IL DECADENTISMO ORIGINE

IL DECADENTISMO ORIGINE


Origine e senso del termine

Nel 1883 Paul Verlaine sul periodico”Le chat noir” pubblicava un sonetto dal titolo Languere in cui affermava di identificarsi con l’atmosfera di stanchezza e di estenuazione spirituale dell’Impero romano alla fine della decadenza, ormai incapace di forti passioni e di azioni energiche. Il sonetto interpretava uno stato d’animo diffuso nella cultura del tempo, il senso di disfacimento e di fine di tutta una civiltà, di un prossimo crollo. Queste idee erano proprie di circoli d’avanguardia che si contrapponevano alla mentalità borghese e benpensante e ostentavano atteggiamenti bohémien e idee deliberatamente provocatorie, ispirandosi al modello “maledetto” di Baudelaire. La critica ufficiale tardo –ottocentesca, in riferimento a questa nuova generazione di poeti che si ponevano al di fuori della norma sia nella produzione artistica che nella pratica di vita, usò il termine “decadentismo” in accezione negativa e spregiativa. Ma quei gruppi intellettuali lo vollero assumere polemicamente, rovesciandone il senso a indicare un privilegio spirituale e il movimento trovò il suo portavoce nel 1886 in un periodico, appunto Le Décadent. Intanto, già dal 1883, Verlaine presentò su una rivistale personalità più significative del gruppo in una serie intitolata Poètes maudits, comprendente Corbièr, Rimbaud e Mallarmé. Il romanzo di Huysmans A rebours (Controcorrente) rappresentò un vero e proprio manifesto e fissò i codici del gruppo decadente, esercitando forti suggestioni anche su autori stranieri, come D’Annunzio nel Piacere e Wilde nel Ritratto di Dorian Gray.

Senso ristretto e senso generale del termine

Il termine decadentismo, quindi, originariamente indicava un determinato movimento letterario, sorto in un dato ambiente, quello parigino degli anni Ottanta, con un preciso programma culturale espresso esplicitamente in manifesti o altri organi di stampa. Ma poiché in quel movimento erano in germe tendenze che poi sarebbero state riprese o si sarebbero autonomamente sviluppate in altri contesti più vasti, la storiografia letteraria italiana, nel corso del Novecento, ha assunto il termine per designare un’intera corrente culturale, di dimensioni europee, che si colloca negli ultimi due decenni dell’Ottocento, con propaggini nel primo Novecento; taluni anzi hanno proposto di usare la formula per definire un intero periodo storico che ingloba lo stesso Novecento. Cioè, in Italia viene assunto per indicare tutta la letteratura e la civiltà del ‘900, in quanto tutto il secolo è caratterizzato dall’angoscia esistenziale (tema caro ai decadenti). Ecco che qui il Decadentismo diventa termine generico con cui si designano varie poetiche: Simbolismo, Impressionismo, Estetismo, Surrealismo, Crepuscolarismo, Futurismo, Ermetismo. In realtà, tutte queste correnti rientrano in un’epoca diversa; meglio sarebbe considerare il Decadentismo come una manifestazione della fine dell’Ottocento (con Pascoli, D’Annunzio, Fogazzaro).

La visione del mondo

La base dei decadenti è un irrazionalismo misticheggiante. Viene completamente rifiutata la visione positivistica, che costituisce il sostrato della visione corrente borghese: la convinzione che la realtà sia un complesso di fenomeni materiali regolati da leggi ferree, che la scienza possa garantire una conoscenza oggettiva e totale della realtà e che possa portare a un progresso indefinito. Il decadente ritiene, al contrario, che la ragione e la scienza non possano dare la vera conoscenza del reale, perché l’essenza di esso è al di là delle cose, misteriosa ed enigmatica, per cui solo rinunciando al razionale si può tentare di attingere all’ignoto. L’anima decadente è, perciò, sempre protesa verso il mistero, che è dietro la realtà visibile. Se per la visione comune le cose possiedono una loro oggettiva individualità, per questa visione mistica tutti gli aspetti dell’essere sono legati tra loro da arcane analogie e corrispondenze, che sfuggono alla ragione. Ogni forma visibile non è che un simbolo di qualcosa di più profondo che sta al di là di essa e si collega con infinite altre realtà che solo la percezione dell’iniziato può individuare (visione già formulata in Corrispondenze nei Fiori del Male di Baudelaire). Non c’è più rottura tra l’io e il mondo, tra soggetto e oggetto; i due piani si fondono e l’unione avviene a livello dell’inconscio, che viene veramente scoperto per la prima volta dai decadenti. Se il mistero non può essere colto attraverso la ragione e la scienza, altri sono i mezzi utilizzati dal poeta decadente. Innanzitutto, come strumenti privilegiati del conoscere vengono indicati tutti gli stati abnormi e irrazionali dell’esistere. La malattia, la follia, la nevrosi, il delirio, il sogno e l’incubo, l’allucinazione. Gli stati di alterazione possono anche essere provocati artificialmente, attraverso l’uso dell’alcol, dell’assenzio o delle droghe, l’hashish, l’oppio o la morfina [questo non avviene in Italia]. Vi sono poi altre forme di estasi che consentono questa esperienza dell’ignoto e dell’assoluto. Per esempio l’atteggiamento definito Panismo (la natura è in tutto), per cui l’io può annullarsi nel Tutto e confondersi con la materia, farsi nuvola o corso d’acqua, e potenziare la propria vita, renderla come divina [vedi D’Annunzio]. Un altro tipo di stato di grazia è costituito dalle Epifanie, come le definisce il giovane James Joyce: un particolare qualunque della realtà si carica all’improvviso di una misteriosa intensità di significato, come rivelazione di un assoluto [ad es. i filari di una vigna che sale su un colle appaiono all’improvviso come una porta magica (Cesare Pavese)].

La poetica decadente

I principi della poetica decadente possono essere così riassunti:

  • L’artista è un veggente, capace di spingere lo sguardo là dove l’uomo comune non vede nulla, di rivelare l’assoluto; l’arte è la voce del mistero.
  • L’artista è un esteta, cioè è colui che assume come principio regolatore della sua vita non i valori morali, il bene o il male, il giusto o l’ingiusto, ma solo il bello, ed esclusivamente in base ad esso agisce e giudica la realtà. Egli si pone al di là della morale comune, in una sfera di assoluta eccezionalità rispetto agli uomini mediocri; arte e vita si confondono, tendendo a fare della propria vita un’opera d’arte [vedi D’Annunzio].
  • La tecnica espressiva è quella della poesia pura: il poeta rifiuta di farsi banditore di idealità morali e civili, l’arte rifugge dalla rappresentazione della realtà storica e sociale e si chiude nella celebrazione di se stessa, depurandosi di tutti gli intenti pratici e utilitaristici. La poesia diventa spesso oscura, rivolta a pochi iniziati e rivela il carattere estremamente aristocratico dell’arte decadente.
  • Il linguaggio poetico si rivoluziona, non è né logico né descrittivo, ma allusivo. Il significato della parola si fa labile, evanescente; alle immagini nitide e distinte si sostituisce l’evanescente, l’impreciso, il vago, l’indefinito [vedi Arte poetica di Verlaine]. Acquista importanza la musicalità: la parola non vale tanto come significato logico, ma come pura fonicità, che si carica di valori evocativi (fonosimbolismo). [Nella visione decadente la musica è l’arte suprema perché la più idefinita e svincolata da ogni significato logico]. Abbondano, inoltre, metafore, analogie, simboli, sinestesie.
  • Si afferma il verso libero, cioè senza legami con la rima o strofe precostituite. La metrica tradizionale si disintegra, si rifiutano le forme metriche chiuse, le strofe e i versi tradizionali proprio perché la poesia è illuminazione e rivelazione e non può avere interferenze esterne e razionali.

Temi e miti della letteratura decadente

All’interno del Decadentismo si riscontra un’estrema varietà di tendenze, tuttavia si possono fornire alcuni filoni particolarmente significativi:

-Il rifiuto aristocratico della normalità: l’atteggiamento antiborghese e il conflitto con la società si esasperano, l’artista si isola ed è orgoglioso della propria diversità; – l’ammirazione per le epoche di decadenza, come la grecità alessandrina, la tarda latinità imperiale, l’età bizantina; -il vagheggiamento del lusso e della lussuria, complicata dalla perversione e dalla crudeltà; -la nevrosi; -la malattia, che da un lato si pone come metafora di una condizione storica di crisi profonda, dall’altro lato diviene condizione privilegiata e appare come uno stato di grazia; -la morte, la volontà di annientamento e l’attrazione irresistibile verso il nulla.

Sempre all’interno della stessa cultura si contrappongono tendenze opposte a quelle appena citate:

-Il vitalismo, cioè l’esaltazione della pienezza della vita senza limiti e senza freni al di là di ogni norma morale; -la ricerca del godimento dionisiaco; – la celebrazione della forza barbarica che impone il suo dominio sui deboli.

Le due componenti opposte (che si richiamano la prima a Schopenhauer e la seconda a Nietzsche) si delineano chiaramente nell’arco della produzione dannunziana.

Gli eroi decadenti

  • L’artista maledetto, che profana tutti i valori e le convenzioni della società, che sceglie il male e l’abiezione e si compiace di una vita misera, errabonda, sregolata.
  • L’esteta (Andrea Sperelli di D’Annunzio e Dorian Gray di Wilde), cioè l’uomo che vuole trasformare la sua vita in opera d’arte, sostituendo alle leggi morali le leggi del bello. L’esteta ha orrore della vita comune, della mentalità borghese, dell’egualitarismo democratico.
  • L’inetto, cioè colui che è incapace a vivere; egli non sa partecipare alla vita che pulsa attorno a lui per mancanza di energie vitali, non ha volontà. Può solo rifugiarsi nelle sue fantasie; più che vivere , si osserva vivere.
  • La donna fatale, dominatrice del maschio fragile e sottomesso, lussuriosa e perversa, crudele e torturatrice, maga ammaliatrice al cui fascino non si può sfuggire; porta l’uomo alla follia, alla perdizione, alla distruzione.
  • Il fanciullino pascoliano: il rifiuto della condizione adulta, della vita di relazione al di fuori del protettivo “nido” familiare, il regredire a una sensibilità infantile che si traduce in uno strumento di indagine del mistero del mondo.
  • Il superuomo dannunziano, antitesi degli eroi deboli e inetti, sicuro e forte, che si muove verso la sua meta eroica senza dubbi né debolezze.
Coordinate storiche

Decadentismo e Romanticismo. Il Decadentismo rappresenta una continuità col Romanticismo per molti aspetti (per esempio l’irrazionalismo, il soggettivismo), che vengono, però, esasperati. In realtà, varie sono anche le differenze. L’individualismo romantico è una reazione all’appiattimento dell’Illuminismo, quello decadente si fonda sull’analisi compiaciuta delle proprie sensazioni (infatti reagisce all’impersonalità dell’arte del Naturalismo). Il Romanticismo contrappone il sentimento alla ragione, il Decadentismo vi contrappone l’inconscio, cioè qualcosa di più misterioso e oscuro; non parla di sentimento che è banale, ma di sensazione.

Il Romanticismo si accompagna sempre ad un senso di solidarietà e a forme di impegno, il Decadentismo è asociale e rifiuta l’impegno. L’uno è di natura democratica, l’altro aristocratica ed elitaria.

Decadentismo e Naturalismo. L’antitesi tra le concezioni di fondo tra le due correnti è evidente ed è già stata evidenziata: rifiuto del Positivismo e della mentalità borghese, del canone dell’impersonalità dell’arte, dell’impegno sociale eccetera, ma non bisogna dimenticare che entrambi i fenomeni sono paralleli e compresenti durante l’ultimo trentennio dell’Ottocento, tanto che spesso appaiono mescolati. Aspetti decadenti sono ravvisabili in scrittori naturalisti e viceversa (es. Zola, Huysmans, D’Annunzio).

 

/ 5
Grazie per aver votato!

ITALO SVEVO

ITALO SVEVO

Italo Svevo, pseudonimo di Aron Hector Schmitz, fu uno scrittore e drammaturgo italiano, autore di tre romanzi, numerosi racconti brevi e opere teatrali.

ITALO SVEVO RIASSUNTO (Italo Svevo La vita)


Aron Hector Schmitz nacque a Trieste il 19 dicembre 1861 da Francesco Schmitz, commerciante in vetrami, e Allegra Moravia, entrambi di origine ebraica. Quinto di otto figli, trascorre un’agiata infanzia a Trieste, che abbandona per andare in collegio in Germania, dove studia materie legate alle attività commerciali. Poco incline ai suoi studi, si dedicò ad appassionate letture di scrittori tedeschi, Goethe, Schiller, Heine, Jean Paul, dimostrando così il suo forte interesse letterario. Nel 1878, terminati gli studi, ritornò a Trieste, dove si iscrisse all’Istituto superiore per il commercio Pasquale Revoltella, che frequentò per due anni.

La sua reale aspirazione era divenire scrittore: nel 1880 diede inizio ad una collaborazione con il giornale irredentista triestino “L’Indipendente”, con articoli letterari e teatrali, firmati con lo pseudonimo Ettore Samigli. Nello stesso anno il fallimento del padre lo costrinse a cercar lavoro e a impiegarsi presso la succursale triestina della banca Union di Vienna. La nuova insoddisfacente occupazione lo portò a cercare un’evasione nella letteratura, frequentando la biblioteca civica e leggendo i classici italiani e i maggiori narratori francesi dell’Ottocento. In questo periodo scrive le prime novelle e il romanzo, Una vita, lucido racconto del dramma dell’inurbamento di un giovane di campagna che si concluderà con il suicidio, iniziato nell’88 e pubblicato a sue spese nel ’92, anno in cui era morto suo padre, con il nome di Italo Svevo. Nel dicembre 1895 si fidanzò con la cugina Livia Veneziani, figlia di un industriale cattolico dirigente di una fabbrica di vernici sottomarine.

Svevo entra così a far parte di una solida e ricca borghesia, dalla quale avverte una distanza tale da redigere nel 1896 un Diario per la fidanzata, nel tentativo di colmare la distanza attraverso l’educazione della fidanzata all’inquietudine intellettuale. Nel luglio del ’96 avviene il matrimonio con rito civile, e solo nel ’97, dopo l’abiura della religione ebraica, con rito cattolico; due anni dopo Svevo pubblica a puntate sull’Indipendente il suo secondo romanzo, Senilità, che poi stampa a proprie spese.: storia dell’amore di un non più giovane letterato per la sfuggente Angiolina, dalla prorompente vitalità, da molti identificata con Giuseppina Zergol, una ragazza triestina con cui l’autore ebbe una relazione prima di conoscere la futura moglie.

L’insuccesso del romanzo e il matrimonio lo allontanano dalla letteratura, e nel 1899 entra a far parte della ditta del suocero: nella nuova veste di uomo d’affari compie lunghi viaggi in Francia e in Inghilterra. Nel 1905 a Trieste conosce Joyce, che insegna inglese alla Berlitz School e gli dà lezioni d’inglese: l’amicizia con lo scrittore irlandese e la curiosità da questi manifestata per le sue opere mantengono viva la sua passione per la letteratura. Poco dopo Svevo comincia ad appassionarsi al pensiero di Freud, e dopo essere venuto a conoscenza delle sue teorie, induce il cognato Bruno Veneziani a sottoporsi a terapia e a rivolgersi direttamente al fondatore della psicoanalisi a Vienna. Durante la guerra rimane a Trieste a occuparsi della fabbrica. Nel 1919 si apre la fase di ritorno alla letteratura. Nel 1923 viene pubblicato La coscienza di Zeno: dopo il disinteresse iniziale manifestatosi in Italia per questo romanzo, Joyce, che al tempo viveva a Parigi, si adoperò per farlo conoscere fra i critici francesi, mentre in Italia la sua grandezza veniva riconosciuta dal giovane Eugenio Montale, con cui strinse una grande amicizia. Nel 1927 tiene una conferenza su Joyce a Milano e pubblica una nuova edizione di Senilità. Ormai in condizione di salute malferma, ebbe un incidente d’auto al ritorno da Bormio: morì il 13 settembre 1928 in seguito a complicazioni cardio-respiratorie.

Il riconoscimento della sua opera fu così tardivo che, sebbene già negli anni ’30 i critici ne avessero riconosciuta l’importanza, solo dopo gli anni cinquanta fu conosciuto dal grande pubblico. Subì inoltre, soprattutto negli ultimi anni, l’influenza di Freud, il quale era portatore sia di elementi positivisti, quale la necessità di ricondurre lo studio a chiarezza scientifica, che antipositivisti, come l’evidenziamento dei limiti della ragione rispetto al potere dell’inconscio. In realtà lo scrittore assunse gli elementi critici e gli strumenti di diversi pensatori, e non il loro pensiero complessivo. Infatti Svevo condivise con Darwin, con il positivismo in genere e con Freud, la propensione all’utilizzo di metodi scientifici di conoscenza e il rifiuto di una visione metafisica, spiritualistica, senza però accettare la fiducia darwiniana nel progresso e la presunzione del positivismo di fare della scienza una base oggettiva e indiscutibile del sapere. Problematico fu il rapporto con la psicoanalisi, che pure ebbe un ruolo così importante nella sua riflessione e nella sua scrittura letteraria: verso Freud lo spingeva l’interesse per le tortuosità e le ambivalenze della psiche profonda, che già aveva esplorato prima della nascita delle teorie psicoanalitiche in Una vita e in Senilità. Ma Svevo non apprezzò la psicoanalisi come terapia, che pretendeva di portare alla salute il malato di nevrosi, bensì come puro strumento conoscitivo, capace di indagare più a fondo la realtà psichica, e, di conseguenza come strumento narrativo.

L’autore riconosce infatti nell’ammalato pulsioni vitali che verrebbero spente dalla terapia. Il rifiuto della psicoanalisi come terapia rivela nello Svevo de La coscienza di Zeno una difesa dei diritti dei cosiddetti “ammalati” rispetto ai “sani”. La nevrosi, per Svevo, è anche un segno positivo di non rassegnazione e di non adattamento ai meccanismi alienanti della civiltà, la quale impone lavoro, disciplina, obbedienza alle leggi morali, sacrificando la ricerca del piacere. L’ammalato è colui che non vuole rinunciare alla forza del desiderio. La terapia lo renderebbe sì più “normale”, ma a prezzo di spegnere in lui le pulsioni vitali. Per questo l’ultimo Svevo difende la propria “inettitudine” e la propria nevrosi, viste come forme di resistenza all’alienazione circostante. Rispetto all’uomo efficiente ma del tutto integrato nei meccanismi inautentici della società borghese, egli preferisce essere un “dilettante”, un “inetto”, un “abbozzo” aperto a possibilità diverse.


Poetica di Svevo

La letteratura è concepita come recupero e salvaguardia della vita. L’esistenza vissuta viene sottratta al flusso oggettivo del tempo. Soltanto se l’esistenza sarà narrata sarà possibile evitare la perdita dei momenti importanti della vita e rivivere nella parola letteraria l’esperienza vitale del passato, i desideri e le pulsioni che nella realtà sono spesso repressi e soffocati. Alla base del pensiero sveviano ci sono le idee di tre pensatori, Schopenauer, Darwin e Freud, dai quali egli trasse temi e motivi che sviluppò variamente. Dal filosofo tedesco egli riprese il motivo fondamentale della volontà come forza cieca che trascina e travolge l’uomo, senza che questi possa resisterle in alcun modo, a causa dello scarto esistente tra le difficoltà del vivere e l’esiguità e debolezza degli strumenti di cui egli dispone per affrontarle.

Il pessimismo schopenaueriano produce l’idea di una vita che oscilla in una sorta di moto pendolare fra il dolore che nasce dal bisogno e la noia che è il sentimento rivelatore dell’insignificanza e vacuità dell’esistenza. D’altra parte, essere autenticamente uomo significa per Svevo esercitare ciò che è specificamente umano, cioè la coscienza, sottraendosi così al sistema deterministico della vita vegetale e animale e creando delle rappresentazioni del reale; ciò non vuol dire coltivare finalità trascendenti, conseguire la felicità o uno statuto privilegiato dell’esistenza umana rispetto alla vita nel mondo naturale, ma solo per guadagnare in autenticità. La dicotomia basilare in Svevo è tra salute e malattia.

L’individuo sano è per Svevo colui che, non solo sa soddisfare i propri bisogni elementari come creatura del mondo naturale, facendo ciò che l’impulso vitale gli detta: mantenersi in vita come individuo ed assicurare la permanenza della specie attraverso la riproduzione. L’individuo sano dei romanzi sveviani è il prototipo dell’uomo perfettamente integrato nella società in cui vive, omologato ai suoi principi e valori (quelli borghesi). Esso tuttavia sembra forte e ben attrezzato per la darwiniana lotta per la vita, ma in realtà è solo più “specializzato” e l’evoluzionismo insegna che quanto più l’essere vivente si specializza, tanto più si espone a rischio nel caso di cambiamenti, perché incapace, o maggiormente in difficoltà, ad adeguarsi alle mutate delle circostanze e dell’ambiente. Un sano, dunque, che appare “forte” solo in determinate favorevoli condizioni, ma che nasconde una “fragilità” che può manifestarsi improvvisamente e disastrosamente. Dall’altra parte sta il “malato” (di malattia nervosa però, non fisica), la cui malattia consiste propriamente nell’inettitudine a vivere, ossia ad assecondare positivamente il flusso vitale.

Il malato è infatti colui che si ritrae dalla vita, rinuncia all’invito a godere dei suoi doni, vive in un perenne stato di malcontento e insoddisfazione. Paragonandosi al “sano” si sente scontento e debole, ma di fatto è solamente “non specializzato” e perciò sempre in difficoltà, ma d’altra parte sempre con il cervello in funzione per inventare nuovi modi per sopravvivere. Tali modi, una volta sperimentati, diventano “forme”, schemi di comportamento, modi di fare e di essere che, cumulandosi nel tempo e costituendosi in sistema, diventano le sovrastrutture culturali che danno all’uomo un’apparente padronanza di sé e del suo destino, consegnandolo in realtà all’alienazione dai propri desideri più autentici quelli che in realtà più lo connotano come individuo.

Questo genere di sicurezza è quello che può trasformare un “malato” in un “sano” nella prospettiva sveviana. Una prospettiva non necessariamente allettante allora. Riassumendo, vediamo che, se la “malattia” (cioè l’inettitudine, l’irresolutezza, l’incapacità di godere) presenta caratteri svantaggiosi indubitabili, è pur vero che la “salute” che Svevo le contrappone, anche se magari agognata dal protagonista malato di turno, è la salute di chi si ritiene a posto per il fatto di aver ottemperato agli obblighi e alle consuetudini sociali, facendo propri i valori (etica del denaro e del successo) dominanti nella società e rinunciando a pensare in proprio. I personaggi dei giovani di successo che si contrappongo ai protagonisti sono presentati sempre molto esteriormente, sono piuttosto privi di spessore umano: sono descritti così come li vede l’inetto protagonista. Si finisce quindi con il parteggiare per costui, le cui miserie umane sono peraltro assai grandi, ma che mantiene un privilegio nei confronti del “sano”: la coscienza. Per Svevo, ma non solo per lui, non si offre una terza via tra queste due posizioni. Per quanto concerne i rapporti con la psicoanalisi di Freud è bene precisare che, se Svevo non avesse conosciuto il pensiero di Freud, non avrebbe presumibilmente mai scritto il romanzo La coscienza di Zeno o non sarebbe comunque come lo conosciamo.

Va riconosciuto peraltro che c’erano già stati L’assassinio di via Belpoggio, Una vita e Senilità prima del suo capolavoro, e anch’essi presentano un tratteggio psicologico dei personaggi approfondito e sono stati scritti prima che si sentisse parlare di psicoanalisi ( L’interpretazione dei sogni, opera che rappresenta il vero e proprio esordio pubblico della psicoanalisi di Freud porta la data del 1900, mentre l’ultima delle opere sveviane citate è del 1898): possiamo dire allora che l’insegnamento freudiano intervenne a chiarire e precisare una tendenza già esistente in Svevo. Resta da spiegare il suo atteggiamento ambivalente nei confronti della psicoanalisi stessa: egli, per un verso ammetteva candidamente di aver preso di peso da essa due o tre idee per la sua Coscienza, ma d’altra parte rifiuta recisamente la qualifica di scrittore freudiano e nello stesso romanzo ironizza non poco a proposito della psicoanalisi e della sua validità terapeutica. Del resto Freud è uno scienziato e le sue ricerche sull’inconscio sono finalizzate alla terapia delle nevrosi; Svevo invece è un artista e, se pure parte della problematica coincide, il suo scopo ultimo è la conoscenza finalizzata alla produzione letteraria. A Svevo interessava il versante filosofico del pensiero freudiano, non quello terapeutico, tanto più che, come abbiamo visto, nella sua ottica il “malato” è di fatto un individuo autentico, quanto meno più del “sano”, che esercita la coscienza.

In questo modo Svevo non poteva che allontanarsi da Freud, perché di fatto, sostenendo che l’inetto è uomo autentico, afferma che la nevrosi è la condizione umana più vera e che fuori di questa non vi è che ottusità e comportamenti falsamente sani perché cristallizzati in cliché. Tutto ciò corrisponde al vero, ma solo in una prospettiva in cui a confrontarsi siano soltanto le autentiche “debolezze” del “malato” con le false “sicurezze” del “sano”. E comprensibile il rigetto della psicoanalisi, se il suo scopo viene concepito come quello di trasformare quel “malato” in questo “sano”. Va aggiunto poi che , molto probabilmente, Svevo non gradiva molto l’interpretazione di Freud dell’arte (e della scienza del resto) come di forme di sublimazione di pulsioni più basse, connessa al processo di civilizzazione come evoluzione intellettuale ottenuta attraverso progressiva inibizione e dominio sulle pulsioni da parte dell’essere umano. A Svevo non è mai interessato rientrare in quelle esperienze culturali italiane volte a superare la crisi post-risorgimentale nella valorizzazione della realtà e dei problemi regionali (ad es. il Verismo). Né gli premeva di ricercare nuovi miti e modelli di comportamento per una borghesia velleitaria o delusa (ad es. Decadentismo, Futurismo, ecc.). Il suo orientamento va piuttosto in direzione di una tematica esistenziale, verso la rappresentazione della solitudine e dell’aridità degli individui che avvertono con disperazione la loro incapacità di aderire alla vita. La sua poetica, in un certo senso, rientra nel vasto movimento decadentistico. Della vita dell’uomo gli interessano non i rapporti sociali, ma gli impulsi più segreti e oscuri, che paralizzano, ovvero gli aspetti dissociati e contraddittori del pensiero e dell’agire. Nei suoi romanzi appare evidente che la solitudine e l’alienazione dei protagonisti sono manifestazioni di una “malattia mortale” che corrode non solo i singoli individui, ma l’intera società borghese, per cui non c’è alcuna speranza che la situazione possa migliorare. C’è insomma un abisso incolmabile fra la consapevolezza con cui si avverte questa tragedia e la possibilità di un’azione costruttiva: anzi, quanto più è forte la consapevolezza, tanto più è forte l’incapacità di reagire. Svevo e Pirandello, in questo senso, si somigliano molto. Svevo si inserisce perfettamente in questa scoperta dell’inconscio (fatta da Freud), che è la strada anche di Proust e di Joyce, ed è questa la vera novità del suo romanzo.

Svevo s’interessò molto di psicanalisi freudiana, che era stata divulgata negli anni successivi alla I guerra mondiale, ma il suo interesse è caratterizzato da uno spirito polemico e sottilmente ironico nei confronti di questa nuova disciplina. La psicanalisi viene vista come una terapia cui il protagonista dell’ultimo romanzo si sottopone scetticamente, per giungere, quasi contro questa stessa terapia, a ricostruire da solo le motivazioni profonde del suo comportamento.


L’inetto

Un ruolo centrale nella narrativa di Svevo è occupato dalla figura dell’inetto. L’inetto si
contrappone all’esteta: si sente inadatto a vivere poiché non riesce ad aderire alla vita,
non ha valori in cui credere, non ha scopi, non ha un ruolo nella società in cui
riconoscersi, quindi non riesce a dare un senso alla propria vita. Inoltre l’inetto si sente
malato di quella malattia che è il disagio del ‘900: l’incapacità di provare sentimenti, che
provoca nell’uomo un intenso alone di tristezza e di infelicità.

L’inetto è sempre un eroe sconfitto che potrebbe apparire al pubblico molto simile ai personaggi vinti rappresentati da Verga, ma esiste una notevole differenza: mentre la sconfitta dei vinti era da imputare esclusivamente all’ambiente,il fallimento dell’inetto è da ricondurre alla frattura venutasi a creare tra l’io e la realtà e all’interno dell’uomo
con la scoperta dell’inconscio.

Tutti i personaggi protagonisti dei romanzi di Svevo sono
degli inetti, ma c’è una sostanziale differenza tra Alfonso ed Emilio, protagonisti di “Una
vita” e “Senilità” e Zeno, protagonista de “La coscienza di Zeno”: i primi due sono tragici,
sono rappresentati in una dimensione cupa e triste e il loro destino è la morte o comunque
la rinuncia a vivere; Zeno invece riesce a non essere tragico in quanto, vista la sua età
matura, assume la consapevolezza della sua “malattia” e usa l’ironia per sdrammatizzare
se stesso e la sua condizione. Zeno è colui che, convinto di sbagliare, effettua la
scelta più giusta, riuscendo perciò a raggiungere involontariamente la felicità. Nella
realtà dunque, un ruolo fondamentale è rappresentato dal caso e l’inetto è appunto colui
che deve sottostare a questa componente che nel ‘900 aumenta sempre di più la sua
importanza.

/ 5
Grazie per aver votato!

Privacy Policy

Cookie Policy

error: Content is protected !!