IDEOLOGIA DI GIOVANNI PASCOLI
IDEOLOGIA DI GIOVANNI PASCOLI
Le origini degli atteggiamenti ideologici del Pascoli vanno ricercate nella prima giovinezza, quando era ancora studente liceale. A Rimini, egli assorbì dall’ambiente stesso la simpatia per le idee socialiste e rivoluzionarie ( Rimini era un vivacissimo centro della sinistra rivoluzionaria, repubblicana e anarchica).Gli anni universitari poi, a Bologna, certamente contribuirono a rafforzare gli orientamenti socialisteggianti del Pascoli, anche se da nessun documento risulta che egli conoscesse Andrea Costa prima della fine del famoso processo del 76. I biografi attribuiscono alla morte del fratello Giacomo (12 maggio 1876), unico sostegno della famiglia (che per di più lasciava la moglie e due bambini), quel sentimento di rivolta e di disperazione contro l’ingiustizia della società e della sorte, che portò Pascoli ad iscriversi all’Internazionale. È una spiegazione puramente psicologica, un po’ di maniera, forse, che tende a presentare come un colpo di testa e come la conseguenza di un grande smarrimento interiore l’adesione del poeta al movimento rivoluzionario. In realtà è assai probabile che l’occasione determinante che spinse Pascoli a iscriversi all’Internazionale sia stata il processo degli internazionalisti, l’eco che esso ebbe nell’opinione pubblica, il prestigio che ne ritrassero gli imputati. Una conferma può esserci data dal fatto che la stessa occasione determinò l’iscrizione all’Internazionale di Severino Ferrari, che non aveva nessun motivo personale di rivolta contro la società. Il processo agli internazionalisti, che si svolse a Bologna e durò tre mesi, fu un grande avvenimento seguito con interesse morboso dall’opinione pubblica. Intanto i fatti stessi che lo avevano provocato avvolgevano di un alone romantico e suggestivo gli imputati. Si trattava di una rivoluzione mancata, qualcosa di simile alla impresa di Pisacane. Costa aveva assicurato “di poter contare su trentamila uomini, su quattromila fucili Wetterly e su mille bombe all’Orsini”. I romagnoli dovevano dare il segnale di inizio a un incendio che avrebbe dovuto propagarsi per tutta la penisola.
La presenza di Bakunin, il misterioso rivoluzionario russo, aggiungeva un’ultima pennellata a un quadro già di per sé suggestivo per le mille analogie risorgimentali. In realtà Costa venne arrestato due giorni prima che scoppiasse il movimento, la colonna che mosse da Imola verso Bologna fu di appena centocinquanta persone, per la maggior parte disarmate, e Bakunin dovette fuggire vestito da prete. Se l’insurrezione fu un fallimento il processo invece fu un trionfo. L’interrogatorio di Andrea Costa fu ascoltato con silenzio religioso dal pubblico che gremiva l’aula e di esso approfittò il giovane agitatore per rievocare con parole commosse i vari momenti della storia dall’Internazionale ed esporre i principi che la ispiravano. Poi ci fu la deposizione di Carducci, come testimone a favore di Costa: di Carducci che rifiutò di giurare sul Vangelo perché lo considerava solo “un residuo storico” e che dichiarò “essere naturale il precipitarsi nella lotta di giovani di forte ingegno quando non era lontano il momento in cui una nuova forma di vita sociale si sarebbe fatta strada.”
E il verdetto fu di assoluzione. Di conseguenza non c’è da stupirsi che proprio quell’avvenimento affrettasse il processo di maturazione di Pascoli e di Severino Ferrari fino a determinare la loro adesione all’Internazionale. Essi certo erano socialisti “più di cuore che di mente, ” come scriverà Severino ad Andrea Costa chiedendogli consigli sui libri da leggere.” E i consigli di Andrea non andranno molto oltre gli scritti di Bakunin: poiché la formazione ideologica degli anarchici era anch’essa abbastanza generica. Lo stesso Andrea Costa s’era accostato all’Internazionale per un moto sentimentale e umanitario, più che per un approfondimento ideologico. Con una simile carica passionale e libertaria era del tutto naturale che il movimento socialista rivoluzionario romagnolo respingesse l’ala marxista dell’lnternazionale, troppo dialettica, scientifica e realistica e si schierasse con quella anarchica-bakuniniana, romantica ed utopistica, sognando “il sollevamento spontaneo delle moltitudini popolari insorgenti a rovesciare tutte le istituzioni borghesi.”.Voglio dire che la definizione di Severino: “sono socialista più di cuore che di mente,” può essere estesa a tutto il movimento anarchico romagnolo e caratterizza le ragioni stesse dell’adesione di molti intellettuali e di Pascoli all’Internazionale. (e la polemica di quest’ultimo con il “gelido marxismo” ha origini ben più lontane della nascita del suo nazionalismo).
Pascoli, comunque, s’impegnò abbastanza nell’attività politica. Sono noti i momenti più importanti di questa attività: distribuzione clandestina de II Martello sequestrato dalla polizia (18 marzo 1877), ospitalità a Costa fuggiasco, probabile partecipazione ad una assemblea in favore di Passanante (novembre 1878), arresto per aver partecipato a una manifestazione in favore degli internazionalisti imolesi (7 settembre 1879), deposizione in cui ammette di aver partecipato alla manifestazione, nega di aver insultato i carabinieri, nega di appartenere ad alcun partito politico, dichiara di essere di quei “socialisti che desiderano il miglioramento della società, senza pervertimenti dell’ordine e di ammirare la generosità di chi si sacrifica per studiare il mezzo di raggiungere tale miglioramento” (settembre 1879), rinvio a giudizio (18 novembre 1879), processo e ritiro dell’accusa da parte del Pubblico Ministero (22 dicembre 1879), incontro con Costa rientrato in Italia (marzo 1880) e definitivo allontanamento dall’attività politica.
È certo che Pascoli era in crisi già parecchi mesi prima dell’arresto se nella primavera del 79 scriveva a Severino la sua intenzione di ritornare in Romagna per prepararsi agli esami. Ed è anche certo che l’arresto e il periodo di detenzione fecero maturare rapidamente la crisi. Tuttavia anche in questo caso i biografi commettono l’errore di attribuire solo a cause psicologiche il mutamento delle posizioni pascoliane: cause psicologiche che esistono e sono molto importanti,ma non sono sole. La crisi personale di Pascoli, infatti coincide con la crisi generale del movimento anarchico romagnolo. Il leader di quel movimento, Andrea Costa, all’estero si incontrava con il pensiero di Marx e con l’esperienza e l’intuito politico di Anna Kuliscioff. L’utopia bakuniana aveva mostrato tutta la sua astrattezza. Il popolo, quando cessava di essere un ideale retorico e diventava realtà, non era con loro, non capiva i loro fini ultimi.
Occorreva un bagno di economia politica. Si passava così dall’utopia alla politica, dal sogno della palingenesi alla lotta minuta e quotidiana per singoli, a volte insignificanti miglioramenti economici e politici.
Era questo che interessava Pascoli, socialista più di cuore che di mente? Poteva il poeta letteratissimo fare un bagno di economia politica? E di fronte alla crisi dell’utopia e del sogno rivoluzionario, di fronte alla prospettiva lunga del socialismo legalitario, poteva non porsi il problema del proprio destino individuale e della propria vocazione? Certo è che la crisi dell’utopia anarchica e il conseguente divorzio fra il poeta e il movimento socialista italiano fa sorgere anche in lui il problema che caratterizza tutta la generazione intellettuale post-risorgimentale. II problema di un ideale da contrapporre alla miseria della vita italiana di quegli anni (o almeno a quella che appariva tale), di un ideale che potesse far superare la delusione del Risorgimento incompiuto e tradito, il predominio delle istanze economiche personali e di classe su quelle generali dell’intera nazione, il dilagare degli uomini seri e calcolatori: la ricerca di un ideale che è alla base del sorgere del nazionalismo e imperialismo passionale, di quel nazionalismo, cioè, che si manifesta prima come cultura, come orientamento degli intellettuali, e poi come creazione effettiva delle basi economiche di una espansione imperialistica, determina, così, in Pascoli lo slittamento progressivo da una semplice adesione psicologica al socialismo a forme di nazionalismo scoperto.
La prima tappa delle nuove posizioni pascoliane possiamo fissarla nel dicembre del 1882. Il 20 dicembre di quell’anno giunse la notizia dell’esecuzione di Oberdan. L’arresto del giovane triestino, il processo e la sua condanna provocarono una grande commozione nell’opinione pubblica italiana. Il Pascoli inviò allora per la sottoscrizione dieci lire. L’episodio è importante perché dimostra che Pascoli continuava a sentirsi a suo modo impegnato e che attraverso il canale dell’irredentismo si rivalutava in lui quel concetto di patria e nazione che egli cercherà d’ora in poi di fondere con quello di umanità e di socialismo. La seconda tappa importante è il 1887, quando Pascoli partecipò alla messa per i morti di Dogali e dettò una epigrafe in onore dei caduti. Il concetto di patria e di nazione si è maturato non più collegandosi alle rivendicazioni irredentistiche, ma al problema dell’espansione coloniale. Espansione conciliabile per Il Pascoli, con i principi del socialismo, una volta trasferito il concetto di proletariato da una classe sociale alla nazione stessa. Egli non sente contrasto tra il socialismo umanitario che abbraccia tutti i popoli e l’aspirazione all’espansione. Non è l’Italia la nazione povera, il proletariato tra i popoli? Per questo esulta quando, nel 1911 La grande proletaria si è mossa alla conquista della Libia ( il discorso fu pronunciato a Barga il 26 novembre 1911, poco dopo che le truppe italiane erano sbarcate in Libia). Non è sopraffazione quella guerra perché la regione che andavamo ad occupare è bagnata dal nostro mare e già “ per opera dei nostri progenitori fu abbondevole d’acque e di messi, e verdeggiante d’alberi e di giardini; e ora da un pezzo, per l’inerzia di popolazioni nomadi e neghittose gran parte un deserto.” È, invece, la rivincita dell’italiano umiliato e offeso, povero e disprezzato contro coloro che volevano perennemente sfruttarlo. È la nostra una guerra di difesa, non di offesa: combattiamo “non per disertare ma per coltivare, non per inselvatichire e corrompere ma per umanizzare e incivilire, non per asservire ma per liberare. Noi difendiamo gli uomini e il loro diritto di alimentarsi e vestirsi coi prodotti della terra da loro lavorata, contro esseri che parte della terra necessaria al genere umano tutto sequestrano per sé e corrono per loro, senza coltivarla, togliendo pane, cibi, vesti, case all’intera collettività che ne abbisogna.” È la dimostrazione della nostra raggiunta unità: tutti gli italiani di tutte le regioni partecipano alla guerra, tutti gli italiani di tutte le classi: “E vi sono le classi e le categorie anche là: ma la lotta non v’è, o è lotta a chi giunge prima allo stendardo nemico, a chi prima lo afferra, a chi prima muore. A questo modo là il popolo lotta con la nobiltà e la borghesia.”
Strettamente connesso all’espansione coloniale è il problema dell’emigrazione. L’Italia che ha troppe braccia, che è troppo piccola e troppo povera per dare lavoro a tutti i suoi figli, l’Italia che manda in giro per il mondo centinaia di migliaia di lavoratori, ha diritto ad avere delle colonie dove impiegare questa mano d’opera esuberante.
In questo caso — lasciando da parte il fastidio che può dare certa prosa pascoliana — bisogna rilevare che il nostro poeta si collegava a un problema reale dell’Italia post-unitaria. Il problema dell’emigrazione era certo uno dei più gravi e più angosciosi. L’emigrazione, iniziatasi subito dopo il 70 e sviluppatasi nei decenni successivi fino a raggiungere le punte massime proprio nel periodo giolittiano, presentava appunto le caratteristiche che vengono sottolineate dal Pascoli. Era un’emigrazione di poveri e la maggiore percentuale la davano appunto le regioni più povere, il Mezzogiorno e il Veneto. Era un’emigrazione di lavoratori non qualificati, per lo più contadini e braccianti. Era un’emigrazione non protetta ed esposta a ogni sopruso e ad ogni sfruttamento prima ancora che lasciasse il suolo della patria: “ Prima ella mandava altrove i suoi lavoratori che in Patria erano troppi e dovevano lavorare per troppo poco. Li mandava oltre Alpi e oltre mare a tagliare istmi, a forare monti, ad alzare terrapieni […..] a fare tutto ciò che più difficile e faticoso [……] Il mondo li aveva presi a opra i lavoratori d’Italia; e più ne aveva bisogno, meno mostrava di averne, e li pagava poco e li trattava male [….] così tornavano in Patria poveri come prima e peggio contenti di prima o si perdevano oscuramente nei gorghi di altre nazionalità”. L’ultimo elemento della ideologia pascoliana è la sua concezione francescana o tolstoiana. Nello stesso modo, infatti, in cui Pascoli non sentiva contrastare con il socialismo l’aspirazione all’espansione coloniale, così non lo sente in contraddizione con la sua teoria della bontà, dell’amore, della fraternità fra tutti gli uomini.
L’UOMO
Per intendere il mondo poetico del Pascoli non sono inutili alcuni cenni anche alla biografia e al temperamento del poeta. La migliore documentazione sulla vita privata di Pascoli che si è avuta negli ultimi anni (la Vita scritta da Maria Pascoli e il suo epistolario) mette in luce un carattere fornito di una sensibilità così contraddittoria e capricciosa, cosi ricca di complessi e di umori, cosi simile alla sensibilità scossa e morbosa propria del momento di passaggio dalla infanzia alla virilità, da far sorgere il sospetto che in lui il fanciullo metaforico coincidesse in parte con il fanciullo reale. Particolarmente interessante è la sensualità pascoliana che è profonda e torbida anche se meno evidente di quella dannunziana. Leggiamo ad esempio, alcuni documenti che illuminano i rapporti fra lui e le sorelle.
Vi dominano un amore e una gelosia morbosi che fanno pensare ad alcuni processi psicologici analizzati da Freud. Egli si domanda angosciato se le sorelle possano amarlo almeno come amano le loro compagne di scuola: “Amate voi me, che ero lontano e parevo indifferente, mentre voi vivevate all’ombra del chiostro, e gioivate poco e piangevate molto dell’isolamento? Amate voi me, che sono accorso a voi soltanto quando escivate dal convento raggianti di mite contentezza, m’amate voi almeno come le gentili compagne delle vostre gioie e consolatrici dei vostri dolori?” E quando la sorella Ida si fidanza egli reagisce come un innamorato tradito, come un fanciullo irragionevole che non sa adattarsi alle leggi della vita e della società. E particolarmente insopportabile gli riesce l’idea che essa possa divenire possesso di un altro: “Quanta amarezza! Quale enorme felicità non avrei io rifiutata, pur di non far dispiacere a lei e a te! Oh! un gran torto ha la tua sorella: quello d’avere idoleggiata per sé, esclusivamente per sé, la felicità che avrebbe tolta a noi anche col ferro e col veleno!…”. Ma leggiamo ancora questa altra lettera alla sorella Maria: No mia dolce Mariù. non sono sereno. Questo è l’anno terribile, dell’anno terribile questo è il mese più terribile. Non sono sereno: sono disperato. Io amo disperatamente angosciosamente la mia famigliola che da tredici anni,_virtualmente. mi sono fatta e che ora si disfà, per sempre. Io resto attaccato a voi, a voi due, a tutte e due: a volte sono preso da accessi furiosi d’ira, nel pensare che l’una freddamente se ne va, come se fosse la cosa più naturale del mondo, se ne va strappandomi il cuore, se ne va lasciandomi mezzo morto in mezzo alla distruzione de’ miei interessi, della mia gloria, del mio avvenire della mia casina, di tutto! [….] non capisci che a restituirmi la pace è necessario, non che io prenda moglie — belle forze! — ma che io m’innamori? e come si fa, quando il cuore è tutto occupato da voi due? Siete sorelle e amate e siete amate da sorelle: così dici. Va bene: ma dimmi in coscienza, senza diplomazia, dimmi Mariù: tu mi ami da sorella: perché t’ha a dispiacere che io ami una donna da amante da sposo da marito? […..] Come farò, come faro? [……] Mariù serbala per me la tua pietà! Bacia il povero Gulì e saluta la povera adele” Questa lettera ci dice molto della “ affettività” del poeta ( non sfuggano le espressioni di cui il poeta quarantenne ( la lettera è del 1895) si serve: “famigliola”, “ serbala per me la tua pietà”, “ saluta la povera adele” ) e del morboso legame con la famiglia. Si badi bene non con una famiglia creata con l’esperienza dell’amore e della paternità, ma con la famiglia d’origine, sentita come nucleo di memorie di sangue, come rifugio sicuro nel quale arroccarsi. Questa situazione affettiva ci aiuta a meglio capire le componenti incoscie che hanno condizionato i suoi rapporti sociali e il suo pensiero politico, ma anche a penetrare nel mondo dei simboli della poesia , innanzi tutto quello della casa-nido, una delle immagini ricorrenti della poesia pascoliana. La famiglia viene vista, infatti, come ha scritto Barberi Squarotti ( Simboli e strutture della poesia del Pascoli) “ come nido, caldo, chiuso, segreto, raccolto in una esistenza senza rapporti, ma brulicante di complice intimità, di istinti e di affetti viscerali”. Si collega a questa immagine della casa nido l’ossessionante ricorrere del motivo dei morti, delle dolorose memorie familiari che cementano questo rapporto col nido e lo rendono sempre più esclusivo e più chiuso.