TEMA SU DON ABBONDIO
Sin dall’inizio Don Abbondio ci viene presentato come un uomo tranquillo, sereno. Dopo aver fatto una descrizione approfondita del paesaggio e aver determinato il tempo, ci mostra il curato, tralasciando però di darne una descrizione accurata; in compenso però sono molto nitidi tutti i gesti che lasciano intravedere una caratterizzazione del modo di essere di Don Abbondio. Inizialmente tutte le sue mosse, in armonia col paesaggio, ispirano una grande tranquillità, la tranquillità di chi si sta godendo la propria passeggiata: la lettura dell’uffizio; il chiudere il breviario mettendovi l’indice della mano destra come segno per poi mettere questa dietro la schiena: lo spostare i ciottoli che sono un intralcio con il piede da una parte della strada; l’alzare “oziosamente” gli occhi intorno per posarli sui monti là vicino. Sono tutti gesti scanditi dall’abitudine, in una vicenda quotidiana dove ogni cosa è al suo posto e non c’è spazio per avvenimenti nuovi o sorprese, e solo qualche piccolo sasso può rappresentare un turbamento, peraltro subito scansato. Il culmine di questa pagina dominata dall’abitudine è rappresentato nel gesto, anche questo solito, di alzare gli occhi dal libro svoltata la strada e di guardare davanti a sé. Ed è proprio qui, dopo l’aver messo in evidenza il ritmo pacato dei gesti compiuti nell’uniformità e nel silenzio del paesaggio, che avviene il fatto nuovo, quello che sconvolgerà quell’abitudinario andare di don Abbondio: l’incontro con i bravi. I gesti di don Abbondio sono contratti e rigidi, non più riposati e distesi come prima; gli occhi, cercano un soccorso o una via di fuga. Durante il dialogo la voce di don Abbondio è un balbettio che si agita fra scuse ritorte come accuse agli altri, adulazioni ( “lor son uomini di mondo.ma lor signori sono troppo giusti, troppo ragionevoli.”) e complicità ( “se mi sapessero suggerire.”).
Il significato della figura di don Abbondio sta probabilmente in una nuova immagine: il curato era come ” un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”. C’è un sottinteso di compassione da parte di Manzoni per don Abbondio, mantenuto dall’angoscia che per tutto il romanzo incomberà sul curato, angoscia che riflette quasi lo strazio della carne.
Il curato era sempre stato premuroso per la sua vita, per le sue abitudini tranquille. Si era fatto prete per entrare a far parte di una classe che lo avrebbe protetto, almeno come pensava fino a quella sera.
” Il suo sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare” dice il Manzoni. E questo commento spiega le frasi successive: ” se si trovava assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all’altro ch’egli non gli era volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma perché non avete saputo esser voi il più forte? Ch’io mi sarei messo dalla vostra parte”. Don Abbondio criticava anche duramente chi non era come lui e riusciva a trovare sempre qualche torto in coloro che si erano messi contro i potenti. Soprattutto poi era contro i confratelli che aiutavano i deboli contro i potenti. C’è un distacco ironico di fronte a quel desiderio di quiete diventato pensiero dominante da parte del Manzoni quando dice “Don Abbondio, assorbito continuamente ne’ pensieri della propria quiete.”, pensiero che è garantito dalla sentenza prediletta del curato: “.che a un galantuomo, il quale badi a sé, e stia nei suoi panni, non accadon mai brutti incontri”. Da tutti questi pensieri del Manzoni si può capire che Don Abbondio non è una vittima della paura e dell’angoscia, ma ” un eroe del quieto vivere” , il cui quieto vivere si manifesta nella casa, della quale non ci è data nessuna descrizione, ma della quale abbiamo alcuni oggetti che da soli ci fanno capire che per d. A. la casa è un luogo di pace: ” il suo seggiolone”, “il bicchiere del suo vino” e altri particolari che bastano a definire un ambiente di ” domestica fiducia”. La casa è per il curato un luogo dove rifugiarsi, un luogo sicuro. Nel secondo capitolo sarà per la prima volta presentato il tema della casa violata, non più capace di tener fuori dalla porta i pericoli. Il cap. 2 è composto di quattro episodi dei quali in due è protagonista d. A. Nel primo si svolge il dialogo con Renzo, sul quale si trasmetterà la bufera che ha colpito d. A. Il discorso è dominato dall’iniziativa di d. A. che tra le varie scuse mette in azione la sua autorità e la sua cultura contro Renzo per coprire il suo sopruso . Nell’altro episodio del dialogo di Renzo e d. A., dove domina il primo, compare, come ho già detto, il tema della violazione della casa. La chiave diventa il simbolo del sentimento per la casa: essa può aprire il mondo di pace e chiudere fuori dalla porta allontanandoli tutti i pericoli e le minacce del mondo esterno. Questo sentimento continuerà a seguire la figura di d. A. per tutto il romanzo.
La successiva apparizione di d. A. avviene nell’ottavo capitolo, con il matrimonio a sorpresa. Lo troviamo ancora una volta immerso nella quiete e nell’ozio, sul suo seggiolone, nell’abbandono al piacere della lettura. Ed è proprio, ancora una volta, in questo clima di quotidianità che si sta per svolgere un’altra “burrasca” , ancora una volta all’insaputa del curato che fino all’apparizione degli sposi viene ancora descritto su un tempo disteso e riposato, il suo tempo interiore. Sappiamo già che d. A. è egoista, ma ne abbiamo un’altra dimostrazione in questo episodio; all’inizio, dopo aver salutato Tonio e Gervaso con un “Ah! Ah!”, concentra subito l’attenzione su se stesso con le parole ” lo sapete che sono ammalato?(.) L’avrete sentito dire; sono ammalato, e non so quando potrò lasciarmi vedere.”. In queste parole si insinua l’eco del comportamento egoistico del convalescente che si crogiola nelle cure degli altri e secondo me questo compiacimento della propria malattia ( oltretutto già passata da un bel po’, quindi falsa ) si adatta perfettamente al personaggio, che fa girare tutto il mondo intorno a se stesso e ai suoi interessi.
I movimenti di d. A. sono nuovamente lenti e riposati: come durante la passeggiata si descriveva l’aprire e il chiudere del breviario, qua si può osservare il meticoloso gesto del togliersi e mettersi gli occhiali, in cui si rispecchia il fare minuzioso e lento del personaggio. Ma è la serie di gesti compiuti davanti all’armadio “del tesoro” che diffonde una sensazione di avarizia e di prudenza, ma anche di intimità e di casa protetta. I gesti cauti e guardinghi di d. A. riflettono anche ora il suo tempo riposato. All’apparizione dei due promessi i movimenti diventano agitati e rapidi, al contrario dei gesti con i bravi. D. A. è agitato, ma si ribella a Renzo e Lucia, cosa che non aveva fatto con i bravi, perché la paura per le minacce dei due è più forte della paura per Renzo. A questo punto Manzoni lascia d. A. , e lo ritroveremo solo nel cap. 23, quando entra in scena per sdrammatizzare un po’ l’atmosfera che si era creata dopo la conversione dell’Innominato. Il tono comico è affidato subito alle parole del curato. Di lui si sente prima soltanto la voce, una voce restia, un “io?” che sembra un disperato tentativo di rimanere nella folla, senza uscire allo scoperto. Poi si vede la persona , che sbuca lenta e rassegnata, “con passo forzato, e un viso tra l’attonito e il disgustato”. Già con queste poche parole si capisce dove andrà a svilupparsi la situazione, cioè d. A. sarà costretto ad avventurarsi fuori dalla tranquillità delle pareti di casa. Dopo la passeggiata e l’incontro coi bravi, non avevamo più visto il curato fuori dalle pareti di casa, anche se all’interno di quelle pareti era penetrata la burrasca, che poi però era rimasta chiusa fuori dalla porta sbarrata. Ora invece lo vediamo in una casa che non è la sua, lontano dai suoi confini naturali, dalla sua sicurezza. Tuttavia la folla dei preti costituisce uno spazio dove si può rifugiare. Ma neppure questo rifugio è concesso a d. A. La chiamata del cappellano lo strappa dall’ombra della sua mimetizzazione, e lo porta al cospetto del Cardinale e dell’Innominato, dai quali sarà spinto al viaggio come una vittima, verso il terribile castello e il suo terribile signore. Lanciando occhiatine su e giù al Cardinale e all’Innominato, esprime la propria preoccupazione. Quando dovrà parlare il suo io sarà ripetuto varie volte in tutti i casi possibili: “m’hanno significato che vossignoria illustrissima mi voleva me; ma io credo che abbiano sbagliato”. Quando gli viene presentata la sua missione, farebbe di tutto per sfuggire agli ordini del Cardinale e alla sconvolgente prospettiva del viaggio con l’Innominato. Si scusa dicendo che sarebbe meglio che andasse a prendere Agnese anziché Lucia, perché la madre è una donna “sensitiva” e ci vuole qualcuno che “la sappia prendere per il suo verso”. Questa sua improvvisa gentilezza è provocata comunque dal suo io, che desidera evitare il viaggio con l’Innominato, sulla cui conversione nutre ancora molti dubbi e continuerà a nutrirne ancora per molto tempo, e fare invece un tanto atteso viaggio di ritorno a casa.
Quando l’Innominato e d. A. rimangono da soli stanno in silenzio, e qua si apre un monologo del curato che cerca un tema di discorso amichevole, una ricerca in cui si insinua il dubbio sulla conversione, e con questo appare il rimpianto della casa lontana. Durante il viaggio c’è un altro soliloquio di d. A. che naturalmente discende dalla sua filosofia, quella del “quieto vivere” . In base a questo principio le persone sono giudicate e criticate e, a seconda delle varie qualità, vengono accomunate o distinte. E’ dunque naturale dire che “tanto i santi come i birboni gli abbiano a aver l’argento vivo addosso, e non si contentino d’esser sempre in moto loro, ma voglian tirare in ballo, se potessero, tutto il genere umano.” e che i santi siano accomunati ai birboni opposti al povero don Abbondio, che non cerca nessuno; è ovvio anche che queste persone che hanno “l’argento vivo addosso” tirino in ballo il curato: “.e che i più faccendoni mi devan proprio venire a cercare me, che non cerco nessuno, tirarmi per i capelli ne’ loro affari: io che non chiedo altro che d’esser lasciato vivere!”. La prima persona domina sempre in contrapposizione con tutto il genere umano.
Attraverso le sue critiche vengono tutti passati in rassegna: don Rodrigo, il birbone, che potrebbe fare ” l’arte del Michelaccio” e invece vuol fare il lavoro più brutto del mondo, molestare le donne; l’Innominato, il birbone diventato santo, “.se sarà vero”; il cardinale che crede a tutto ciò che dice l’Innominato e si immischia nella sua storia completamente. A tutti d. A. oppone se stesso: con don Rodrigo il rapporto è sottinteso, perché va “accattando guai per sé e per gli altri”; per l’Innominato d. A. si pone addirittura come esempio, “ci vuol tanto a fare il galantuomo tutta la vita, com’ho fatto io?”; con il cardinale egli si considera vittima della sua agitazione. Infine compare Lucia, che è fatta oggetto di un invincibile malumore che si esprime soprattutto nella constatazione che lei continua a procurargli guai.
Nel cap. 24, dopo essere andato da Lucia, d. A. è di nuovo il protagonista del viaggio di ritorno come lo era stato di quello di andata. Oltre alle pene fisiche, subentrano le angosce morali, poiché il suo pensiero va ai pericoli futuri. Uno di questi è don Rodrigo che potrebbe sfogare l’amarezza della non riuscita del suo piano sul povero curato. Un altro pericolo è il cardinale, che potrebbe fargli “pubblicità” e quindi tirarlo dentro tutta la storia senza possibilità di scusarsi con don Rodrigo, oppure potrebbe scoprire “l’affare del matrimonio”. Tra i pensieri tormentosi rispunta l’immagine della quiete casalinga( “per ora vo a chiudermi in casa” ).
Uno dei pericoli di cui d. A. aveva paura è destinato ad avverarsi nei cap. 25 e 26. Il cardinale ha infatti scoperto “l’affare del matrimonio” ed è intenzionato a parlarne al povero curato, anche se lui non ne è consapevole. Il dialogo scuoterà le fondamenta del sistema del quieto vivere di d. A., infatti il cardinale farà cadere tutti gli argomenti di cui dispone. All’inizio cerca di temporeggiare, ma alla fine è costretto a spiegare tutta la storia. Il cardinale gli fa un lungo discorso sul suo dovere, tanto da ridurre d. A. a testa bassa: “il suo spirito si trovava tra quegli argomenti, come un pulcino negli artigli del falco, che lo tengono sollevato in una regione sconosciuta, in un’aria che non ha mai respirata.” Mi hanno colpito molto i pensieri di d. A. : “anche questi santi son curiosi, in sostanza, a spremerne il sugo, gli stanno più a cuore gli amori di due giovani, che la vita d’un povero sacerdote.” Nel cap. 26, Federigo riprende il discorso, proponendo ancora le istanze del dovere e dell’amore e fra proseguire la requisitoria sulle responsabilità del curato. Dopo aver visto venire abbattute tutte le sue ragioni, gli argomenti di Federigo lo portano ad una piccola conversione. Infine si accende, anche se soltanto “come lo stoppino umido e ammaccato d’una candela” che “da principio fuma, schizza, scoppietta, non ne vuol saper nulla” ma poi “bene o male brucia”. Don Abbondio passa dal silenzio di chi respira un’aria sconosciuta e ingrata al silenzio di “chi ha più cose da pensare che da dire”. Ma alla fine si è creata comunque una specie di antagonismo tra la filosofia terra terra di d. A. e quella celeste di Federigo.
Ritroviamo d. A. nel cap. 29, dove è costretto a fuggire dalla tranquillità ritrovata della sua casa ancora una volta per l’arrivo dei soldati. D. A. è combattuto tra sentimenti contrastanti: la perplessità, la voglia di stare fermo nella sua casa, e la volontà di fuggire. Egli vede in ogni luogo pericoli e ostacoli spaventosi. Il pover uomo è preso da una grande angoscia: alla domanda drammatica ” Dove andare?” sa rispondere solo con una serie di luoghi, tutte soluzioni apparenti, cariche di dubbi.. Fino ad ora la casa è sempre stata un rifugio un idillio di pace e benessere spesso agognato nelle situazioni più difficili. Ora che il curato ha perso il suo punto di riferimento, il suo naturale luogo di sicurezza e protezione, che è diventato inutile, si sente perso e cade nella più assoluta incertezza. Ora che la casa è in pericolo, il curato guarda agli altri, ma non per unirsi a loro nella fuga: l’egoismo e l’egocentrismo che lo ha spinto ad escludere gli altri dalla propria esistenza, ora lo spinge ad avvicinarsi alle altre persone per cercare un aiuto e convocarle al proprio servizio. Da dentro il suo animo egoista pensa “Non c’è carità: ognun pensa a sé; e a me nessun vuol pensare” come se tutto il resto del mondo dovesse pensare ad aiutare lui anziché salvare la propria pelle. Nelle parole di d. A. domina l’atteggiamento passivo e la terribile prospettiva di martirio (“volete lasciarmi qui a ricevere il martirio?”). Siccome il curato ha perso quasi la ragione, si fa sentire l’autorità di Perpetua e d. A. è ai suoi ordini. Ma al sentire pronunciare l’Innominato si fa sentire ancora la diffidenza del poveruomo per la sua conversione: “Convertito, è convertito davvero, eh?. E se andassimo a metterci in gabbia?”.
Convinto don Abbondio, Perpetua, Agnese e il curato si mettono il viaggio e lui esprime il suo malcontento lamentandosi per tutto il viaggio, prendendosela con le autorità, dicendo cose anche vere, ma che nella sua bocca appaiono espressione di un modo di pensare acutamente egoistico: si capisce infatti che il disturbo è arrecato soprattutto a lui.
Il cap. 30 inizia con la conclusione del viaggio verso il castello dell’Innominato. La figura di d. A. è ancora protagonista, ma subisce una variazione: si risveglia infatti dal contegno passivo e rassegnato che manteneva nel capitolo precedente e si anima ergendosi in tutta la superiorità della sua paura. Di due tipi sono le angosce che si dibattono nell’animo del curato: quelle relative alla pericolosità dell’uomo e dell’ambiente in cui si trova e quelle relative al pericolo di una guerra. Egli è caratterizzato anche questa volta da un’estrema prudenza. La sua regola di condotta è espressa nelle istruzioni date a Perpetua e Agnese: niente pettegolezzi, pesare le parole e dirne poche. Queste norme di vita sono garantite dal sistema del quieto vivere. Don Abbondio si sente in pericolo, tra due fuochi: tra i bellicosi compagni, in piena guerra e le due donne incoscienti; per questo si chiude in un’amara solitudine che diventa anche fisica oltre che morale. Dimostra infatti di saper applicare alla perfezione le regole raccomandate alle due donne. Alla fine del capitolo il gruppo torna a casa. La loro dimora, prima luogo di pace e serenità, ora è completamente devastata e richiama intensamente il ricordo di come era prima che partissero. Tutti i particolari che avevamo potuto riconoscere nei primi capitoli, ora li ritroviamo in negativo bruciati o distrutti. Tutti questi oggetti sono il simbolo dell’improvvisa ventata di violenza passata sulla casa a sconvolgere la vita dei due conviventi.
Don Abbondio lo ritroviamo dopo che è guarito dalla peste, nel cap.33, quando incontra Renzo. Egli è cambiato fisicamente, ma non moralmente. La paura domina ancora la sua vita. Il pensiero di se stesso sta sopra ad ogni altro pensiero. Il quieto vivere rimane il principio della sua filosofia ed egli lo desidera; inoltre il pronome di prima persona domina ancora le sue frasi come centro dei suoi pensieri.
Dopo questa breve apparizione, servita probabilmente a dimostrarci che lui non cambierà mai, riapparirà nell’ultimo capitolo. Tutto è ormai quasi concluso, Lucia è stata ritrovata, il voto è stato sciolto e la peste ha probabilmente portato via don Rodrigo. Ma al solito Don Abbondio non è ancora passato “quel dolor di capo” per cui non aveva sposato Renzo e Lucia. E ci vuol altro che la sicurezza di Renzo per renderlo tranquillo. Anche le donne provano a convincerlo, ma mantiene sempre lo stesso atteggiamento sfuggente. Solo Ambrogio, da testimone, riesce a smuovere don Abbondio, sciogliendo tutti i dubbi ancora permanenti nella testa del curato. Ora che il suo problema è scomparso può tornare al suo quieto vivere, ritrovato e garantito per l’avvenire; ora si mostra molto più gentile e socievole e addirittura affettuoso. E lui stesso che, dopo l’incontro coi bravi nel primo capitolo, aveva provocato tanti guai ai promessi sposi, ora, grazie all’incontro con il marchese, toglie a loro ogni preoccupazione, oltre a quella della casa, persino quella del bando, che ancora lo preoccupava, anche se solo in parte.
Don Abbondio è l’unico personaggio importante che durante tutta la storia non ha cambiato quasi per niente il suo modo di pensare. In lui permane sempre l’ideale del “quieto vivere”, della tranquillità che sin dal primo capitolo si sono caratterizzati in lui e l’ideale della casa come luogo dove poter essere sereni e protetti dal resto del mondo, quasi chiusi nel proprio egoismo e nelle proprie abitudini.