LUCREZIO DE RERUM 4 1037-1287

LUCREZIO DE RERUM 4 1037-1287

Lucrezio, De rerum natura 4, 1037-1287 (trad. F. Giancotti: da Lucrezio, La natura, introduzione, testo criticamente riveduto, trad. e commento di F. G., Garzanti, Milano 20004)


Si agita ‹in› noi questo seme, di cui ho parlato prima,
appena l’adolescenza rafforza le membra.
Giacché diverse cause eccitano e provocano diversi oggetti:
dall’uomo, solo l’attrattiva dell’uomo fa scaturire il seme umano.
E appena questo, emesso dalle sue sedi, esce,
attraverso le membra e le giunture si ritira da tutto il corpo,
raccogliendosi in determinate regioni nervose,
e immediatamente eccita proprio gli organi genitali.
Le parti stimolate inturgidiscono di seme e nasce la voglia
di emetterlo là verso dove è protesa la furente brama,
e il corpo cerca quello da cui la mente è ferita d’amore.
Giacché tutti solitamente cadono sulla ferita, e il sangue
spiccia in quella direzione da cui è giunto il colpo
e, se il nemico è vicino, il rosso liquido lo copre.
Così, dunque, chi riceve i colpi dai dardi di Venere,
lo trafigga un fanciullo di membra femminee
o una donna che da tutto il corpo irraggi amore,
tende verso là donde è ferito, e anela a congiungersi,
e in quel corpo spandere l’umore tratto dal corpo.
Ché il muto desiderio presagisce il piacere.
Questa è Venere per noi; e di qui viene il nome di amore,
di qui quella goccia della dolcezza di Venere stillò
prima nel cuore, e le susseguì il gelido affanno.
Infatti, se è assente l’oggetto del tuo amore, son tuttavia presenti
le sue immagini, e il dolce nome non abbandona le tue orecchie.
Ma conviene fuggire quelle immagini e respingere via da sé
ciò che alimenta l’amore e volgere la mente ad altro oggetto
e spandere in altri corpi, quali che siano, l’umore raccolto,
e non trattenerlo essendo rivolto una volta per sempre all’amore
d’una persona sola, e così riservare a sé stesso affanno e sicuro
dolore. Giacché la piaga s’inacerbisce e incancrenisce, a nutrirla,
e di giorno in giorno la follia aumenta e la sofferenza s’aggrava,
se non scacci con nuove piaghe le prime ferite, e non le curi
vagando con Venere vagabonda mentre sono ancora fresche,
o trovi modo di rivolgere altrove i moti dell’animo.
Né dei frutti di Venere è privo colui che evita l’amore,
ma piuttosto coglie le gioie che sono senza pena.
Giacché certo agli assennati ne viene un piacere più puro
che ai malati d’amore. Infatti nel momento stesso del possedere
fluttua ed erra incerto l’ardore degli amanti, né sanno
che cosa debbano prima godere con gli occhi e le mani.
Quel che hanno desiderato, lo premono strettamente, e fanno
male al corpo, e spesso infiggono i denti nelle labbra,
e urtano bocca con bocca nei baci, perché non è puro il piacere
e assilli occulti li stimolano a ferire l’oggetto stesso,
quale che sia, da cui sorgono quei germi di furore.
Ma lievemente attenua le pene Venere nell’atto di amore
e il carezzevole piacere, commisto, raffrena i morsi.
Giacché in ciò è la speranza: che dallo stesso corpo
da cui è nato l’ardore, possa anche essere estinta la fiamma.
Ma la natura oppone che ciò avviene tutto al contrario;
e questa è l’unica cosa per cui, quanto più ne possediamo,
tanto più il petto riarde d’una crudele brama.
Difatti cibo e bevanda sono assorbiti dentro le membra;
e poiché possono occupare determinate parti,
perciò la sete e la fame si saziano facilmente.
Ma di una faccia umana e di un bel colorito nulla, di cui
si possa godere, penetra nel corpo, tranne tenui simulacri,
che spesso trascinano la mente con una misera speranza.
Come quando in sogno un assetato cerca di bere e non gli è data
bevanda che nelle membra possa estinguere l’arsura,

ma a simulacri di acque aspira e invano si travaglia
e in mezzo a un fiume impetuoso bevendo patisce la sete,
così in amore Venere con simulacri illude gli amanti,
né possono saziare i propri corpi contemplando corpi pur vicini,
né sono in grado di strappar via qualcosa dalle tenere membra
con le mani errando incerti su per tutto il corpo.
E quando, alfine, congiunte le membra, si godono il fiore
di giovinezza, quando il corpo già presagisce il piacere,
e Venere è sul punto di effondere il seme nel femmineo campo,
s’avvinghiano avidamente al corpo e mischiano le salive
bocca a bocca, e ansano, premendo coi denti le labbra;
ma invano; perché non possono strapparne nulla,
né penetrare e perdersi nell’altro corpo con tutto il corpo;
infatti sembra talora che vogliano farlo e che per questo lottino:
tanto ardentemente si tengono avvinti nelle strette di Venere,
finché le membra si sciolgono, sfinite dalla forza del piacere.
Infine, quando il desiderio costretto nei nervi ha trovato sfogo,
segue una piccola pausa dell’ardore violento, per poco.
Quindi torna la stessa rabbia, e di nuovo li invade quel furore,
quando essi stessi non sanno ciò che bramano ottenere,
né sono in grado di trovare che mezzo possa vincere quel male:
in tanta incertezza si consumano per una piaga nascosta.
Aggiungi che sciupano le forze e si struggono nel
travaglio; aggiungi che si trascorre la vita al cenno di un’altra
persona. Son trascurati i doveri, e ne soffre il buon nome e vacilla.
Frattanto il patrimonio si dilegua, e si converte in profumi
babilonesi, e bei sandali di Sicione ai piedi ridono,
s’intende, e grandi smeraldi con la verde luce
sono incastonati nell’oro, e la veste color di mare è consunta
assiduamente, e maltrattata beve il sudore di Venere;
e i beni ben guadagnati dai padri diventano bende, diademi,
talora si cangiano in un mantello femminile e in tessuti di Alinda e
di Ceo. S’apparecchiano conviti con splendide tovaglie e vivande,
giochi, coppe senza risparmio, unguenti, corone, serti,
ma invano, perché di mezzo alla fonte delle delizie
sorge qualcosa di amaro che pur tra i fiori angoscia,
o quando per caso l’animo conscio s’angustia per il rimorso
d’una vita trascorsa nell’inerzia e perduta nelle orge,
o perché lei ha lanciato, lasciandone in dubbio il senso, una parola,
che confitta nel cuore appassionato divampa come fuoco,
o perché gli sembra che troppo lei occhieggi o che il suo sguardo
sia attratto da un altro, e nel suo volto vede le tracce d’un sorriso.
E questi mali si trovano in un amore che dura ed è felice
al più alto grado; ma, se è infelice e senza speranza, ci sono
mali che puoi cogliere anche ad occhi chiusi,
innumerevoli; sì che è meglio stare prima all’erta,
come ho insegnato, e guardarsi dall’essere adescati.
Difatti evitare di cadere nei lacci d’amore
non è così difficile come districarsi, una volta presi
in mezzo alle reti, e forzare i possenti nodi di Venere.
E tuttavia, anche avviluppato e inceppato, potresti sfuggire
all’insidia, se proprio tu non opponessi ostacoli a te stesso,
e non ti celassi in primo luogo tutti i difetti dell’animo
o quelli del corpo di colei che prediligi e desideri.
Questo infatti fanno per lo più gli uomini ciechi di passione,
e attribuiscono alle amate pregi ch’esse non posseggono davvero.
Così vediamo che donne in molti modi deformi e laide
sono adorate e godono del più alto onore.
E poi s’irridono a vicenda, e l’uno invita l’altro a placare
Venere, perché lo affligge un brutto amore, e spesso
non scorge, l’infelice, i propri mali, che sono i più grandi.
La nera “ha il colore del miele”, la sudicia e fetida è “disadorna”,
se ha occhi verdastri è “l’immagine di Pallade”, se è nervosa e secca
è “una gazzella”, la piccoletta, la nanerottola, è “una delle Grazie”,
è “tutta puro sale”, la corpulenta e smisurata è “un prodigio” ed è
“piena di maestà”. La balbuziente, che non può parlare, “cinguetta”,

la muta è “pudica”; e l’irruente, odiosa, linguacciuta è “tutta fuoco”.
Diventa “un sottile amorino”, quando non può vivere
per la consunzione; se poi è già morta di tosse, è “delicata”.
E la turgida e popputa è “Cerere stessa dopo aver partorito Bacco”,
la camusa è “una Silena” e “una Satira”, la labbrona è “un bacio”.
Troppo mi dilungherei, se tentassi di dire tutte le altre cose
di questa specie. Ma tuttavia sia pure bella in volto quanto vuoi,
sia tale che da tutte le sue membra promani il potere di Venere:
certo ce ne sono anche altre; certo senza di lei siamo vissuti per
l’addietro, certo ella fa in tutto, e noi sappiamo che le fa, le stesse
cose che fa la brutta, e da sé stessa, misera, s’appesta di odori
nauseanti: fuggono allora le ancelle lontano da lei e furtivamente
sghignazzano.
Ma l’amante escluso, piangendo, spesso copre di fiori
e ghirlande la soglia, e profuma di maggiorana la porta superba, e
addolorato imprime baci sui battenti; ma se, alfine ricevuto, lo
investisse nell’entrare una sola di quelle esalazioni, cercherebbe
speciosi pretesti per andar via, e cadrebbe il lamento, a lungo
meditato, ripreso da lontano, e in quel punto egli si taccerebbe di
stoltezza, perché vedrebbe d’avere attribuito a lei più di quanto
conviene concedere a una mortale.
Né questo sfugge alle nostre Veneri; perciò tanto più esse celano
con la massima cura tutti i retroscena della vita a costoro
che vogliono tenere saldamente avvinti nei vincoli d’amore,
ma invano, perché tu con la mente hai pur sempre il potere di trarli
tutti alla luce e di scrutare tutto ciò che può essere oggetto di riso,
e, se lei è di animo amabile e non è odiosa, a tua volta
puoi lasciar correre ‹e› perdonare all’umana limitatezza.
Né sempre di finto amore sospira la donna, quando,
abbracciando il corpo dell’amante, col proprio corpo lo congiunge,
e lo tiene avvinto, dando umidi baci sulle labbra che sugge. Difatti
spesso lo fa di cuore e, cercando condivisi piaceri, lo stimola a
raggiungere la meta dell’amore. Non potrebbero altrimenti gli
uccelli, gli armenti e le fiere e le greggi e le cavalle sottomettersi ai
maschi, se la stessa natura loro non entrasse in calore, non ardesse
traboccando e non rispondesse con gioia alla Venere di quelli che
dan loro l’assalto.
Non vedi anche come quelli che vicendevole piacere ha avvinti,
spesso nei legami comuni si travagliano? Quanto spesso nei trivi i
cani, anelando a distaccarsi, bramosamente tirano con tutte le forze
in direzioni opposte, mentre restano tuttavia stretti nei possenti
lacci di Venere! Questo non lo farebbero mai, se non conoscessero
mutui piaceri, capaci di farli cadere nella rete e tenerli avvinti.
Dunque, ancora e ancora, come dico, il piacere è condiviso.
E quando, nel frammischiarsi dei semi, per avventura
la femmina con sùbita forza ha vinto e travolto la forza del
maschio, allora i figli nascono simili alle madri per effetto del seme
materno, come ai padri per il seme paterno. Ma quelli che vedi
partecipi d’ambedue gli aspetti, mescolare, l’uno accosto all’altro,
i volti dei genitori, crescono dal corpo paterno e dal sangue
materno, quando il concorde, mutuo ardore ha spinto a incontrarsi
i semi eccitati per le membra dagli stimoli di Venere, e nessuno dei
due ha vinto, né è stato vinto.
Avviene anche talora che possano nascere figli simili agli avi,
e spesso riproducano gli aspetti dei bisavoli,
perché spesso i genitori celano nel proprio corpo
molti principi mescolati in molti modi, che, provenienti
dal ceppo originario, son trasmessi da padri ad altri padri:
così Venere con varia sorte forma gli aspetti
e riproduce i volti e le voci e i capelli degli antenati;
giacché questi sono creati in noi ‹da› semi determinati,
non meno che le facce e i corpi e le membra.
E figlie femmine sorgono dal seme paterno
e maschi nascono plasmati dal corpo materno.
Sempre infatti il parto è prodotto da duplice seme,
e quello dei due cui più rassomiglia chi vien procreato,

è lui che ha dato la parte più grande; come puoi scorgere,
si tratti di maschio rampollo o di prole femminile.
Né divine potenze rifiutano ad alcuno il seme generativo,
perché non venga mai chiamato padre dai dolci nati
e in sterili amori trascorra l’esistenza;
come credono sovente gli uomini, e mesti cospargono
di molto sangue le are e bruciano offerte sugli altari,
perché possano far gravide le mogli con seme abbondante.
Invano affaticano la potenza degli dèi e gli oracoli.
Giacché sterili sono, parte a causa di seme troppo denso,
altri, per contro, perché il seme è liquido e sottile più del giusto.
Il sottile, poiché non può fissare la sua aderenza alle parti,
sùbito scorre via e torna indietro senza fecondare.
Il seme troppo denso, inoltre, poiché per quegli altri nell’emissione
è più tenace del giusto, o non vola via con lancio abbastanza lungo,
o non può penetrare egualmente nelle parti, o, sebbene sia
penetrato, si mescola a stento col seme femminile.
Si vede infatti che molto differiscono le armonie di Venere.
E alcuni più fan pregne alcune donne, e da altri
meglio altre accolgono il peso e diventano gravide.
E molte furono per l’addietro sterili in più matrimoni
e tuttavia alfine trovarono l’uomo dal quale poterono
generare fanciullini e arricchirsi di dolce parto.
E spesso anche per uomini, cui prima nella casa le mogli,
benché feconde, non avevano potuto partorire, fu trovata
la natura confacente, sì che poterono munire di figli la vecchiaia.
A tal punto importa che i semi possano
mischiarsi coi semi in un modo atto alla generazione,
e che i densi s’uniscano coi liquidi e i liquidi coi densi.
E in ciò ha importanza con quale vitto la vita si sostenti;
e infatti per alcuni cibi s’ingrossano i semi nelle membra
e per altri, al contrario, si assottigliano e si struggono.
E in quali modi si goda lo stesso carezzevole piacere,
è anche cosa di grande importanza; difatti si crede per lo più
che nella positura delle fiere e alla maniera dei quadrupedi le mogli
concepiscano meglio, perché così i semi possono raggiungere
le proprie sedi, quando il petto è chinato e son sollevati i fianchi.
Né le mogli han punto bisogno di movimenti voluttuosi.
Giacché la donna s’impedisce di concepire e contrasta,
se godendo risponde essa stessa con le anche alla Venere dell’uomo
e con tutto il petto che s’agita flessuoso provoca il fiotto:
infatti scosta il solco dal retto percorso del vomere
e svia dalle sue sedi il getto del seme.
E così son solite agitarsi le meretrici per propria utilità,
per non essere fatte pregne sovente e giacer gravide,
e insieme perché l’atto stesso di Venere sia agli uomini più grato;
ma di ciò è evidente che le nostre spose non hanno bisogno.
E non avviene per volere divino talora o per le saette di
Venere che una donnetta di aspetto meno leggiadro sia amata.
Giacché la donna stessa talvolta, col suo fare
e coi modi compiacenti e col corpo finemente curato,
riesce ad avvezzar‹ti› facilmente a trascorrere la vita con lei.
Del resto, la consuetudine fa nascere l’amore;
giacché ciò che è percosso da colpi continui, benché lievi,
tuttavia in lungo tratto di tempo è vinto e cede.
Non vedi come anche le gocce d’acqua che cadono sopra
le rocce, in lungo tratto di tempo bucano le rocce?

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