INFERNO CANTO 26 PARAFRASI VERSO 1-120

INFERNO CANTO 26 PARAFRASI VERSO 1-120


(1-12)

Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ‘nferno tuo nome si spande!
Tra li ladron trovai cinque cotali

tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.
ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.
E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss’ ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com’ più m’attempo.
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Il canto XXVI inizia con una manifestazione di sdegno e vergogna da parte di Dante per il fatto che i cinque dannati (oltre a Vanni Fucci) che lui ha visto nella bolgia dei ladri sono tutti suoi concittadini.


(13-48) 

Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n’avea fatto iborni a scender pria,
rimontò ‘l duca mio e trasse mee;
e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra ‘ rocchi de lo scoglio
lo piè sanza la man non si spedia.
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ‘ngegno affreno ch’i’ non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ‘l ben, ch’io stessi nol m’invidi.
Quante ‘l villan ch’al poggio si riposa,
nel tempo che colui che ‘l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno
ascosa,come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov’ e’ vendemmia e ara:
di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, sì com’ io m’accorsi
tosto che fui là ‘ve ‘l fondo parea.
E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ‘l carro d’Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,
che nol potea sì con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire:
tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ‘l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.
Io stava sovra ‘l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz’ esser urto.
E ‘l duca che mi vide tanto atteso,
disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch’elli è inceso».
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I due poeti si allontanano dal punto del ponte su cui si erano fermati per osservare la bolgia dei ladri, e Virgilio risale i gradini, traendo a sé il discepolo per aiutarlo. La salita si rivela molto impegnativa, tant’è che è necessario aiutarsi con le mani aggrappandosi alle sporgenze delle rocce. Raggiunta la sommità dell’argine, Dante vede sotto di sé la valle dell’ottava bolgia, dove sono puniti i consiglieri di frodi, la quale è disseminata di tante fiamme che si spostano. Ogni fiamma avvolge completamente un dannato.Contrappasso: come in vita i consiglieri di frodi agirono per vie sotterranee, così ora sono irriconoscibili nella lingua di fuoco.


(49-63)

«Maestro mio», rispuos’ io, «per udirti
son io più certo; ma già m’era avv
isoche così fosse, e già voleva dirti:
chi è ‘n quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov’ Eteòcle col fratel fu miso?»
Rispuose a me: «Là dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira;
e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme.
Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deïdamìa ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta».
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Il poeta si accorge che tra le fiamme ce n’è una suddivisa in due parti, e incuriosito domanda al maestro chi ci sta dentro. Virgilio gli risponde che dentro quella fiamma biforcuta stanno Ulisse e Diomede, guerrieri greci, i quali sono puniti insieme, come in vita erano uniti nell’ordire tranelli e frodi. Le colpe che essi scontano sono tre: 1) l’ideazione dell’inganno del cavallo di legno, per mezzo del quale i Greci penetrarono in Troia, distruggendola; 2) l’invenzione dello stratagemma per mezzo del quale Achille fu smascherato nell’isola di Sciro (in Grecia), dove la madre lo aveva nascosto vestito da donna per non farlo partire per la guerra di Troia; 3) il rapimento col quale, travestiti da mendicanti, portarono fuori dalla città di Troia il Palladio, che era la statua raffigurante la dea Pallade Atena (nome greco di Minerva), la quale finché era tra le mura della città la rendeva inespugnabile.Dante punisce le frodi messe in atto da Ulisse e Diomede, non le giustifica perché, secondo la concezione medievale, il male quando è male non si può cancellare neanche se commesso per amor di patria o per ragioni di guerra.Inoltre bisogna considerare che Dante (come egli stesso afferma nel De Monarchia) fu un grande estimatore della civiltà romana; e siccome Roma fu fondata dal troiano Enea, e Troia fu distrutta per opera soprattutto di Ulisse, non c’è da meravigliarsi se, malgrado quest’ultimo sia comunemente visto come un eroe, il poeta lo pone nell’Inferno.

(64-117)

«S’ei posson dentro da quelle faville
parlar», diss’ io, «maestro, assai ten priego
e ripriego, che ‘l priego vaglia mille,
che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver’ lei mi piego!»
Ed elli a me: «La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.
Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perch’ e’ fuor greci, forse del tuo detto».
Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:
«O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco
quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi».
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: «Quando
mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ‘l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aper
tosol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e ‘ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’ Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.
“O frati”, dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
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Su richiesta di Dante, Virgilio si rivolge ai due dannati e domanda chi dei due voglia raccontare la propria morte. Alla domanda di Virgilio, si comincia ad agitare una delle due parti della fiamma, quella maggiore, dando l’impressione che la cima della fiamma si muova come una lingua che parla. Dante qui pone in risalto la lingua associata al fuoco: questi peccatori infatti si servirono della propria eloquenza per un fine sbagliato.La parte maggiore della fiamma è quella che avvolge Ulisse; la differenza di grandezza tra le due parti della fiamma indica la preminenza delle qualità del re di Itaca (Ulisse) su quelle di Diomede.Ulisse comincia il suo racconto dal giorno in cui si allontanò, dopo esservi stato per oltre un anno, dalla maga Circe, che abitava nell’isola Eèa, che si volle poi identificare con un promontorio del Lazio, e che da lei prese il nome di Circello (l’odierno Circeo). Ciò che spinse Ulisse ad abbandonare l’isola fu l’ardore di conoscere il mondo, di fare esperienza, di scoprire i pregi e i difetti umani; e nulla riuscì a trattenerlo dal suo proposito, nemmeno il tenero affetto per il figlio Telemaco, il religioso sentimento di venerazione per il padre Laerte e l’amore per la sposa Penelope. Così egli salpò con una sola nave e con la compagnia di pochi ma fedelissimi uomini, toccando i lidi di Europa e Africa. Il viaggio in mare durò tanti anni, tant’è che quando giunsero davanti alle colonne d’Ercole (in corrispondenza dell’attuale stretto di Gibilterra) lui e gli altri erano già alquanto invecchiati. Le colonne d’Ercole erano due colonne o rupi che Ercole aveva posto come confini del mondo, che era proibito agli uomini superare. Giunti qui, Ulisse fece un discorso ai suoi uomini, incitandoli ad affrontare un’impresa mai tentata da altri, quella appunto di oltrepassare le colonne e continuare la navigazione nell’Oceano.


(118-120)

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza».
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In questa celebre terzina, Ulisse, nel suo discorso di incitamento fatto ai suoi uomini, li spinge a riflettere sull’origine e la dignità della natura umana, rimarcando il fatto che l’uomo non è stato creato per vivere come le bestie, ma per praticare il bene morale e quello dell’intelletto
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