LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO

LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO

LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO


Scritto nel 1836 a Torre del Greco, questo canto è tradizionalmente considerato il testamento spirituale del poeta. E in effetti, la sua inusitata ampiezza ( canzone libera di 317 versi in sette strofe di endecasillabi e settenari, con rime baciate a fin di strofa, e rime al mezzo), il confluire in esso di tutti gli elementi della visione del mondo elaborata da Leopardi nell’ultima fase della sua esistenza, la solennità dell’andamento stilistico, la stessa epigrafe tratta dal vangelo di Giovanni sembrano conferire alla poesia l’aspetto definitivo ed estremo, dello stesso tipo di quella Lettera a un giovane del ventesimo secolo che il poeta progettava fin dal 1827 e che non scrisse mai.
Lo spunto iniziale della poesia è dato dalla viva impressione suscitata in Leopardi dalla fioritura della ginestra sulle pendici del Vesuvio. Il fragile fiore, sbocciato sulla lava che nel 79 d. C. distrusse Pompei, Ercolano e Stabia, è polemicamente contrapposto allo stolido orgoglio degli uomini e alla loro ridicola illusione di essere padroni dell’universo, mentre basta un improvviso movimento tellurico per distruggere una civiltà. Di quì la polemica contro l’idealismo progressista dell’età romantica. In nome di una cieca e ottusa fiducia nella centralità dell’uomo e nella perfettibilità dell’universo, il secolo XIX avrebbe voltato le spalle alla linea di pensiero che dal Rinascimento aveva condotto alle conquiste civili del secolo dei lumi. Al contrario, il genere umano dovrebbe prendere coscienza della propria fragilità, dell’infima consistenza di quel granel di sabbia che è la terra in confronto all’immensità dell’universo, e unire tutte le sue forze contro la natura. Solo da una loro partecipe solidarietà nella sconfitta gli uomini potranno creare ordinamenti civili finalmente giusti. La impressionante rievocazione dell’erudizione vulcanica mira a confermare la miserabile condizione umana rispetta alla grandezza della natura, eternamente rigogliosa e incurante delle misere fatiche degli uomini. Se la tenera ginestra, conclude il poeta, soccomberà prima o poi alla forza del vulcano, lo farà secondo un destino naturale altrettanto naturalmente accettato, senza servili sottomissioni, ma anche senza orgoglio di chi si crede immortale dimenticando la propria fragilità.
Il quadro dei problemi disegnato dal canto ha dato adito alle più svariate interpretazioni e ai giudizi più contrastanti: svalutato da Benedetto Croce(Pescasseroli 1866 – Napoli 1952) in quanto prevalentemente “non poetico” per le ampie manifestazioni di “pensiero” che ne inficerebbero la purezza lirica, fu poi usato dal critico letterario Cesare Luporini (Ferrara, 1909 – Firenze, 1993) nel saggio Leopardi progressivo (1947) come prova del progressismo del poeta, che avrebbe preconizzato una sorta di confederazione degli umili come unico possibile futuro pr le istituzioni civili e pubbliche dell’umanità. In realtà, se anche vi si può cogliere qualche slancio utopistico, LA GINESTRA è il canto in cui più rigorosamente Leopardi combatte la pretesa umanistica di stabilire valori positivi per l’ esistenza umana e per il suo destino sociale: l’errore del secolo XIX è consistito nel non aver tenuto conto dell’operazione distruttiva compiuta dall’illuminismo nei confronti di tutta la cultura basata su presupposti metafisici; nel non aver tenuto conto delle nelle verità negative che da quella scuola di pensiero sono emerse; per il Leopardi l’ “arido vero” rimane pur sempre l’assoluta negatività nella condizione umana.
La poesia pubblicata nell’edizione postuma dei canti curata da Ranieri.