CICERONE E LE OPERE FILOSOFICHE

CICERONE E LE OPERE FILOSOFICHE

CICERONE E LE OPERE FILOSOFICHE


Nel suo percorso di formazione culturale, negli anni giovanili, Cicerone era stato, sia a Roma, sia in Grecia, un appassionato allievo dei maestri delle varie scuole filosofiche dell’epoca, come quella epicurea, stoica, accademica e peripatetica. Tuttavia decise di scrivere opere filosofiche solamente negli anni 45-44 a.C.; unica eccezione furono i Paradoxa storicorum scritti nel 46 a.C. Questi sono per lui anni di dolore sia privato che pubblico: alla morte della amata figlia Tullia (45), per la quale scrive una consolatio oggi perduta, si aggiunge il drammatico esito della guerra civile tra Cesare e Pompeo e il forzato accantonamento di Cicerone dalla vita pubblica, che lo costringe ad un otium del quale avrebbe fatto volentieri a meno. Gli studi filosofici e la stesura di testi su questi argomenti, dunque, divennero per Cicerone una sorta di luogo ideale, un’attività con funzione consolatoria dopo la crisi politica; ma non solo. Come egli spesso dichiara in diversi luoghi, il suo ritorno a quegli studi filosofici voleva essere un lavoro utile per i giovani, le classi colte, la società romana nel suo insieme, e , in ultima analisi, per lo Stato stesso:far conoscere attraverso opere scritte in latino, la riflessione delle grandi scuole filosofiche greche, fino a quel momento chiusa nei testi in lingua originale.

Il pubblico che Cicerone vuole raggiungere con la sua opera di divulgazione filosofica è abbastanza ampio, costituito non solo da studiosi, ma anche e soprattutto da quella classe dirigente che, impegnata nel negotium pubblico e privato, non aveva molto tempo da dedicare all’approfondimento filosofico. Pertanto sceglie il genere del trattato divulgativo e specialmente il dialogo, sempre ambientato in una cornice letteraria, come ad esempio una villa o una biblioteca. I personaggi coinvolti non sono mai filosofi professionisti, ma uomini nobili che, come i potenziali destinatari dell’opera, si impegnano in un dibattito rivelando, attraverso la loro stessa presenza, il legame tra filosofia e politica. Dopo una premessa che spiega il senso dell’impegno filosofico (nel proemio), Cicerone tratta tutti quegli argomenti che possono rivelarsi utili come regolatori dell’azione pratica, soprattutto se politica. La sua preoccupazione è quella di fornire argomentazioni di carattere etico ai princìpi che regolavano da sempre l’agire del civis romano. Non era trascurata nemmeno la teologia, per il legame profondo che esisteva, tra la religione tradizionale e la saldezza delle istituzioni. La forma espositiva risulta essere elegante, scorrevole, accattivante.

Il metodo.

Non bisogna chiedere a Cicerone originalità di pensiero filosofico: più importante è per lui il fine pedagogico delle sue opere, che devono trasformare la preparazione filosofica in un elemento fondamentale dell’uomo politico romano. Egli procede attraverso l’esposizione e il confronto delle teorie espresse dalle maggiori scuole filosofiche greche di epoca ellenistica (stoicismo, epicureismo, accademia). Premessa fondamentale è la coscienza che non esistano proposizioni assolutamente certe, ma solamente opinioni più o meno plausibili, probabili e verosimili. Questa è una posizione antidogmatica, che permette a Cicerone di indagare in tutte le direzioni e accettare soluzioni ragionevoli e probabili ai diversi problemi umani. Da qui derivano la sua libertà di movimento nel pensiero delle diverse scuole filosofiche (eclettismo) e la sua fondamentale tolleranza culturale: la verità è sempre mischiata al falso, ma è importante possedere strumenti culturali che permettano di distinguerli. La posizione di Cicerone, tuttavia, non fu solo “corrosiva”, senza uno sbocco positivo; spesso Cicerone propende per una soluzione affermativa che ora si rivolge al platonismo e più spesso allo stoicismo. Una sola corrente di pensiero subisce continue critiche: è l’epicureismo, filosofia che porta all’individualismo, alla chiusura nei confronti dell’impegno politico e quindi, in ultima analisi, risulta dannosa per il modello di cittadino romano che Cicerone privilegiava.

Un linguaggio filosofico latino.

Nell’affrontare questo arduo compito, Cicerone si imbatte in un ulteriore ostacolo: come riportare nei testi latini, cioè scritti in una lingua che non aveva una tradizione filosofica, la ricchezza e la complessità della terminologia filosofica greca. Questo problema viene risolto da Cicerone in modo originale: egli crea un vocabolario filosofico romano, senza ricorrere a neologismi, ma adottando invece vocaboli già presenti nella lingua latina e ampliando il loro significato, creando nuovi modi di dire, nuove espressioni. In questo egli arricchisce enormemente le potenzialità della lingua latina, che si trova così ad essere in grado di affrontare argomenti filosofici e scientifici. Cicerone era consapevole e orgoglioso di questa sua felice conquista, per certi assimilabile al lavoro svolto da Lucrezio sulla filosofia epicurea nel De rerum natura.

Introduzione alla filosofia.

Il risultato di questo sforzo portò Cicerone alla stesura di un numero considerevole di opere, che costituiscono un sistema abbastanza organico e definito. Dopo i Paradoxa stoicorum e la consolatio per la morte della figlia, la prima opera è un dialogo intitolato Hortensius, che rappresenta un protrettico cioè un’esortazione allo studio della filosofia. Come questa e quelle precedenti risultano perdute o incomplete  anche altre opere iniziali del suo lavoro coem gli Accademica (o Accademici libri) che trattano i problemi della conoscenza. Funzione degli Accademica era quello di impostare i problemi della conoscenza, preliminari a ogni trattazione filosofica: come si è detto la soluzione abbracciata era quella “probabilistica”.

Il problema morale.

Risolte le questioni preliminari, Cicerone affrontò subito i grandi temi etici, in due opere composte nel 45 aC che sono giunte integralmente: il  De fnibus bonorum et malorum (in 5 libri) e le Tusculanae disputationes (in 5 libri).  Il De finibus che può anche essere tradotto coem “Il sommo bene e il sommo male” è composto da tre dialoghi distinti: il primo è ambientato nella villa ciceroniana di Cuma e vi sono esposte le tesi epicuree sul sommo bene, che è posto nel piacere, e sul sommo male, identificato con il dolore. Il secondo dialogo è ambientato nella villa tuscolana di Lucullo, introduce la figura di Catone l’Uticense, che espone la tesi stoica secondo cui il sommo bene risiede nella virtù. Infine l’ultima discussione avviene nell’Accademia di Atene, sede originaria della scuola filosofica di Platone: vi si tratta del sommo bene che risiederebbe nella salute del corpo e nella perfezione dello spirito. Come si può comprendere dalla struttura del dialogo, il De finibus imposta le basi teoriche del discorso morale esaminando le proposte delle diverse scuole filosofiche: tra queste viene evidentemente scartato l’epicureismo (per il suo distacco dalla vita pubblica), mentre più aperto resta il giudizio sulle altre correnti, senza però arrivare a una scelta definitiva a favore di una di esse. Le Tusculanae disputationes, ambientate nella villa ciceroniana di Tuscolo, introduce una discussione tra l’autore e un anonimo interlocutore riguardante diversi argomenti, uno ciascuno per ognuno dei 5 libri, e precisamente: il disprezzo della morte, la sopportazione del dolore, la tristezza, le passioni dell’animo (invidia, rivalità, gelosia, compassione, afflizione) e il rapporto virtù-felicità. Dopo la trattazione teorica del De finibus, Cicerone sviluppa problemi concreti, cui applicare i princìpi dell’etica. In questo testo più forte è il bisogno di consolazione e la ricerca di solide certezze che Cicerone, muovendo dalla drammatica situazione personale, proietta nel cuore di tutti gli uomini. Quest’opera, molto curata stilisticamente, sembra avvicinare Cicerone al rigorismo della dottrina stoica e si conclude con l’affermazione che le virtù morali sono in grado, da sole, di rendere felice il sapiente.

Il problema teologico.

L’ultimo trattato filosofico del 45 aC, il  De natura deorum, affronta il problema dell’essenza della divinità e dei suoi rapporti con gli uomini. E’ un solo dialogo e in ciascuno dei tre libri si espone la dottrina delle tre scuole filosofiche sui problemi dell’essenza degli dèi, della provvidenza, della divinazione, della giustizia divina. Vengono confutate sia le tesi della scuola epicurea (secondo cui gli dèi vivrebbero disinteressandosi delle vicende umane), sia quelle stoiche (che rappresentano la divinità come una provvidenza che governa il mondo). Tuttavia, in modo inatteso, Cicerone conclude affermando di essere più propenso ad ammettere come verosimile la dottrina stoica, anche perché gli permette di salvare in qualche modo la religione tradizionale, alla quale egli certo non credeva, ma che riteneva uno dei pilastri dello stato romano (funzione civile della religione). Il  De fato  scritto nel 44 aC parla del rapporto tra fato e libero arbitrio dell’uomo: in esso l’autore confuta la visione fatalistica dell’esistenza tipica degli stoici. Queste due opere sono tra gli scritti più razionalistici e “illuministici” di Cicerone.

I Tesori della vita.

Più originali e significativi per la comprensione del pensiero ciceroniano sono altri due dialoghi dello stesso anno (44 aC), il Cato maior de senectute (Catone il maggiore o della vecchiaia) e il Laelius de amicitia (Lelio o l’amicizia). Nel primo si tesse l’elogio della vecchiaia, età serena e ricca, sull’esempio di come la visse catone il Censore: essa non indebolisce la mente e non priva l’uomo delle sue doti migliori; l’anziano non si deve impensierire per l’avvicinarsi della morte, dato che siamo certi dell’immortalità dell’anima. Nel secondo dialogo Cicerone affronta il tema della natura dell’amicizia e riflette su quali norme di comportamento la debbano regolare. L’ambientazione, la stessa del  De republica,  ricostruisce idealmente uno spaccato del famoso Circolo degli Scipioni attorno al 129 aC e le aspirazione dell’aristocrazia senatoria dell’epoca, condivise da Cicerone. E’ la stessa natura umana che induce a ricercare veri amici, che dovrebbero idealmente possedere tre doti: la costanza, la fedeltà e la piacevolezza. L’amicizia più vera è disinteressata e va oltre un semplice legame morale tra uomini; essa è un vincolo tra persone affini non solo per educazione e sentimenti, ma spesso anche per idee politiche: il legame di amicizia, infatti , è quello su cui si fonda la coesione tra boni homines. Infine, dedicato al figlio Marco è l’ultimo testo filosofico ciceroniano, il trattato De Officiis  ( i doveri), scritto alla fine del 44, in tre libri, che rispettivamente illustrano l’honestum, l’utile e il rapporto conflittuale e sistente tra essi. L’honestum è considerato come essenza del dovere morale, il bene supremo fondamentale per un cittadino ideale, mentre l’utile è l’applicazione pratica dei precetti morali dell’honestum, ossia il conseguimento e la conservazione dei vantaggi necessari alla vita. Cicerone è perentorio nella soluzione del problema: l’utile e la moralità non possono mai entrare in contraddizione, poiché in nessun modo può sembrare che qualcosa sia utile, se non è onesto. Lo scopo di quest’opera, scritta quando ormai era in corso la lotta contro Marco Antonio, è quello di fornire ai giovani un modello di comportamento che sia utile allo stato. Cicerone sta per andarsene: con il suo testamento filosofico vuole contribuire a educare suo figlio e i figli di Roma.

Il Lailius:l’amicizia, da vincolo clientelare a legame affettivo.

Come indicano rispettivamente il titolo e il sottotitolo il Laelius de amicitia ha come protagonista e portavoce del pensiero di Cicerone Gaio Lelio, il noto amico di Scipione Emiliano, ed è un elegante dialogo filosofico sul tema dell’amicizia, scritto probabilmente nell’autunno del 44 aC dopo l’uccisione di Cesare. Il dialogo è ambientato nell’anno 129 aC e riporta una conversazione tra Lelio e i suoi due generi Quinto Mucio Scevola L’Augure e Gaio Fannio. L’ambiente di riferimento è quello del circolo scipionico, l’epoca felce che non aveva ancora visto la crisi della repubblica e le drammatiche scissioni interiori che dilaniavano i seguaci di Cesare, fedeli allo stato ma non meno devoti all’amicizia con il dittatore. Il dialogo trae infatti spunto tra la proverbiale amicizia tra Lelio e Scipione Emiliano per trattare dell’origine di questo sentimento, che nella sua forma perfetta per Cicerone può sussistere solo tra i boni, cioè tra gli aristocratici eredi della virtù di Lelio e Scipione. Ma un’amicizia che coinvolgeva anche un legame  di parte non era poi così pura come Cicerone vorrebbe dare a vedere. In realtà l’ordine di idee del Laelius è tutt’altro che lineare e produce un argomentare a tratti oscillante tra una concezione virtuosa dell’amicizia e una utilitaria, tra il valore morale dell’amicizia e l’aspetto clientelare che costituiva la realtà della vita politica romana. Del resto, il dialogo risente del delicato momento in cui fu steso, del momento, cioè, in cui Cicerone si apprestava a rientrare in politica dopo l’emarginazione subita durante la dittatura di Cesare. In queste condizioni era suo interesse superare la logica di fazione, che intendeva l’amicizia come legame di parte, e stabilire limiti certi, che vietassero all’amicizia di scontrarsi con il superiore interesse dello stato. Il merito del Laelius è dunque quello di aver cercato di superare la concezione dell’amicizia come fedeltà a una parte politica: da tutta l’opera traspare un grande bisogno di rapporti sinceri, un’ideale di amicizia spirituale, troppo alto per essere reale in quel mondo.

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