STORIA DI ROMA LA SECONDA GUERRA PUNICA

STORIA DI ROMA LA SECONDA GUERRA PUNICA


Amilcare in Spagna

Amilcare Barca non si dava per vinto. Nel 237 a.C. convinse il re cartaginese Annone il Grande a concedergli una spedizione in Spagna. Partendo dalle colonie che già si trovavano nella penisola iberica, Amilcare intendeva dominare quel territorio ricco di risorse naturali (oro, rame, ferro, stagno).

In Spagna Amilcare otteneva un successo dopo l’altro, sia militare che diplomatico, aveva portato con sè anche il figlio Annibale, al quale aveva fatto giurare di fronte all’idolo Baal, che avrebbe odiato i romani per tutta la vita. Amilcare si “portava avanti col lavoro”, perché mentre si faceva sempre più strada l’idea di invadere l’Italia, morì in un fiume a causa di un tranello, nel 229 a.C.

Il comando passò al genero Asdrubale. Egli fondò sulle coste del sud una nuova colonia, Carthago Nova, che divenne la base cartaginese in Spagna.

Il compito di Asdrubale era quello di raggiungere le sponde del fiume Ebro, confine dell’influenza cartaginese in Spagna, come accordi stipulati con Roma, e poi da li prepararsi a invadere l’Italia.

Annibale Barca, l’assedio di Segunto

Alla morte di Asdrubale, nel 221 a.C., Annibale, appena venticinquenne, divenne il generale in capo dell’esercito cartaginese.
Annibale era un uomo deciso e spartano, personaggio dal grande carisma e dal grande coraggio in battaglia, nelle quali mai si tirava indietro, all’occorenza si accontentava di dormire per terra. Era crudele e sanguinario e aveva scarso rispetto per gli Dei, in compenso non era uomo di parola, ciò che interessava più di tutto al giovane generale era la sconfitta di Roma, come per rispettare la promessa fatta al padre.

Nel 219 cominciò l’assedio di Sagunto, una città autonoma protetta da Roma, e la espugnò dopo otto mesi di battaglia. I romani mandarono le loro ambasciate sia in Spagna sia a Cartagine, pregando il nemico di rispettare i patti e l’autonomia della città. Annibale continuò sanguinariamente ad attacare la città, tanto che si narrà del suicidio volontario dei suoi abitanti.
A Cartagine Annone il Grande, fautore della pace coi romani, era stato messo in minoranza dalla potente famiglia dei Barca, i quali permisero agli ambasciatori romani di ufficializzare formalmente il conflitto. Gli ambasciatori offrirono ciò che i cartaginesi avrebbero chiesto, sia pace che guerra, e i Barca decisero per la guerra.

Sagunto fu così il casus belli che diede inizio alla seconda guerra punica.

L’Invasione dalle Alpi

Annibale si apprestava ad invadere l’Italia romana da nord, nel 218 a.C. attraverso le Alpi. Il suo esercito era composto da 50.000 fanti e 90.000 cavalieri, nonché da trentasette elefanti. Passato l’Ebro, attraverso non senza difficolta i Pirenei, e qui si trovò di fronte alle popolazioni galliche.

Il piano era quello di allearsi con loro per rinforzare l’esercito. I volsci lo ostacolarono con le armi. Anche l’attraversamento del Rodano con gli elefanti fu alquanto difficile, ma ormai l’obiettivo era stato fissato e nulla poteva impedire di raggiungerlo.

Nel settembre del 218, Annibale giunse al passo del Monginevro. Attraversò le Alpi con gli Elefanti e il suo esercito, in una lunga carovana, per sentieri men che meno impervi e spaventosi, sotto le tormente di neve. Un’impresa titanica anche ai giorni nostri (gli elefanti sulle Alpi!).

Moltissime furono le perdite tra gli elefanti e gli uomini dell’esercito, nonostante ciò Annibale riusci nel suo intento di ridiscendere i monti e affaciarsi sulla Pianura Padana.

Le sconfitte del Ticino, del Trebbia e del Trasimeno

Roma aveva affidato il comando delle operazioni a due consoli: Publio Cornelio Scipione, patrizio, e a Tiberio Sempronio Longo, plebeo. Il Primo doveva partire per la Spagna, il secondo sbarcare in Africa per colpire Cartagine al cuore.

La notizia dell’invasione dalle Alpi fece saltare tutti i piani, e i due eserciti dovettero frettolosamente ritornare in Italia quando già erano sulla via dei rispettivi obiettivi (Longo era già arrivato a Malta).

Con sorpresa dei romani, che credevano i cartaginesi stanchi e malridotti dall’attraversamento delle montagne, l’esercito di Annibale inflisse una sonora sconfitta a quello di Scipione presso il Ticino, grazie all’aiuto di una formidabile cavalleria.
Lo stesso generale romano fu salvato dal suo giovane figlio diciassettenne, Publio Cornelio. Scipione, ferito, si ritirò a Piacenza e aspettava di ricongiungersi con l’esercito di Longo, che proveniva da Ariminum attraverso la Flaminia. 35.000 erano i romani, 20.000 i cartaginesi, con il loro seguito di alleati.

Ma nel dicembre del 218 il gelo era tremendo. Con un tranello Annibale attirò l’esercito romano in una trappola sul fiume Trebbia, gli elefanti sbaragliarono i romani, la sconfitta fu disastrosa. A Roma cominciavano a temere un invasione simile a quella subita da Brenno.

Nel frattempo, il fratello maggiore di Publio Scipione, Gneo, otteneva buoni successi in Spagna, cercando idi interrompere i collegamenti tra Annibale e la penisola iberica (si veda la III parte).

Intanto al comando dell’esercito romano era salito Caio Flaminio (il costruttore della Flaminia), plebeo, a furor di popolo. Annibale era giunto in Etruria e bisognava contrastarlo. La battaglia fu combatutta presso il lago Trasimeno, nel giugno del 217. Il disastro romano fu assoluto. Flaminio morì, 15.000 romani vennero uccisi e altri 12.000 si erano frettolosamente dispersi.

Le prime battaglie volsero decisamente a favore di Annibale: sotrasse ai romani la Gallia Cisalpina (la Pianura Padana) e gettava scompiglio in Etruria. Annibale stimava il sistema di alleanze create da Roma piuttosto debole, per questo ad ogni popolo conquistato dichiarava di essere venuto a liberarlo dal giogo dell’iniqua prepotenza romana.

Quinto Fabio Massimo, il temporeggiatore

Nel 217 i romani affidarono le sorti della città a un nuovo dittatore: il generale Quinto Fabio Massimo, di discendenza patrizia e già vittorioso contro i liguri. Egli non decise di attaccare Annibale, ma si limitò a fortificare le mura della città.

Annibale, in conseguenza di ciò, decise di non attaccare subito Roma, proseguendo nel suo piano di accerchiamento: egli intendeva conquistare i popoli italici sia del nord che del sud, in modo tale da indebolire la supremazia romana e schiacciarla nella morsa di una generale insurrezione popolare.

Incontrata una imprevista resistenza a Spoleto, saltò la città ostile e si diresse verso l’Apulia (l’odierna Puglia). Le colonie romane di Lucera e Venosa lo contrastarono però vigorosamente, cosicché decise di dirigersi verso la Campania in direzione del Sannio.

Quinto Fabio Massimo adottava una tattica attendista. Il suo esercito seguiva quello cartaginese da vicino, senza ingaggiare battaglia, nell’attesa di trovarsi sul terreno favorevole per attaccare. Fatto sta che i cartaginesi continuavano a saccheggiare i paesi che attraversavano, e lo scontento cominciava a farsi largo tra il popolo.
Marco Minucio Rufo, detrattore di Fabio Massimo, non perdeva occasione per cavalcare il malcontento popolare e stigmatizzare la tattica “codarda” del generale romano.

In effetto un occasione si presentò a Fabio Massimo: l’esercito cartaginese si era imbottigliato fra Teano e Cales. Fabio Massimo controllava l’uscita della valle, ma Annibale, con uno stratagemma degno di Ulisse, riuscì a cavarsela anche questa volta: ordinò di attaccare delle fascine sui fianchi di una mandria di buoi e poi, appiccato il fuoco, la scagliò contro l’esercito romano. Lo scompiglio fu tale che i cartaginesi ebbero il tempo di fuggire.

La sconfitta di Canne

Nella primavera del 216, scaduta l’investitura di Fabio Massimo, furono eletti due nuovi consoli: Lucio Emilio Paolo, patrizio, e Caio Terenzio Varrone, di “esemplare” estrazione plebea (figlio di un macellaio, egli stesso in passato garzone).
La parola d’ordine era attaccare finalmente Annibale per cancellare la “vergognosa” tattica attendista di Fabio Massimo.

Lo scontro tra i due eserciti avvenne a Canne, sconosciuto villaggio nei pressi del Gargano. I romani avevano a disposizione 50.000 fanti e 6.000 cavalieri, i cartaginesi 35.000 fanti e 10.000 cavalieri.

L’esercito romano era però gravato del disaccordo tra i due consoli, l’uno era contro le decisioni dell’altro, il patrizio contro il plebeo. Annibale tese inoltre una trappola: finta la diserzione di 500 numidi, giunti presso i romani, i soldati sguainarono all’improvviso le spade contro i legionari.
Annibale era strategicamente superiore ai due consoli, la polvere accecava l’esercito romano e la cavalleria cartaginese accerchiò facilmente i nemici. Fu una strage.
L’attacco romano fu deciso da Varrone all’insaputa del console patrizio. I romani lasciarono sul campo 45.500 fanti 2.700 cavalieri. Morirono Lucio Emilio Paolo e i tribuni militari Gneo Servilio Gemino e Marco Minucio Rufo, oltre a ottanta senatori partiti come volontari. Varrone si rifugiò a Venosa.

Canne fu la sconfitta più pesante della seconda guerra punica: la Gallia Cisalpina era da tempo in rivolta, solo qualche avamposto romano ben difeso presidiava le zone del nord, con la sconfitta di Canne anche il sud della penisola era in balia dell’invasore, con Roma ora vi era solo l’Italia centrale, ovvero l’Etruria, l’Umbria, il Piceno e il Lazio.

A Roma le donne piangevano i morti, il clima generale era di paura, se non ti terrore: Annibale sembrava invincibile, e nulla sembrava impedire al generale cartaginese di impadronirsi anche della capitale.


Il dopo Canne: le strategie puniche

Per perorare la causa della sua campagna di conquista agli occhi di Annone il Grande, Annibale mandò in patria suo fratello Magone con una nave carica degli anelli d’oro dei cavalieri romani uccisi in battaglia, l’impressione fu grande, ma il re cartaginese continuava a ritenere una eventuale pace con Roma più fruttuosa della guerra. Nonostante ciò Annibale ottenne rinforzi (4.000 numidi, 40 elefanti, oltre a 20.000 fanti e 40.000 cavalieri).

L’intenzione di Annibale era quella di rovesciare Roma attraverso la perdita degli alleati italici. Il nord era già destabilizzato, il sud si avviava ad esserlo, nell’Adriatico Annibale aveva mobilitato, grazie ad una alleanza, il re Macedone, Filippo V (ma il nuovo fronte non fu mai in grado di impensierire i romani). La guerra con Filippo viene definita dagli storici come “prima guerra macedone”, ben altre due guerre più impegnative vedranno protagonisti i due regni in futuro.

Ora i punici puntavano alla Sicilia: nelle intenzioni l’isola doveva diventare la base logistica per accogliere i rifornimenti dalla madre patria e un territorio stragegico sicuro più vicino allo scenario bellico rispetto alla Spagna. Se il suo piano fosse giunto a compimento, la Sicilia sarebbe diventata il primo anello della conquista della penisola.

La guerra in Sicilia: l’assedio di Siracusa

A contrastare Annibale in Sicilia fu mandato il bellicoso generale Claudio Marcello. Ma nonostante gli sforzi, le prime battaglie volsero ancora a favore dei cartaginesi.

Il popolo siciliano fu quasi interamente dalla parte di Cartagine. Agrigento fu occupata da Annibale.
Siracusa era passata al fianco del generale cartaginese. Alla morte del suo tiranno Gerone II, grande amico di Roma, il consiglio cittadino aveva deciso di schierarsi con Annibale. A Claudio Marcello non restò altro che iniziare l’assedio della città: durò due anni, dal 213 al 211. Le sue truppe stringevano la città da mare e da terra, ma dovettero subire il leggendario attacco delle geniali macchine di Archimede, ospite della città (gli specchi ustori che affondavano le navi bruciandole e gigantesche ancore-arpioni che penetravano gli scafi facevandoli rovesciare).

Nonostante ciò, Claudio Marcello ottenne la caduta di Siracusa, dopo una lunga battaglia condotta quartiere per quartiere. Archimede stesso morì, e molti tra i siracusani, accusati di tradimento, furono trucidati. La città stessa venne saccheggiata per ridare fiato alle esauste casse romane. Siracusa era di vitale importanza per tutta l’isola, anche Agrigento non poteva che arrendersi, mentre già Annibale era a Taranto, consegnatasi al nemico in forza dell’ennesimo tradimento.

La mancata conquista della Sicilia fu il primo duro colpo ai piani cartaginesi. Ora i rifornimenti ad Annibale sarebbero dovuti arrivare ancora dalla Spagna, lontana e sul fronte di guerra (si veda la parte III°).

Annibale alle porte di Roma, la caduta di Capua

Nel frattempo, nel 212, i romani, facendo appello ai cittadini perché consegnassero gli averi alla patria e varando nuove tasse (la guerra aveva esaurito l’erario), cominciarono ad assediare Capua, nella quale si trovava, tra gli agi e le mollezze che la città offriva, lo stesso Annibale e il suo esercito.

I romani impedivano sistematicamente ad Annibale di uscire dalla città, avevano costruito tutto intorno un complesso sistema di macchinari d’assedio e lottavano con vigore ogniqualvolta una spedizione nemica minacciava di sfondare lo sbarramento.

Annibale decise di tentare la marcia su Roma, con la speranza che l’esercito assediante seguisse l’esercito cartaginese e interrompesse l’assedio di Capua.
Non fu così. Sebbene Annibale riuscisse ad uscire dalla città, grazie all’ennesimo stratagemma (fece muovere l’esercito di notte dopo avere accesso ingannevolmente le torcie nel suo accampamento), l’esercito assediante non lo seguì, fatto che si dimostrò decisivo nello sviluppo successivo degli eventi. Annibale ebbe quindi gioco facile nella sua marcia verso Roma, giungendo alle sue porte senza incontrare resistenza.

Tutti pensarono che Annibale volesse sferrare l’attacco finale e la popolazione già si preparava a subire le conseguenze del saccheggio nemico, ma non fu così. Forse in considerazione del fatto che le mura delle città, fortificate da Fabio Massimo, erano praticamente inespugnabili, che a Roma si trovavano ancora quattro legioni e che alle spalle aveva Capua ancora assediata, Annibale, dopo avere saccheggiato le campagne, decise di fare marcia indietro, e dirigersi verso l’Apulia, abbandonando la stessa colonia campana al nemico.

Per Capua fu il crollo (211). Senza i cartaginesi la città venne occupata dai romani, che non ebbero molta pietà per coloro che consideravano traditori (gli stessi capuani dovettero bere l’amaro calice del tradimento di Annibale). I membri del senato capuano e i notabili furono condannati, parte della popolazione ridotta in schiavitù. La stessa città perdette l’indipendenza e fu nominato un pretore romano allo scopo di governarla come comunità in sudditanza. Fu l’inizio della riscossa romana.


La guerra in Spagna

Dal 215 si trovavano sul fronte spagnolo i fratelli Scipione, Gneo e Publio (già protagonisti della battaglia sul Trebbia). Publio era omonimo di quel Publio Cornelio che più avanti sarebbe prepotentemente entrato nella storia.

Lo scopo della spedizione romana era arginare i tentativi di invasione cartaginesi e privare Annibale dei rinforzi. La Spagna era per i fratelli Barca la base strategica della campagna europea, lì vi avevano fondato la loro citta, Carthago Nova, nelle intenzioni e nel nome una seconda Cartagine, capitale del futuro regno punico nel contintente. Del fronte spagnolo si occupavano Asdrubale e Magone, i fratelli di Annibale.

I fratelli Scipione avevano passato l’Ebro ed erano vicini a Sagunto, la città che fu il casus belli del conflitto. Presso Dertosa, assediata dai romani, si svolse la prima battaglia con i cartaginesi. Vinsero gli Scipioni. La vittoria permise di rallentare le mire espansionistiche cartaginesi e a far cambiare orientamento politico alle tribù iberiche locali, oltre a provocare una prima ondata di ottimismo in patria, a Roma.

Intanto Asdrubale dovette ritornare in Africa per sedare la rivolta di Siface, re di Numidia, si dice “incoraggiato” alla rivolta dagli stessi Scipioni (come sempre la guerra fu anche “diplomatica”).

Nei tre anni che servirono ad Asdrubale per sconfiggere Siface, i fratelli Scipione avevano riportato ulteriori succesi, tra i quali la riconquista di Segunto, nel 212.

L’esercito cartaginese, riorganizzatosi, ingaggiò nel 211 la battaglia decisiva. Asdrubale riuscì a dividere gli eserciti dei due fratelli Scipione per poi affrontarli separatamente. I romani furono nettamente sconfitti, gli stessi Scipioni morirono, e quel che restava dell’esercito romano si dovette ritirare nuovamente oltre l’Ebro, dove mantenne, pur nelle dificoltà, le posizioni.

Il promettente Publio Cornelio Scipione

Già da tempo a Roma si stava facendo largo un giovane e promettente condottiero, Publio Cornelio Scipione. Era un personaggio carismatico, si dice fosse affabile nei modi, sicuro di sé e della sua futura gloria e avesse un profondo sentimento religioso (nelle sue scelte si affidava al responso dei sogni e degli dei), tra la popolazione godeva di gran favore, grazie anche all’episodio che lo vide salvare la vita al padre nella battaglia del Ticino.

Nel 211 il senato romano mandò sul fronte spagnolo il pretore Claudio Nerone, ma la sua tattica “del temporeggiatore” ancora una volta non venne gradita sia dai senatori che dal popolo. A questo punto si acclamava a gran voce di sostituirlo con Scipione.

Pur essendo solo venticinquenne e non avendo ancora titoli, il senato lo nominò proconsole e lo mandò sul fronte spagnolo con due legioni da aggiungere a quelle che già vi si trovavano.

L’arrivo di Scipione in Spagna, nel 210, risollevò il morale alle truppe, anche perché il generale riorganizzò l’esercito eliminando di fatto un certo lassismo e una certa disorganizzazione che si era impossessata delle legioni.

La presa di Carthago Nova

La prima impresa di Scipione fu quanto mai eclatante. Preso atto che le legioni cartaginesi erano sparpagliate su tutto il territorio iberico, decise di puntare direttamente su Carthago Nova.
La città sorgeva su un promotorio, da un lato era difesa da mura, dall’altro un’impervia scogliera rendeva difficile lo sbarco via mare. Scipione disponeva, oltre alle legioni, di un contigente di navi.

In un primo momento l’esercito romano ingaggiò battaglia presso le mura in modo da attirare l’attenzione della guardia verso terra. Sfruttando la bassa marea, dal mare le navi sbarcarono 500 legionari muniti di scale, che ebbero gioco facile nel risalire la scogliera e penetrare in città. La sorpresa fece crollare le difese nemiche, ormai circondate. Ciò accadde nel 209.

Il crollo di Carthago Nova fu un durissimo colpo per i cartaginesi. Persa la possibilità di stabilire una base in Sicilia, perdevano improvvisamente la sede storica della loro invasione. Grosse quantità di provviste e di armi passarono al nemico, nonché un certo numero di ostaggi.

Scipione dimostrò tutta la sua abilità politica e la sua nobiltà di carattere quando si trattò di restituire alcuni ostaggi iberici, di fronte alle offerte di riscatto, egli restituì gli iberi senza chiedere in cambio nulla. Tutto ciò, unita alla presa di Carthago Nova, portò i favori della popolazione spagnola verso Roma.

La battaglia del Metauro

Asdrubale, nel 207, decise di puntare verso l’Italia per congiungersi al fratello, seguendo la stessa via da lui percorsa nel 218. La spedizione consisteva in 20.000 uomini, ma contava di trovare altri soldati strada facendo, soprattutto tra le popolazioni di Galli. Malgrado la presa di Carthago Nova, Scipione venne meno così al suo compito, che era quello di impedire al fratello di Annibale di lasciare la Spagna.

A Roma si corse ai ripari. Vennero eletti consoli Claudio Nerone e Marco Livio Salinatore. Livio presidiò con il suo esercito il nord, mentre Claudio Nerone ebbe il compito di tenere a bada Annibale che si trovava come sempre più a sud, in Apulia.

Per informare il fratello dei suoi piani, Asdrubale aveva mandato alcuni corrieri. Disgraziatamente questi caddero nelle mani di Claudio Nerone che venne così a conoscenza dei piani di ricongiungimento.

Claudio prese una decisione improvvisa e coraggiosa. Lasciati sul posto alcuni soldati a sorveglianza di Annibale, nottetempo partì con tutto il suo esercitò verso nord, con l’intenzione di riunirsi alle legioni di Livio. Ora Roma poteva disporre di un esercito riunito di 40.000 uomini.

Quando Asdrubale si accorse delle forze preponderanti romane, cercò di aggirarle, ma alla fine dovvete affrontare la battaglia presso il fiume Metauro, nel 207. La battaglia fu un trionfo romano, la spedizione cartaginese venne annientata, lo stesso Asdrubale perse la vita in battaglia e i romani tagliarono la testa al cadavere gettandola davanti all’accampamento di Annibale (in questo non si mostrarono molto riconoscenti nei confronti del generale che aveva accordato degna sepoltura a Claudio Marcello, vittorioso a Siracusa, caduto in Puglia nel 208 dopo aver riconquistato Taranto nel 209: Annibale ordinò che il suo corpo fosse seppellito con tutti gli onori militari).

La battaglia fu quanto mai decisiva per i romani. Con la morte di Asdrubale, Annibale venne privato di qualsiasi possibilità di aiuto, e la sua sorte, dopo 15 anni di vittorie sull’intero suolo italico, sembrava più che mai segnata. Le popolazioni della penisola non appoggiavano più i cartaginesi, i quali non godevano ormai di molte possibilità di vittoria. Annibale era ormai solo.

La fine del domonio cartaginese in Spagna

Nel 207 Scipione attaccò l’esercito cartaginese a Silpia, presso il fiume Baetis. In Spagna, per i punici, erano rimasti Magone e un altro Asdrubale, figlio di Giscone. Sebbene Cartagine avesse mandato rinforzi, la vittoria fu ancora una volta dei romani.

Magone con le truppe superstiti si ritirò a Cadice, e fece poi un tentativo di rinconquistare Carthago Nova, ma fallì. Quando ritornò a Cadice, la città si era già consegnata pacificamente ai romani. Magone non potè altro che tornare a Cartagine.
Fu la fine del dominio cartaginese in Spagna, nel 206 la penisola era definitivamente liberata.


Scipione sbarca in Africa

Il vittorioso Publio Scipione ritornò in patria da trionfatore. Nel 205 si candidò per la carica di Console e fu eletto all’unanimità. Inutile dire che il popolo era tutto dalla sua parte. L’altro console fu Publio Licinio Crasso, ovviamente oscurato, agli occhi della storia, dalla fama del giovane generale.

A questo punto Scipione propose al Senato l’idea di sbarcare in Africa per sconfiggere il nemico sul suo stesso suolo definitivamente. Il Senato, guidato dal prudente Fabio Massimo, in un primo momento si oppose, infine decise di accontentare Scipione.
Vennero reclutati volontari dall’Etruria e construite 30 navi, mentre Scipione ottenne la Sicilia come provincia, col permesso di reclutare altre legioni sul posto e di recarsi in Africa quando più lo ritenesse opportuno.

Nel frattempo Magone sbarcò in Liguria dalle Baleari, nel tentativo di ricongiungersi al fratello. Conquistò Genua (Genova) e tentò di portare dalla sua parte la popolazione ligure, ma la lezione del Metauro aveva impaurito i galli. Senza l’aiuto dei liguri, Magone non potè far altro che ritirarsi (203). Egli stesso gravemente ferito, morì probabilmente durante il viaggio di ritorno in patria.

Nella primavera del 204 Scipione partì da Lilibeo verso le coste africane. Portava con sé 50 navi e un esercito di 25.000 uomini. Lo sbarco avvenne presso Utica, senza incontrare alcuna resistenza. I romani allestirono il campo presso la città.

Ora la minaccia per Cartagine era più che mai seria. La guerra aveva cambiato corso: fino ad allora assedianti, i punici erano ora diventati gli assediati.

Cartagine chiede l’armistizio, Annibale ritorna in patria

Scipione tentò subito di assediare Utica, ma dovette desistere. In Africa i cartaginesi godevano dell’appoggio di Siface, re della Numidia occidentale, il quale, assieme ad Adsdrubale di Giscone, tenne facilmente a bada, in un primo momento, le mire di conquista di Scipione. Tuttavia quest’ultimo potè contare sull’appoggio di Massinissa, re della Numidia orientale e nemico di Siface.

Giunti a un punto di stallo, in cui entrambi gli eserciti non si sentivano superiori all’altro, venne proposta la pace, con il ritorno allo stato “quo ante bellum”, ovvero allo stato di cose precedente alla guerra. Scipione, malgrado non fosse per niente dell’idea, acconsentì, un pò per prendere tempo, e un pò per raccogliere utili informazioni sullo stato delle forze avversarie.

Quando si sentì pronto, Scipione rifiutò l’armistizio, e mandò a dire a Siface che, seppur personalmente contrario al conflitto, non lo era il suo consiglio di guerra.
La stessa notte mandò Massinissa e il suo generale Caio Lelio ad incendiare i campi numidi. Nel frattempo Scipione si schierava nei presso del campo cartaginese. Il panico causato dagli incendi procurò gravissime perdite agli eserciti nemici, per il fatto che i romani attendevano alle spalle i fuggitivi per colpirli durante la ritirata.

Il tranello disorientò gli eserciti nemici. Rinforzate in tutta fretta con mercenari celtiberi, le forze di Siface e Asdrubale si presentarono alla battaglia presso i Campi Magni. I romani ebbero la meglio. Siface fuggì verso il suo regno, Asdrubale di Giscone riparò a Cartagine. Massinissa seguì Siface e lo fece prigioniero, diventando così l’unico re della Numidia.

Ai cartaginesi, perso l’appoggio numida, non restò che chiedere l’armistizio. Era l’autunno del 203.
Le condizioni dettate da Roma furono le seguenti: Cartagine perdeva tutti i possedimenti fuori dall’Africa, doveva pagare un grosso tributo di guerra e consegnare quasi tutte le navi da guerra. La Numidia venne riconsciuta come stato indipendente con re Massinissa.
Una delegazione cartaginese consegnò il trattato a Roma, dove venne approvato dal Senato e da una assemblea popolare.

In tutto questo, l’esercito romano rimaneva in Africa, Scipione operò per sottomettere le città puniche attorno a Cartagine, mentre ad Annibale e a Magone (che morì durante il viaggio) venne ordinato il ritorno in patria.

Così terminava la spedizione di Annibale in Italia, dopo quindici anni di scorribande vittoriose e senza alcuna seria sconfitta. Da grande minaccia qual era stato per tutto lo stato romano e per i suoi alleati, ora il forte condottiero era costretto a difendere la patria dallo stesso nemico che aveva quasi sconfitto e trascinato in un lungo e logorante conflitto.

La battaglia di Zama

Lungi dal sentirsi sconfitti, il ritorno in patria di Magone e Annibale ridiede coraggio ai cartaginesi. Nel senato della capitale punica prevalse il partito militare dei Barca e il sentimento di riscatto. I cartaginesi iniziarono ad assalire le navi militari romane e a disturbare i rifornimenti alle truppe di terra di Scipione.

Prima dell’inevitabile scontro, Annibale e Scipione si incontrarono faccia a faccia per la prima volta per discutere una soluzione pacifica, entrambi erano incerti sulle possibilità e la forza dei rispettivi eserciti. Ma non se ne fece nulla.

I due eserciti si incontrarono a Zama, a sud di Cartagine, verso l’interno. Potevano contare entrambi su una forza di 40.000 uomini. Quello di Scipione era appoggiato da 4.000 cavalieri e 6.000 fanti numidi di Massinissa, l’esercito di Annibale era composto da mercenari, dai veterani della spedizione italica, da reparti della guardia cittadina di Cartagine e da soli 2.000 cavalieri numidi ribelli, amici di Siface. Davanti allo schieramento erano stati schierati 40 elefanti.
I reparti di Scipione erano disposti su tre file, con ampi spazi tra gli uni e gli altri per consentire il passaggio degli elefanti. La cavalleria era come sempre piazzata ai lati dello schieramento.

Inizialmente le trombe di guerra dei romani spaventarono alcuni elefanti che si rivolsero contro la propria cavalleria. Lo scompiglio creato permise alla cavalleria romana di gettarsi sopra quella avversaria mettendola in fuga. I fanti cartaginesi resistettero bene all’urto, ma non poterono fare nulla quando la cavalleria romana ritornò colpendoli alle spalle. Le sorti della battaglia arrisero a Scipione. Sul campo caddero 10.000 cartaginesi e altrettanti furono fatti prigionieri, mentre le perdite romane furono di molto inferiori. Annibale fuggì ad oriente e trovò rifugio ad Adrumento, con un piccolo contingente di quella cavalleria che questa volta si era dimostrata di molto inferiore all’avversaria. Era il 202 a.C.

Sebbene qualcuno pensasse di continuare a combattere, Annibale capì che era giunto il momento di arrendersi.
Le condizioni della resa furono più dure rispetto al precedente armistizio. Cartagine perdeva tutti i possedimenti non africani, doveva consegnare l’intera numidia a Massinissa e pagare il mantenimento delle truppe romane in Africa per tre mesi. Inoltre, oltre al pagamento dei danni di guerra intercorsi tra il precedente armistizio e quello nuovo, Cartagine era privata del diritto di dichiarare guerra senza il permesso di Roma. A garanzia di tali condizioni, Scipione ottenne il diritto di scegliere cento ostaggi.

Considerazioni finali

Il trionfo di Roma fu definitivo. A Scipione venne attribuito l’appellativo di Africano. Con la fine della seconda guerra punica Roma divenne di fatto lo stato più potente del Mediterraneo.

Le guerre puniche furono per Roma una valida scuola militare. Molti miglioramenti erano stati apportati nell’equipaggiamento e nelle tecniche di guerra, grazie alla necessità di contrastare avversarsi temibilissimi quali i cartaginesi. grazie a tali conoscienze a a tale esperienza, Roma diventò quella potenza in grado di contrastare e dominare il bacino del Mediterraneo per mezzo secolo.

La guerra portò ai romani anche molti nuovi territori: la Corsica, la Sardegna, la Sicilia, la penisola iberica meridionale, oltre a un’influenza considerevole sulle coste africane cartaginesi e numidi. Per la prima volta nella sua storia Roma si affacciava oltre le terre italiche. Altri trionfi l’attendevano.

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