VOCE GIUNTA CON LE FOLAGHE

VOCE GIUNTA CON LE FOLAGHE

VOCE GIUNTA CON LE FOLAGHE


Questa poesia, scritta ne 1947, fa parte della sezione Silvae della raccolta La bufera e altro pubblicata nel 1956 presso l’editore Neri Pozza di Venezia e in prima edizione con la Mondadori l’anno successivo. È ambientata a Monterosso delle Cinque terre. Il poeta immagina di salire al cimitero di Monterosso, dove è sepolto il padre, accompagnato da Clizia (Irma Brandais, conosciuta nel 1933, emigrata in America durante la guerra per sfuggire alle retate antiebraiche nazifasciste ) rappresentata come un angelo messaggero, la cui missione è quella di far compiere alle anime il definitivo balzo da una condizione in cui ancora forti sono i legani memoriali con la vita terrena a una condizione in cui diventano pure essenze, entelechie nelle quali non esiste l’abiezione del ricordo.
L’idea della morte e dell’oltretomba, della vita ultraterrena, che si pone in contrasto logico con la vita vissuta al di qua del margine/muro, attraverso la figura dell’ombra che parla (l’angelo) e dell’ombra muta (il padre) acquista una dimensione nuova e profonda che va al di là degli schemi dello spazio e del tempo. La memoria che unisce vivi e morti porta ancora una volta verso la concezione esistenzialistica del nulla come vuoto anteriore e successivo al breve periodo dell’esistenza terrena che aspetta di essere riempito dalla nostra presenza sia individuale che collettiva, nel senso di un’attesa reciproca: il vuoto attende noi per riempirsi e noi attendiamo il vuoto, nel corso della nostra esistenza legata l tempo e allo spazio, per riempirlo e per entrare nel mondo retto da quella Verità che vivendo al di qua del muro non conosciamo. Giovanni Macchia in un saggio pubblicato sul Corriere della Sera del 24/1/1982 “Montale e la donna salvatrice” (la seconda parte dal titolo “Quando Montale inventò una donna per salvare il mondo” fu pubblicata il successivo 7 febbraio) scrive alcune cose molto importanti proprio su questa poesia: in quelle mie poche pagine (pubblicate sulla rivista L’Immagine, ndr) sulla “Voce giunta con le folaghe”, sorretto da alcune dichiarazioni che il poeta aveva rilasciato in una intervista immaginaria, un punto prendeva ancora più consistenza: un punto che aveva pur avuto forti annunci nella produzione poetica precedente; un sentimento di profonda religiosità. Non poteva parlarsi (come per un altro grande poeta operante in quegli anni e con cui è facile stabilire più d’una affinità: Eliot) di conversione. Ma quel sentimento era maturato e reso necessario da un dato di fatto: la condizione dell’umanità durante la guerra. La guerra non era lontana o imminente come al tempo delle “Occasioni”. Era una realtà viva e lacerante. Era la “calanca vertiginosa” che inghiottiva le sue vittime. L’immobilità del poeta – figura simbolica della stessa condizione della poesia moderna – non era, come negli “Ossi di seppia”, quella dell'”agave che s’abbarbica al crepaccio dello scoglio e sfugge al mare”. Era l’immobilità di chi assiste ad uno spettacolo tremendo e attende di essere trascinato nell’abisso. Consolarsi nella registrazione delle dissonanze e dei lampi di quella tempesta pareva futile giuoco. Il poeta doveva cercare una ragione e un rifugio in quella lotta. Doveva credere in qualcosa di vivo. Ed ecco lo soccorre una figura di donna: un’immagine luminosa e dolente, che, sacrificandosi, arrechi conforto all’umanità immersa nella notte del mondo. Non è più l’amuleto, il fantasma, ma una figura umana. E’ una donna con una sua connotazione precisa, in cui è racchiusa la destinazione stessa di quella poesia: l’attesa del miracolo … Clizia, che era comparsa già nelle “Occasioni”, quale espressione della “tipica situazione d’ogni poeta lirico che vive assediato dall’assenza-presenza di una donna lontana”, diventa un vero e proprio personaggio che ha una sua storia… Riesce a parlare in prima persona. E il poeta la segue, tiene a farla vedere, a farla riconoscere… Tutta la poesia di Montale è una “poesia con personaggi”. Nati da un’idea della lirica non quale giuoco di suggestioni sonore, ma simile a un frutto che contenesse “i suoi motivi senza rivelarli”, con un totale assorbimento delle intenzioni nei risultati raggiunti, l’identificazione di questi personaggi resta difficile. I loro volti, quasi tutti femminili, sono sfuggenti, eppur mossi dal desiderio di esistere in quanto personaggi: Arletta, Esterina la tuffatrice, la pianista (nella più gozzaniana delle sue liriche) e Gerti, E Dora Markus. Anche “La Bufera” contiene più d’un’immagine di donna: la malata della “Ballata”, manichino di gesso dagli spessi occhiali di tartaruga, con le sue lenti di lagrime, e, affidata a un breve cielo, l’altra donna chiamata Volpe. Ma “La Bufera” è soprattutto il “romanzo di Clizia”, il romanzo della “strana sorella”

 … dal Corriere del 7 febbraio…

“Senza scialle e berretto” gli riappare il padre, fuor del buio senza quello scialle di lana che si buttava sulle spalle quand’era vivo, anche nel più caldo mese di agosto, finita la cena all’aperto, piena di falene e altri insetti: uno dei pochi che sentirono dapprima che “il fresco stava per giungere”… … Date queste premesse, sarebbe arbitrario e fallace riconoscere in Clizia la donna che porta solo salute e credere che il poeta, in quel sentimento che lo spinge verso di lei, ritrovi la via della luce e della salvezza. Una così drammatica e oscura vicenda spirituale è legata ad una storia aggrovigliata, ad un materiale espressivo di cui è oltremodo difficile ricercare il bandolo. Certo nessun misticismo placa Montale, nessuna pace, nessuna serenità. Egli è come diviso su due fronti. In uno è il quadro della tempesta, dall’altro non c’è ancora Dio e non c’è nessuna Beatrice, ma soltanto una donna sofferente e infelice il cui destino, il poeta contempla con un trasporto violento e con raccapriccio. Ella ha lasciato l’Oriente, e torna a noi – scrisse – come continuatrice e simbolo dell’eterno sacrificio cristiano. Paga lei per tutti. Come Cristo, dunque. Ma quale Cristo? Quale idea di Cristo?  … Noi fummo e restiamo due, potrebbe ripetere Montale alla donna che si sacrifica per gli altri ma che non salva il poeta. Nessuna fiducia nel trascendente lo calma, ma un eterno dualismo, assai più drammatico di quel che animò la sua prima produzione, continua ad agitarlo…

nota: riprendiamo il testo da Eugenio Montale, Tutte le poesie, collana Lo specchio, ed. Mondadori, MI 1977

Poiché la via percorsa, se mi volgo, è più lunga
del sentiero da capre che mi porta
dove ci scioglieremo come cera,
ed i giunchi fioriti non leniscono il cuore
ma le vermene, il sangue dei cimiteri,
eccoti fuor dal buio
che ti teneva, padre, erto ai barbagli,
senza scialle e berretto, al sordo fremito
che annunciava nell’alba
chiatte di minatori dal gran carico
semisommerse, nere sull’onde alte.

 L’ombra che mi accompagna
alla tua tomba, vigile,
e posa sopra un’erma ed ha uno scarto
altero della fronte che le schiara
gli occhi ardenti e i duri sopraccigli
da un suo biocco infantile,
l’ombra non ha più peso della tua
da tanto seppellita, i primi raggi
del giorno la trafiggono, farfalle
vivaci l’attraversano, la sfiora
la sensitiva e non si rattrappisce.

 L’ombra fidata e il muto che risorge,
quella che scorporò l’interno fuoco
e colui che lunghi anni d’oltretempo
(anni per me pesante) disincarnano,
si scambiano parole che interito
sul margine io non odo: l’una forse
ritroverà la forma in cui bruciava
amor di Chi la mosse e non di sè,
ma l’altro sbigottisce e teme che
la larva di memoria in cui si scalda
ai suoi figli si spenga al nuovo balzo.

                                 – Ho pensato per te, ho ricordato
per tutti. Ancora questa rupe
tu tenta? Sì. la bàttima è la stessa
di sempre, il mare che ti univa ai miei
lidi da prima che io avessi l’ali,
non si dissolve. Io le rammento quelle
mie prode e pur son giunta con le fòlaghe
a distaccarti dalle tue. Memoria
non è peccato fin che giova. Dopo
è letargo di talpe, abiezione

che funghisce su sè… –

                            Il vento del giorno
confonde l’ombra viva e l’altra ancora

                           mezzo che respinge
le mie mani, e il respiro mi si rompe
nel punto dilatato, nella fossa
che circonda lo scatto del ricordo.
Così si svela prima di legarsi
a immagini, a parole, oscuro senso
reminiscente, il vuoto inabitato
che occupammo e che attende fin ch’è tempo
di colmarsi di noi, di ritrovarci…

                              Analisi del testo

                   il tema centrale

 La poesia ruota intorno al limite tra il mondo della vita terrena e il mondo dell’oltrelimite, nel quale dimenticare il passato, anche degli affetti più cari, perché creatore di dolori e angosce, di abiezione che si autoalimenta, e nel quale esistono le condizioni per superare le dolorose condizioni di questa vita con l’aiuto ci Colui che vive per sè e che infonde il fuoco dell’amore negli uomini. Il tema è collegabile a quello della poesia Noi non sappiamo, al contrasto di natura temporale fra il presente e un futuro sconosciuto, che non possiamo conoscere e nel quale inevitabilmente cadremo, e il passato che rischia di perdersi al momento del nuovo balzo verso la spiritualizzazione assoluta dello spirito con il distacco definitivo dal corpo duro e pesante.

              La struttura

La poesia è composta di cinque strofe di 11 versi ciascuna, formate prevalentemente di endecasillabi liberi (senza rima), corrispondenti a cinque momenti ben definiti della poesia legati al tema centrale che possiamo definire come il contrasto fra l’esistenza caratterizzata dalla memoria che sfocia in una condizione di attesa e il mondo ultraterreno rappresentato dalla figura del padre al quale un’ombra dice qualcosa che riguarda la sua stessa condizione di appartenente al mondo ultraterreno e che il poeta non può capire perché interito, cioè ancora intero con il corpo e quindi non scorporato dall’interna fiamma che sarà la sua essenza nel mondo ultraterreno.  La poesia vive sul contrasto tra il mondo terreno, privo di quelle consolazioni che l’uomo cerca con tenacia, e il mondo ultraterreno che non si conosce ma nel quale sicuramente il ricordo di questa vita ad un certo punto deve essere cancellato insieme alla sensazione del tempo che caratterizza le vicende umane e ai sentimenti che sono le scorie pesanti di questa vita e che dovranno essere purificati dall’interna fiamma alimentata dall’amore di Colui che è principio di tutte le cose.

     Piano denotativo generale

1a strofa – Se mi volgo indietro a guardare la via già percorsa (a pensare al passato, la vita vissuta occupa uno spazio di tempo maggiore di quello che mi resta da vivere e irto di difficoltà come un sentiero usato dalle capre, che porta alla morte, al punto in cui il nostro essere si scioglierà come cera; non i giunchi fioriti (cose ordinarie e terrestri) ma le vermene (erbe e ramoscelli odorosi e sacri) leniscono il dolore del cuore (poichè anch’io sono vicino alla morte) eccoti, o padre, fuori dal buio che ti teneva, quindi, presente nel mio ricordo, attaccato, legato ai barbagli (come attimi e come ricordi-barbagli: luce intermittente in modo disordinato; per questo il barbaglio diventa simbolo dell’attimo del tempo e del ricordo limitato nel tempo) senza scialle e berretto,nel momento in cui si ode, annunciando l’arrivo dell’alba, il sordo (cupo) fremito (rumore) delle chiatte dei minatori, nere sulle onde alte e semisommerse poer il grande carico.

2a strofa – L’ombra vigile,che mi accompagna quando vengo alla tua tomba, riposa sulla solita statua (erma), mentre un movimento altero (superbo) della fronte le rischiara gli occhi ardenti e i duri sopraccigli sotto i boccoli infantili; quest’ombra non ha più peso della tua, padre, sepolta da tanto tempo, mentre la trafiggono i primi raggi del giorno, l’attraversano veloci le farfalle, la sfiora l’erba sensitiva, che al contatto non si rattrappisce.

3a strofa – L’ombra fidata, colei che ormai ha del tutto staccato dal corpo l’interno fuoco che le permette di vivere nell’oltretempo, e il muto che risorge dal passato, colui che lunghi anni d’oltretempo hanno disincarnato, ma non del tutto staccato dal corpo ancora legato ai ricordi della vita terrena, al tempo che viene misurato in anni dal poeta gravato ancora dal peso del corpo (del tempo e dello spazio), si scambiano parole che io non odo perchè reso pesante e intero dal corpo che vive ancora la vita terrena, mentre aspetto al margine tra il tempo e l’oltretempo: l’una forse ritroverà la forma in cui bruciava l’amore non di sè ma di Colui che la mosse e che tutto muove, ma l’altro sbigottisce temendo che la larva (il residuo) di memoria in cui si scalda presentandosi ancora nel ricordo dei figli si spenga al momento del nuovo balzo verso il mondo ultraterreno del tutto staccato dal mondo terreno.

4a strofa – Il poeta ascolta la voce dell’ombra fidata: “Ho pensato per te, ho ricordato per tutti. Ancora ti tenta questa rupe col carico dei suoi ricordi terreni? Sì, la bàttima (il punto su cui si infrange l’onda) è la stessa di sempre e non si dissolve il mare che ti univa ai miei lidi (il tempo che univa le nostre vite) quando io non avevo ancora le ali (quando ancora vivevo la vita terrena). Io le rammento quelle mie prode (le rive sulle quali è facile approdare), eppure sono giunta con le folaghe a distaccarti dalle tue: la memoria non è peccato finchè giova. Quando invece impedisce il nuovo balzo verso la vera condizione che dipende da Colui che infonde amore e che tutto alimenta, diventa letargo di talpe, un’abiezione, una condizione di vita ignobile e spregevole che si autoalimenta, dalla quale l’individuo non può salvarsi da solo.

5a strofa – Il vento del giorno confonde l’ombra viva (venuta con le folaghe, Clizia) e l’altra (del padre) ancora riluttante di fronte al nuovo balzo in un atteggiamento che respinge già le mie mani, perché io appartengo al mondo che lui deve cancellare dalla sua memoria, e il respiro si spezza, come si spezza la sensazione dello spazio (la fossa) e del tempo (il punto dilatato) e nella rottura fa precipitare in un vuoto dove il ricordo di questa vita non ha più importanza ma fa scattare improvvisamente il ricordo di un’altra vita, di un altro tempo e di un altro spazio. Così si svela prima di legarsi a immagini e a parole tratte dalla nostra esperienza di questa vita quell’oscura sensazione di ricordo vago di un vuoto inabitato che occupammo prima di nascere al mondo e rimasto vuoto in attesa di ricolmarsi di noi al momento opportuno, di ritrovarci…

l’erma e l’ombra vigile

         Presso i greci e i romani era il pilastro a forma quadrata sormontato dalla testa del dio Ermes o da una testa barbuta che veniva posto ai crocicchi, sulle piazze, sui confini, nei ginnasi, nelle biblioteche, sulle tombe. In generale rappresenta qualunque testa che sormonta una colonna cilindrica o quadrata. Talvolta la testa presentava due facce, una sorridente e l’altra piangente o truce, specialmente nei cimiteri, ad indicare la vita e la morte (celebre il Giano bifronte dei romani). Presso le religioni naturali l’erma bifronte rappresentava il limite spaziale e il punto temporale di passaggio tra la vita (la faccia ridente) e la morte (la faccia piangente); per la religione cristiana può rappresentare il contrario: la vera vita, la vita dell’aldilà è raffigurata dalla faccia ridente, e l’esistenza in questo mondo è raffigurata dalla faccia piangente. Clizia, l’ombra vigile che accompagna il poeta presso la tomba del padre posa sopra un’erma, che rappresenta visivamente il limite tra la vita e la morte, il distacco completo da questo mondo e dal ricordo di tutti gli affetti terreni, che tengono ancora legata l’anima del padre ai barbagli dell’esistenza che giungono attraverso la memoria della vita terrena e degli affetti familiari. La donna-angelo-erma parla con l’ombra del muto padre che risorge sollevandosi e allontanandosi dai ricordi terreni; ma il poeta non può capire le loro parole, non può nemmeno sentirle, perché si trova ancora sul margine, al di qua del limite, del punto di rottura, del muro che lo separa dal mondo misterioso dell’aldilà che gli appare solo nella presenza dell’ombra della donna e dell’ombra del padre; sul margine si trova ancora in una condizione di durezza e di immobilità di pensiero (interito), pesante per il peso del corpo legato ancora al trascorrere del tempo terreno e alla precisione dello spazio umano. L’incontro avviene all’alba, nel momento più adatto alla rivelazione di una nuova vita e più propizio per cominciare qualcosa di nuovo e di straordinario. La donna è caratterizzata dagli occhi ardenti, dall’interno fuoco, dalla possibilità di ritrovare la “forma in cui bruciava / amor di Chi la mosse”.

                La figura del padre

Il “padre” non è più un modello da imitare, di lui non si odono più le parole sapide di sale greco (Noi non sappiamo), piene di saggezza, ma diventa l’essenza di un passato finito, che deve essere cancellato, in quanto non è importante tanto la saggezza di questo mondo ma il fuoco ardente di Colui che tutto muove; ma compiere questo balzo decisivo richiede la forza che occorre per tutte le scelte che sono definitive: per questo si mostra riluttante di fronte a un futuro che nulla può conservare di umano. Anche la memoria assume il senso di una condanna, se non si è capaci di liberarsene, di una abiezione che si autoalimenta, quando non permette alla forma-corpo di diventare spirito-senza-forma.
La religione si presenta sotto l’aspetto del contrasto temporale presente-futuro, espresso sia col tema della memoria che lega i vivi ai morti sia dalla successione delle fasi della vita dopo la morte da quella in cui resiste l’aspetto memoriale a quella in cui avviene lo scorporamento completo dell’interno fuoco: Colui che si incarnò per poi ridiventare puro spirito, passando attraverso la sosta agli Inferi per liberare i puri della storia ebraica (aspetto memoriale), rappresenta ciascun uomo incarnato che per ritrovare la vera vita deve percorrere la via della purificazione che lo porta a diventare puro spirito in un processo cosciente ed accettato di scorporazione totale, sia fisico che memoriale.
Il padre-mito, quindi, non è più presente nelle cose terrene, non può più essere uno spirito legato semplicemente alla memoria, ma uno spirito vivente nella mente dei vivi che ha abbandonato tutte le cose terrene e la loro memoria.

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