttavia talvolta (i frutti) guadagnati con tanta fatica, quando già sulla terra  (le piante) si coprono di fronde e tutto fiorisce, o li brucia con eccessivo calore il sole celeste, o li uccidono improvvisi acquazzoni e gelide brine e raffiche di vento sconvolgono con un violento turbinio. E poi perché la natura nutre e fa crescere l’orrenda stirpe delle bestie feroci, nemica della gente umana per terra e per mare? Perché le stagioni portano le malattie? Perché si aggira la morte prematura? E ancora il fanciullo, come un marinaio sbattuto dalle onde infuriate, giace a terra nudo, senza parola, privo di aiuto per la vita, non appena  la natura, con (dolorosi) sforzi, lo ha fatto venire alla luce dal grembo della madre, egli riempie il luogo di vagiti lugubri, come è giusto per colui cui in vita tocca di attraversare tanti malanni. Ma al contrario crescono greggi, armenti e belve varie e non c’è bisogno di trastulli e per nessuno bisogna impiegare la voce carezzevole e balbettante dell’ alma nutrice e non richiedono vesti diverse a seconda della stagione e insomma non c’è bisogno di armi e di alte mura  per difendere le proprie cose dal momento che la terra stessa e la natura artefice delle cose generano in abbondanza tutto per tutti.”

 

Questo passo, tra i più celebri ed i più discussi del poema, a certi studiosi sembra dimostrare l’estremo pessimismo di L. , e quindi le profonde contraddizioni del suo pensiero, che pur si professa epicureo. Altri studiosi vi sentono soltanto l’eco di certi scritti di Epicuro, fortemente polemici nei confronti del provvidenzialismo platonico.

E’ anzitutto indispensabile considerare il contesto in cui si inserisce questa cupa visione della vita umana.

Affrontando l’argomento della mortalità del mondo, nella prima sezione del V libro, Lucrezio a partire dal v. 146 confuta la credenza  che gli dei abbiano parte nella creazione e gestione del mondo, in particolare che abbiano destinato agli uomini praeclaram mundi naturam (v. 157). Nell’ambito di questa confutazione si inserisce il discorso sulla culpa che in così grande misura inficia la natura. E’ difficile cogliere con esattezza il valore della dura sentenza del v. 199: tanta stat praedita culpa (natura). Tenendo conto  della polemica  in corso contro chi vede nelle cose umane l’intervento divino provvidenziale, e considerando anche i versi conclusivi del brano (233-234), dove la natura e la terra sono viste – come di consueto in Lucrezio – provvide e generose nel soddisfare le esigenze di tutti,  sembra che la culpa imputata alla natura e la visione angosciosa delle difficoltà esistenziali che si prospettano all’uomo sin dalla nascita siano proposte dal discorso, lucreziano in un’ottica «di parte», non «oggettiva»: L. non parla qui col distacco obiettivo del seguace di Epicuro che ha coscienza. dei limiti umani  (al v. – 221 protesta persino per la mors immatura),  ma,  sulla scorta della semplice osservazione dei fenomeni naturali, (vv. 196-197), a chi esalta la benevolenza della natura sciorina le mille contrarietà dell’ambiente in cui vive l’uomo, il quale, indifeso e nudo a differenza degli animali che lo circondano, si sente quindi vittima di una culpa, di una persecuzione. La rappresentazione drammatica della situazione umana non è certamente insolita né contraddittoria nel poeta, che nei momenti di maggior tensione dialettica predilige i toni cupi e predicatori, sia che egli voglia far breccia nel suo ascoltatore, sia che egli partecipi emotivamente a quanto va dipingendo.

  1. Andreoni, nell’esaminare questo passo, concorda con l’interpretazione che il Paratore dà del termine culpa, rifacendosi al lessico giuridico, e accostando la culpa all’ atecnia fuseos (atechnìa physeos) di Epicuro. La studiosa sottolinea questa “noncuranza, indifferenza” della natura che è proprio del significato di culpa tratto dal linguaggio del lessico giuridico e indicante una responsabilità non colpevole per dolus, cioè per colpevolezza volontaria, ma per negligenza nell’agire”». L’Andreoni conclude: «si rende ben così ragione della polemica che nell’intero passo Lucrezio sostiene contro, ogni finalismo provvidenziale e ben si spiega [il termine culpal come una traduzione e interpretazione da romano – cioè da parte di chi nella formazione culturale non poteva ignorare almeno le cognizioni elementari del diritto- dell’astratto concetto del termine greco atecnia »

Come già per altri brani, anche questo può essere accostato a noti testi di Leopardi, che, per il suo materialismo ed il suo pessimismo, appare molto vicino a Lucrezio.

In particolare, si può ricordare “Il dialogo della natura e di un islandese” e alcuni versi del “Canto notturno”.

“Nasce l’uomo a fatica// ed è rischio di morte il nascimento.// Prova pena e tormento// per prima cosa; e in sul principio stesso// la madre e il genitore// il prende a consolar dell’esser nato.”

A tanti secoli di distanza, i due poeti figurano concordi nel denunciare la mortalità del tutto, dovuta al “perpetuo circuito di produzione e distruzione”, nell’irridere il tradizionale antropocentrismo e il secolare “progresso” dell’umanità, nel rilevare la sostanziale infelicità del genere umano di contro all’apparente serenità degli altri animali, nell’esaltare la ragione come unico strumento dato all’uomo per elevarsi.

Ma i messaggi finali di Lucrezio e Leopardi si diversificano molto. Per Lucrezio la ragione concede all’umanità di riscattarsi dalla sua abiezione, giungendo a comprendere i meccanismi della natura e la propria limitatezza, ma al tempo stesso a rendersi conto della sua libera volontà e della sua autonomia da qualsiasi giogo soprannaturale. Leopardi non s’appaga di constatare l’indifferenza della Natura alle sorti dell’uomo, né di vedersi accomunato agli altri esseri nella mortalità; e certamente non si sente libero; la ragione è per lui motivo di grandezza, ma anche di infelicità, perché spinge l’uomo – a differenza degli altri animali – a porsi domande cui non sa dare risposta. Pure se privo di dolori e di desideri, l’uomo è, poi, afflitto dalla noia, male suo peculiare. Anche il tedio leopardiano è altra cosa da quello lucreziano (cfr. III 1053 ss., nota 1): in Lucrezio prova tedio lo stolto, che, inquieto, cerca di occupare il tempo in vane attività, non certamente colui che fa uso della ragione per riflettere sui fenomeni cosmici.

Insomma, per Leopardi, l’uomo non ha scampo alla sua infelicità: un barlume di conforto viene solo dal tardo messaggio rappresentato da La ginestra. In questa canzone “la più lucreziana fra tutte” (Binni), Leopardi propugna la morale laica della solidarietà fra gli uomini, necessaria a condurre la battaglia nobile e disperata contro la Natura. Non a caso all’Epicuro del De rerum natura rimanda la nobil natura di questa canzone (v. 111). Il sentimento che percorre tutta questa poesia (“Non so se il riso o la pietà prevale” v. 201) nei confronti dell’umanità scioccamente superba, è quello stesso che anima il De rerum natura, volto a disperdere le tenebre dell’ignoranza e i timori puerili dell’uomo. Anche in Lucrezio si sente fremere la pietà verso il genere umano, (ma quando questo accade sembra quasi che egli venga meno al suo credo epicureo).  Certamente però il calore di fraternità e di solidarietà che sentiamo in Leopardi è altra cosa; Lucrezio fermo nel suo individualistico illuminismo epicureo, non ipotizza una “confederazione” in guerra contro la comune nemica, la natura “madre di parto e di voler matrigna” (La ginestra, vv 125 ss.). Epicuro ha insegnato all’uomo a conoscere la natura, ad accettarla, a sentirsene parte senza alcuna paura e senza alcuna ribellione. Tra il sapiente filosofo greco divinizzato e l’emblema dell’umile ginestra che saggiamente non ha creduto “le frali sue stirpi” (vv. 315-316) immortali, conscia della terrificante presenza del vulcano “sterminatore” (v.3), c’è tutto il divario che separa concezioni e poetiche dei due autori: dell’uno, che presume di scrivere in sublimi versi un trattato filosofico, in cui si chiarisce a fondo la natura delle cose, e dell’altro, che alla prosastica filosofia oppone prima la poesia d’immaginazione, propria degli antichi, poi la sua moderna lirica, in cui il mistero della vita e della morte non trova risposta.

Insomma, Leopardi si sarà in qualche misura ispirato a Lucrezio? In passato lo si dava quasi per certo, oggi si è più cauti . Leopardi dovrebbe aver letto il poeta latino almeno nella traduzione secentesca del Marchetti: Lucrezio è citato più volte nel giovanile “Saggio sopra gli errori popolari degli antichi”, poi sempre più raramente; e le citazioni sono piuttosto generiche o di carattere lessicale.

Sull’argomento vi è una circostanziata relazione di M. Saccenti (Leopardi e Lucrezio, in Leopardi e il mondo antico Firenze 1982) che si conclude con “un’ipotesi”, come l’autore stesso la definisce:

“… O se lo scarso e dubbio lucrezianismo leopardiano non riveli, piuttosto che conoscenza latamente difettosa di Lucrezio, un generale sentimento di estraneità, fors’anche divenuto di avversione, ad una sistemazione dell’universo che inserisce e tutela l’uomo nella natura, aprendo un porto di salvezza, innalzando un nobile castello, allargando insomma – così come farà la cultura umanistica , la cultura precopernicana e pregalileiana nelle sue gradazioni meno trionfalistiche – la sfera di un’umanità superiore e rasserenata.” (quest’ultima citazione rimanda a B. BIRAL, Leopardi. la cultura e la società dei suoi tempi, in La posizione storica di G. Leopardi, Torino 1978, pagg. 208-209]»). S. Timpanaro, ad esempio, pur dichiarando probabile la lettura diretta di Lucrezio da parte di Leopardi, si chiede perché non ne resti traccia «in espliciti appunti o precise allusioni».

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NOTE

1) De rerum natura III, vv. 1053-1075

Se gli uomini, come si vede che sentono di avere
in fondo all’animo un peso che con la sua gravezza li affatica,
potessero anche conoscere da che cause ciò provenga e perché
una sì grande mole, per così dire, di male nel petto persista,
non così passerebbero la vita, come ora per lo più li vediamo:
ognuno non sa quel che si voglia e cerca sempre
di mutar luogo, quasi potesse deporre il suo peso.
Esce spesso fuori del grande palazzo colui
che lo stare in casa ha tediato, e subito ‹ritorna›,
giacché sente che fuori non si sta per niente meglio.
Corre alla villa, sferzando i puledri, precipitosamente,
come se si affrettasse a recar soccorso alla casa in fiamme;
sbadiglia immediatamente, appena ha toccato la soglia
della villa, o greve si sprofonda nel sonno e cerca l’oblio,
o anche parte in fretta e furia per la città e torna a vederla.
Così ciascuno fugge se stesso, ma, a quel suo ‘io’, naturalmente,
come accade, non potendo sfuggire, malvolentieri gli resta attaccato,
e lo odia, perché è malato e non comprende la causa del male;
se la scorgesse bene, ciascuno, lasciata ormai ogni altra cosa,
mirerebbe prima di tutto a conoscere la natura delle cose,
giacché è in questione non la condizione di un’ora sola,
ma quella del tempo senza fine, in cui i mortali devono aspettarsi
che si trovi tutta l’età, qualunque essa sia, che resta dopo la morte

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