SOREN KIERKEGAARD BIOGRAFIA

SOREN KIERKEGAARD BIOGRAFIA

SOREN KIERKEGAARD BIOGRAFIA


LA VITA, LE OPERE, LA MISSIONE

Soren Kierkegaard nacque a Copenhagen il 5 maggio 1813. Il cognome, letteralmente,
significa “giardino della chiesa”, cioè cimitero (intorno alla chiesa venivano, infatti, sepolti i
defunti), oppure “masseria della chiesa”, dove veniva offerto cibo ai poveri. Il cognome si
riferisce, dunque, forse alle umili origini della sua famiglia. Fu educato in un clima di austera
religiosità ed ebbe fin da ragazzo l’impressione di non aver davanti a sé che pochi mesi di vita:
per questa sua profondissima malinconia soffrì sempre, in quanto essa lo rendeva diverso da
tutti gli altri, un’ “eccezione” che non era per lui affatto gratificante, quanto, piuttosto, fonte di
profondo tormento.

Di più: crebbe nell’impressione che la sua famiglia avesse subito una maledizione divina,
all’origine dei molti lutti che la colpirono (Kierkegaard vede morire tra il 1819 e il 1839 due
fratelli, tre sorelle, la madre e quattro anni dopo il padre), e fu per lui un “grande terremoto”
(“Scoppiò allora il grande terremoto, la tremenda rivoluzione che improvvisamente mi impose
una nuova, implacabile spiegazione generale dei fatti […] Mi sentii avvolto da un silenzio di
morte […] una colpa doveva sovrastare su tutta la famiglia, la punizione di Dio doveva
incombere”) scoprire la sua causa: un’antica bestemmia che il padre avrebbe lanciato a Dio
quando, ad 11 anni, umile pastore, soffrendo per il freddo nella desolata landa dello Jutland, fu
preso da un profondissimo sconforto. Ed anche la relazione del padre con la domestica, poi
madre di Kierkegaard, allacciata subito dopo la morte della prima moglie.

All’età di 17 anni Kierkegaard (1830) si iscrisse alla facoltà di teologia di Copenhagen. Furono
anni nei quali condusse una vita spensierata e mondana, di cui si accusò poi in seguito. Il
padre più volte lo richiamo ad un più serio impegno di studio; dopo la sua morte, nel 1838,
Kierkegaard fu preso da un fortissimo senso di colpa per non avergli dato la soddisfazione di
vederlo giungere al dottorato. Nel 1840, finalmente, si laureò con una dissertazione dal titolo
Sul concetto di ironia con particolare riguardo a Socrate, che considera come il vero fondatore
della morale. In quel medesimo anno si fidanzò con la diciottenne Regina Olsen, figlia di un
consigliere di Stato, conosciuta tre anni prima, ma, dopo circa un anno, le restituì l’anello e
ruppe il fidanzamento, in una forma quantomeno singolare: finse di essere una canaglia
(skurk) e le mandò un biglietto profondamente offensivo, comunicandole per i prossimi dieci
anni era sua intenzione divertirsi, per poi riallacciare il rapporto con lei quando gli sarebbe
servito per sentirsi di nuovo giovane. In questo modo era certo che lei avrebbe troncato la relazione senza troppi rimpianti. Ma nel suo cuore continuò ad amarla per tutta la vita. Scelse di non sposarla perché si sentiva inadatto, a causa della sua penosa diversità, al matrimonio:


non poteva sposarsi per la sua profonda malinconia e per un pungolo nella carne sul quale
sono state avanzate diverse ipotesi: una menomazione fisica (deviazione della colonna
vertebrale), probabilmente. Scrisse in una pagina del Diario, diversi anni dopo (1846): “Da
quel momento io ho scelto. Quella dolorosa sproporzione con le sue sofferenze […] io l’ho
considerata come il mio «pungolo nella carne», il mio limite, la mia croce. Ho pensato che
fosse questo il prezzo con cui Dio ha voluto vendermi una forza di spirito senza pari tra i
contemporanei. (…) Senza osare di fare appello a rivelazione o a cose simili, io ho capito me
stesso nel senso di voler accentuare, avvalorare, in un tempo guasto e demoralizzato, il
“generale”, di renderlo amabile e accessibile per tutti gli altri che fossero capaci di realizzarlo,
ma che dal tempo sono stati sviati alla caccia del singolare, dello straordinario”.

E, sempre nel Diario, tre anni dopo scrisse: “Amata, essa lo era. La mia esistenza esalterà la
sua vita in modo assoluto. La mia carriera di scrittore potrà anche essere considerata come un
monumento a sua lode e gloria. Io la prendo con me nella storia. E a me, che
malinconicamente non avevo che un desiderio, cioè d’incantarla: là, nella storia, questo non mi
sarà negato, là io avanzo al suo fianco. Come un maggiordomo, la porto in trionfo dicendo:
«Prego, fate un po’ di largo per lei, per la nostra cara, l’amabile, la piccola Regina!»”

Tra il 1841-42 ascoltò a Berlino le lezioni di Schelling, dalle quali fu, però, deluso.
Scriveva, frattanto, la sua opera più conosciuta, Aut-Aut (Enten-eller), terminata nel 1843: in
essa mette a frutto quella sua eccezionale capacità poetica che consiste nel sapersi calare, con
l’immaginazione, in situazioni esistenziali che in realtà non visse mai. Vi si illustrano due delle
tre scelte esistenziali di fondo, la vita estetica (di cui è paradigma la figura del seduttore, nella
duplice forma di don Giovanni – che incarna la seduzione sensuale – e Johannes il seduttore –
che, ne celebre “Diario di un seduttore”, mostra la seduzione intellettuale) e la vita etica
(L’assessore Guglielmo).

Tornato da Berlino, scelse di rimanere a Copenhagen e visse con una rendita lasciatogli dal padre, assorto nella scrittura dei suoi libri e nel compito della scrittura. Si convinse, infatti, che Dio gli aveva dato la croce dell’eccezionalità, compresa un’eccezionale talento di scrittore, perché diventasse “scrittore cristiano”, cioè mettesse il suo talento al servizio di un compito di urgenza assoluta: era certo, infatti, che in terra di Danimarca il Cristianesimo sopravvivesse solo di nome, ma di fatto fosse pressoché scomparso, ridotto a pura pratica senza vera fede. Voleva, dunque, edificare e risvegliare le coscienze, perché tutti capissero cos’è veramente la fede e comprendessero quanto ne erano in realtà distanti. Avrebbe, peraltro, potuto anche intraprendere la carriera come pastore, e sicuramente avrebbe fatto strada, per la sua brillante intelligenza, ma riteneva di non averne il requisito più importante, di non essere, cioè, “cristiano in carattere”: in altre parole, pensava di non avere sufficiente forza d’animo per poter essere fino in fondo coerente, nei comportamenti e negli atteggiamenti, al modello evangelico, e quindi di non poter essere un vero testimone della verità. In alcuni momenti di sconforto dubito persino di avere davvero fede.

Non accadde nella sua vita più nulla di rilevante; solo alcuni attacchi di un giornale satirico, “Il Corsaro”, rivolti, più che ai suoi scritti, al suo ridicolo abbigliamento ed ai suoi difetti fisici. Polemizzò, infine, contro il teologo Martensen, di cui Kierkegaard aveva seguito le lezioni nel 1837-38, perché questi aveva definito il defunto vescovo Mynster “testimone della verità”: questo per Kierkegaard non era vero, in quanto un vero testimone della verità deve essere come Cristo, cioè deriso, perseguitato, insultato, non certo, dunque, un uomo di successo, benvoluto da tutti, come volle sempre essere Mynster.

Morì l’11 novembre 1855, a soli 42 anni, ed avrebbe voluto che sulla sua tomba fosse scritto
“quel singolo”.

Scrisse un gran numero di opere. I suoi scritti si dividono nelle opere pseudonime, le più famose, ed in quelle (di contenuto edificante) che egli pubblicò con il suo nome.

Sul frontespizio delle opere pseudonime compaiono i nomi di autori sempre diversi. Victor
Eremita è lo pseudonimo con cui firma la già citata opera Aut-Aut; Timore e tremore, del
medesimo 1843, ha come autore Johannes de Silentio, e La ripetizione, terza opera di
quell’anno, è firmata da Constantin Constantius. Vigilius Haufniensis, cioè “colui che vigila ad
Haufnia”, l’antico nome di Copenaghen, è l’autore pseudonimo de Il concetto di angoscia del
1846; gli Stadi sul cammino della vita, opera fondamentale per ricostruire la sua biografia, è
attribuita ad Hilarius il Rilegatore; le Briciole filosofiche è di Johannes Climacus, mentre
Anticlimaticus è lo pseudonimo utilizzato per La malattia mortale, del 1849.
La spiegazione della duplice scelta di nascondersi e rivelarsi come autore dei propri scritti può
essere questa: negli scritti pseudonimi egli mette in atto la sua capacità poetica e si
immedesima in situazioni esistenziali che non gli appartengono realmente, o comunque non
tratta dei temi che gli stanno veramente maggiormente a cuore; questi sono sviluppati negli
scritti in cui si firma con il proprio nome, quasi a dire: alla fine è qui che voglio riporre
veramente il mio io, cioè nell’edificazione e nel risveglio delle coscienze.

 

/ 5
Grazie per aver votato!

Privacy Policy

Cookie Policy

error: Content is protected !!