VITA IPPOCRATE

VITA IPPOCRATE

VITA IPPOCRATE

Ippocrate di Coo (o Cos, o Kos) (in greco antico: ʽΙπποκράτης, Hippokrátēs; Coo, 460 a.C. circa – Larissa, 377 a.C. terminus post quem) è stato un medico, geografo e aforista greco antico, considerato il padre della medicina.


Nato sull’isola di Cos in una data imprecisata che può spaziare dal 460 al 450 a.C., Ippocrate è destinato a diventare nei secoli il simbolo stesso dell’arte medica. A quest’aura di leggenda, che sempre circondò la sua figura, si devono le innumerevoli e fantasiose tradizioni fiorite intorno alla sua esistenza e il confluire sotto il suo nome di uno stuolo di opere appartenenti ad altri autori, note nel loro complesso col titolo di Corpus Hippocraticum.

Le uniche notizie piuttosto attendibili sulla vita di Ippocrate (che dovette terminare la propria esistenza poco dopo il 380 a.C.) sono quelle che lo vogliono figlio del medico Eraclide e dedito a frequenti viaggi: molto probabilmente, egli soggiornò infatti ad Atene e pure ad Abdera, dove fu in contatto con Democrito, concludendo infine la propria esistenza in Tessaglia. L’esistenza di un sistema ippocratico, che trascende le semplici osservazioni empiriche sulle varie affezioni, pare confermato da un passo del Fedro (270 c) di Platone, in cui il metodo del medico di Cos si dice finalizzato alla conoscenza del corpo in connessione con la natura del tutto, secondo quella corrispondenza fra macrocosmo e microcosmo già intuita da Alcmeone: anche per lui, come per Ippocrate, la salute consiste nell’equilibrio degli opposti, identificati nei quattro umori circolanti nel corpo (sangue, flegma, bile gialla e bile nera).

Riportiamo il breve passo del Fedro platonico: “Per ciò che riguarda la natura, esamina che cosa mai dicono Ippocrate e il ragionamento veritiero. Non occorre forse ragionare così riguardo alla natura di qualsiasi cosa? Innanzitutto, bisogna vedere se l’oggetto di cui vorremo essere esperti noi stessi e capaci di rendere tale un altro è semplice o multiforme. In secondo luogo, qualora sia semplice, occorre esaminare quale potenza abbia per natura, a che cosa si rivolga quando è attivo o da che cosa dipenda quando è passivo. Qualora invece abbia molte forme, dopo averle enumerate, bisogna esaminare ciascuna di esse come si è fatto per la forma unica, per vedere con quale forma ciascuna agisca naturalmente e che cosa faccia, o con quale forma subisca, che cosa subisca e per effetto di che cosa”.

Null’altro si può affermare con certezza sulla dottrina di Ippocrate, e sterminate sono state le discussioni sulla paternità ippocratica dei singoli scritti (una settantina circa) confluiti nel Corpus Hippocraticum.Un relativo accordo fra gli studiosi sussiste comunque per due di tali scritti: quello sulla Malattia sacra e quello su Arie, acque, luoghi. Sempre al pensiero di Ippocrate paiono potersi ricondurre i due trattati chirurgici sulle Fratture e sulle Articolazioni, nonché il Prognostico e le Epidemie (ovvero i “soggiorni” di medici in città straniere). Lo scritto sulla Malattia sacra tratta in termini antisuperstiziosi e scientifici l’epilessia, tradizionalmente intesa come un morbo inviato dagli dei e perciò detto “sacro”.

Nello scritto su Arie, acque, luoghi la salute umana è posta in rapporto con l’influsso esercitato dal clima, e vi trova spazio anche un piacevole excursus etnografico sulle varie regioni d’Europa e d’Asia. Merita poi di essere brevemente menzionata – nel secondo capitolo del Prognostico – la descrizione dei segni che preannunziano la morte, quella che è passata alla storia come facies hippocratica. L’impressione generale che si ricava dalla lettura degli eterogenei scritti confluiti nel Corpus Hippocraticum (e che naturalmente non possono essere tutti attribuiti al solo Ippocrate) è, innanzitutto, quella di una mescolanza tra elementi di arcaicità e di innovazione. Spesso la descrizione dei sintomi e la prescrizione della terapia da adottare ricalca antichissime formule presenti nei testi mesopotamici ed egizi, in cui a una proposizione condizionale contenente le manifestazioni del male (ad esempio, “se un uomo ha dolori allo stomaco”), segue l’indicazione del rimedio (“allora occorrerà che assuma il tale farmaco”). Lo schema logico/sintattico del “se x, allora y” riproduce formalmente quello adoperato nelle pratiche divinatorie, in cui l’osservazione dei segni implicava la possibilità di reinterpretare il volere divino. Ma nel caso degli scritti ippocratici l’analogia è solo esteriore: l’autore del secondo Manuale delle predizioni compreso nella seconda raccolta contesta aspramente l’applicazione del metodo mantico alla diagnostica, contrapponendo al “divinare” il “congetturare” in base ai sintomi del male.

L’assunzione di tale forma di ragionamento deduttivo applicato alla ricorrenza di certi sintomi ebbe un influsso enorme sul pensiero greco e si estese anche all’ambito filosofico e storiografico: Jaeger sottolinea a tal proposito il debito del metodo socratico nei confronti della scienza medica, e lo stesso può dirsi a proposito di Erodoto e di Tucidide. Il carattere stesso della materia trattata e l’origine non omogenea degli scritti componenti il Corpus Hippocraticum rendono problematico esprimere un giudizio sulle qualità letterarie di questa produzione, in cui a pagine redatte in un arido stile classificatorio se ne alternano altre di piglio vivacemente polemico nei confronti delle credenze tradizionali (nella Malattia sacra e nel Manuale delle predizioni), ossia pervase di una curiosità tipicamente ionica per le terre lontane e favolose (è il caso di Arie, acque, luoghi). Ciò che anima questi scritti è in ogni caso l’ansia del conoscere e la fiducia nella ragione.

Quasi certamente più antico di Ippocrate è il celebre Giuramento, che praticamente fino ai giorni nostri è stato alla base dell’etica professionale medica. Questi scritti, non di rado contrastanti tra loro, hanno in parte come destinatari altri medici, cui vengono insegnate terapie adeguate, di tipo dietetico, farmacologico o chirurgico, per la cura delle varie malattie. A volte essi forniscono quadri clinici di singoli pazienti, con indicazioni dei sintomi e dei decorsi delle malattie: è questo il caso dello scritto sulle Epidemie. Sulla base della classificazione di tipi di malattie nella loro sequenza temporale, il medico poteva formulare una previsione del decorso futuro fino alla conclusione (positiva o negativa che fosse). In vista di tale fine era importantissima una valutazione accurata dei dati sintomatici osservabili, cosa a cui provvede il Prognostico. Questo tipo di scritti mette a disposizione di altri medici il sapere acquisito personalmente o ricevuto a propria volta da altri: essi presuppongono, pertanto, che il sapere medico possa essere accumulato e accresciuto gradatamente. Quest’aspetto è evidente anche nel celebre Giuramento ippocratico, che ingiunge esplicitamente di trasmettere gli insegnamenti scritti e orali ai propri figli, ai figli del proprio maestro, agli allievi che hanno prestato il giuramento. In quest’ottica, il sapere medico appare come patrimonio di un gruppo chiuso di specialisti, non di rado legati tra loro da rapporti familiari, il quale è anche tenuto alla trasmissione di tale sapere alle generazioni venture.

Un altro gruppo degli scritti costituenti il Corpus Hippocraticum si rivolge invece ad un pubblico colto, non di soli specialisti, interessato a discussioni concernenti la natura dell’uomo, le malattie e i modi per affrontarle e debellarle. Il medico antico appare come un personaggio girovago, che giunge in molte città a offrire i suoi servizi e a mettere a disposizione il proprio sapere: egli si trova dunque in forte competizione coi suoi rivali e deve dimostrare la propria superiorità su di essi non solo nei fatti, ma anche con i propri discorsi. Inoltre, i frequenti insuccessi terapeutici dei medici antichi – per esempio durante la terribile peste che sconvolse Atene nel 429 a.C., mirabilmente descritta da Tucidide – li espongono ad attacchi non solo da parte di altri medici, ma anche da parte di pratiche magiche alternative alla medicina; il che costringe i medici a riflettere profondamente sui caratteri metodici della loro disciplina, sulle sue possibilità e sui suoi limiti. Un primo obiettivo polemico è per l’appunto dato da forme di medicina magico/religiosa. Contro di esse, si tratta di mostrare il carattere naturale di tutte le malattie, dovute a cause naturali e non divine e curabili con gli strumenti propri della medicina e non con pratiche magiche: è questo il nucleo dello scritto sulla Malattia sacra. Un ulteriore obiettivo polemico è dato da impostazioni mediche fondate su presupposti filosofici neganti alla radice la possibilità di esistenza di una medicina come terapia dei mali del corpo. Tale è l’eleatismo nella formulazione datane da Melisso, giacchè con la sua rigida concezione dell’unità dell’essere esso esclude dal dominio dell’essere la possibilità di provare dolore e, più in generale, di compiere e subire un’azione.

Contro le tesi di Melisso e di quei medici che sostengono che uno solo è il costituente fondamentale del corpo umano scende in campo lo scritto intitolato La natura dell’uomo, considerato da Galeno come l’espressione migliore dell’autentico pensiero di Ippocrate (sebbene Aristotele sostenga che lo scritto deve essere attribuito non già a Ippocrate, bensì al suo genero Polibo); il nucleo di questo scritto è la teoria dei quattro umori, ai quali corrispondono i quattro temperamenti fondamentali dell’uomo: i melanconici, in cui predomina la bile nera; i flegmatici, in cui predomina il flegma; i sanguigni, in cui predomina il sangue, e infine i biliosi, in cui predomina la bile gialla. In netta opposizione con Melisso, l’autore de La natura dell’uomo asserisce che la nozione di malattia presuppone l’esistenza di una molteplicità di elementi in relazione tra loro, cosicché l’alternativa è o negare l’esistenza delle malattie (e, con esse, della medicina) o riconoscere che l’uomo è costituito da una molteplicità di elementi. In questa prospettiva, l’autore dell’opera costruisce una teoria generale dell’uomo come insieme costituito dai quattro umori. Dal rapporto equilibrato di essi scaturisce la salute, mentre la malattia non è che la rottura del loro equilibrio. Questa dottrina conoscerà un’ampia diffusione nella tradizione medica antica e sarà trasmessa fino all’epoca moderna.

Un posto a parte, nel Corpus Hippocraticum, occupa lo scritto intitolato La medicina antica, anch’esso percorso da una vena fortemente polemica: il bersaglio di tale polemica è dato soprattutto dalle dottrine generali sul cosmo o sulla natura dell’uomo, come quelle elaborate da Empedocle. Esso pone al centro, invece, la variabilità dei casi individuali, portando alle estreme conseguenze quella consapevolezza della molteplicità e diversità delle situazioni naturali e culturali che aveva attraversato l’intera cultura del V secolo a.C., allorché i Greci erano entrati a contatto con civiltà e mondi diversissimi dal loro. Il medico dev’essere attento alla varietà dei casi individuali nel formulare le sue diagnosi e fare le sue terapie, senza cedere all’illusione filosofica che esista un’unica terapia ugualmente valida per tutti gli infiniti casi possibili. Del resto la scoperta stessa della medicina sta a dimostrare, secondo l’autore dello scritto, come solo procedendo per distinzioni sempre più articolate il sapere medico possa pervenire ad una maggiore precisione ed efficacia. La medicina è, in primo luogo, una terapia mediante alimenti, bevande ed esercizi, ossia ha il suo nucleo portante nella dietetica. Ma quest’ultima, che provvede a fornire a ciascun paziente l’alimento adeguato a curarlo, altro non è se non la conseguenza della scoperta che gli uomini, per sopravvivere, non possono nutrirsi degli stessi cibi di cui si nutrono gli animali, così come i malati non possono ricevere la stessa alimentazione dei sani. La medicina è allora un sapere autonomo capace di crescere in direzione di un sempre maggiore perfezionamento dei suoi strumenti metodici e terapeutici: “la medicina da gran tempo ormai dispone di tutti gli elementi, e il principio e la via sono stati scoperti, grazie ai quali in lungo corso di tempo sono state fatte molte ed egregie scoperte, e il resto nel futuro sarà scoperto”.

Il pubblico a cui si rivolge questo autore non è costituito esclusivamente da medici: il messaggio centrale che egli vuole trasmettere è che la medicina sta assumendo uno statuto ontologico autonomo e di scienza. La medicina può perfezionarsi solo col tempo e lo scritto si schiera contro ogni medicina “filosofica”, che pretende cioè di insegnare il mestiere ai medici a partire da teorie generali sull’uomo e sul mondo: ciò implica un eccesso di generalità che le rende inutilizzabili, giacchè i filosofi non spiegano il rapporto dell’universale col particolare. Non a caso l’autore etichetta queste teorie come “ipotesi”, ossia come supposizioni di come stanno le cose, ipotesi a partire dalle quali avanzano la pretesa di aver scoperto chiavi di lettura valide per tutti; e l’autore scaglia i suoi dardi contro Empedocle e contro gli altri pensatori dell’epoca. Il medico, a differenza del filosofo, può rivendicare di dare il bene reale agli uomini: molto marcato è il senso della scoperta della medicina e della sua autonomia indiscutibile, la sua capacità di fare scoperte cosicchè anche “il resto nel futuro sarà scoperto”; non ci si deve, pertanto, fermare alle scoperte fatte, ma bisogna adoperarsi per farne di nuove e questo è possibile solo se le generazioni future faranno tesoro del sapere accumulato dai loro predecessori.

Coi profani si deve solamente discutere dei mali che affliggono l’uomo e loro stessi: in quest’ottica, è importantissima l’anamnesi, ovvero la ricostruzione mediante il colloquio col paziente del male passato per costruire il male presente e l’evoluzione che la malattia avrà nel futuro. Questa metodologia non è propria solo dei medici: anche gli storici, in una certa misura, partono dalla convinzione che per prevedere il futuro si debba conoscere bene il passato, perché ciò consente di formulare delle costanti. Ma come è nata la medicina? E’ un sapere naturalissimo, risponde l’anonimo autore del trattato: il momento in cui uomini illuminati si interrogarono se chi soffriva dovesse seguire lo stesso regime alimentare di chi era sano fu la causa scatenante di tale disciplina, nata, in fin dei conti, per la naturalissima esigenza di sopperire alle malattie dell’uomo, necessità ineliminabili.

Il passaggio dallo stato ferino alla civiltà sta, ad avviso dell’autore, nella scoperta del fuoco e nella cottura dei cibi. Proprio così si scopersero quali cibi erano utili e quali no: il sapere medico è nato nel momento in cui l’uomo è passato ad uno stato “umano” e al progresso della condizione umana è legato quello della disciplina medica. Non c’è da meravigliarsi se i primi scopritori di quest’arte erano visti come divinità, anche se, in realtà, erano uomini che esercitavano una tecnica tipicamente umana. Ma addirittura per sapere cosa è la natura è necessario partire da studi di medicina: il medico sa cosa è l’uomo e lo deduce da ciò che l’uomo mangia e beve, studiandone la salute e la condotta di vita; medico non è, dunque, chi dice che il formaggio è un cibo cattivo, ma chi dice che il formaggio è cattivo perché genera questi determinati mali.

In un brano tratto da un saggio del Corpo ippocratico Sulla tecnica è tratteggiata una sorprendente teoria della scoperta scientifica: “Scopo e compito della scienza è lo scoprire qualcosa che prima non era scoperto e il cui esser scoperto sia preferibile al restare ignoto”. Assai interessante è anche lo scritto dal titolo Arie, acque, luoghi: il messaggio basilare dell’opera è che il medico deve prestare particolare attenzione ai luoghi, all’aria e all’acqua che caratterizzano l’ambiente, giacchè egli deve scientemente tenerne conto nella prescrizione delle diete e nella diagnosi delle malattie (che trovano nell’aria uno dei principali veicoli di trasmissione). L’ulteriore messaggio che emerge dallo scritto è che le arie, le acque e i luoghi condizionano in maniera imprescindibile la costituzione umana, sia nel bene sia nel male, cosicché il buon medico dovrà conoscere in maniera adeguata l’ambiente circostante per poter così meglio svolgere la sua attività terapeutica. Ci troviamo dunque dinanzi ad un determinismo ambientale assai vicino a quello delineato da Diogene di Apollonia: l’ambiente determina in maniera imprescindibile chi in esso si trova. In questa prospettiva, l’autore dello scritto si lancia in un’autentica fisiognomica ambientale, facendo corrispondere a determinati individui determinati territori (ad esempio, chi è nato in zone boscose presenterà specifiche caratteristiche, e così via); tale corrispondenza si riverbera anche sui popoli: in particolare, l’autore di Arie, acque, luoghi instaura un raffronto tra i Greci e gli Orientali, notando come questi ultimi – poiché viventi in zone calde e secche – siano generalmente indolenti e pigri e, in forza di ciò, facilmente governati da tiranni. Al contrario, il clima solare e felice dei Greci fa sì ch’essi siano particolarmente briosi e agguerriti, pronti al pensiero come all’abbattimento delle tirannidi. Per questa via, l’autore dell’opera anticipa di parecchi secoli le riflessioni fatte da Montesquieu in Lo spirito delle leggi.

Stante l’indiscutibile necessità della natura, resta però un interstizio in cui può inserirsi la libertà umana: tale è l’istituzione politica, grazie alla quale l’uomo può liberamente ritagliarsi uno spazio d’azione i cui confini non possono essere varcati dall’agire necessitante della natura. Riportiamo qui in forma integrale il celebre Giuramento di Ippocrate: “Affermo con giuramento per Apollo medico e per Esculapio, per Igea e per Panacea – e ne siano testimoni tutti gli Dei e le Dee – che per quanto me lo consentiranno le mie forze e il mio pensiero, adempirò questo mio giuramento che prometto qui per iscritto. Considererò come padre colui che mi iniziò e mi fu maestro in quest’arte, e con gratitudine lo assisterò e gli fornirò quanto possa occorrergli per il nutrimento e per le necessità della vita; considererò come miei fratelli i suoi figli, e se essi vorranno apprendere quest’arte, insegnerò loro senza compenso e senza obbligazioni scritte, e farò partecipi delle mie lezioni e spiegazioni di tutta intera questa disciplina tanto i miei figli quanto quelli del mio maestro, e così i discepoli che abbiano giurato di volersi dedicare a questa professione, e nessun altro all’infuori di essi.

Prescriverò agli infermi la dieta opportuna che loro convenga per quanto mi sarà permesso dalle mie cognizioni, e li difenderò da ogni cosa ingiusta e dannosa. Giammai, mosso dalle premurose insistenze di alcuno, propinerò medicamenti letali né commetterò mai cose di questo genere. Per lo stesso motivo mai ad alcuna donna suggerirò prescrizioni che possano farla abortire, ma serberò casta e pura da ogni delitto sia la vita sia la mia arte. Non opererò i malati di calcoli, lasciando tal compito agli esperti di quell’arte. In qualsiasi casa entrato, baderò soltanto alla salute degli infermi, rifuggendo ogni sospetto di ingiustizia e di corruzione, e soprattutto dal desiderio di illecite relazioni con donne o con uomini sia liberi che schiavi. Tutto quello che durante la cura ed anche all’infuori di essa avrò visto e avrò ascoltato sulla vita comune delle persone e che non dovrà essere divulgato, tacerò come cosa sacra. Che io possa, se avrò con ogni scrupolo osservato questo mio giuramento senza mai trasgredirlo, vivere a lungo e felicemente nella piena stima di tutti, e raccogliere copiosi frutti della mia arte. Che se invece lo violerò e sarò quindi spergiuro, possa capitarmi tutto il contrario”.

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