ULISSE DI UMBERTO SABA

L’ “ULISSE” DI UMBERTO SABA

Nella mia giovinezza ho navigato

lungo le coste dalmate. Isolotti

a fior d’onda emergevano, ove raro

un uccello sostava intento a prede,

coperti d’alghe, scivolosi, al sole

belli come smeraldi. Quando l’alta

marea e la notte li annullava, vele

 

sottovento sbandavano più al largo,

per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno

è quella terra di nessuno. Il porto

accende ad altri i suoi lumi; me al largo

sospinge ancora il non domato spirito,

e dalla vita il doloroso amore.

 

Nell’immagine di Ulisse il poeta paragona la sua storia. Una storia non conclusa, incapace di placarsi in un approdo sereno, ma ancora protesa in una ricerca travagliata e senza fine.

Infatti, il racconto delle navigazioni giovanili assume un significato simbolico: quegli isolotti squallidi e perigliosi, che di giorno risplendono al sole come gemme e di notte sono una vera insidia per gli scafi dei naviganti, sono un’immagine della vita, sentita come solitudine e aspro travaglio, e tuttavia amata per il suo fascino (BELLI COME SMERALDI). Ma da questa immagine alcuni critici hanno constatato la possibilità di passare dalla visione splendente della vita illuminata dal sole, alla serenità di un sentimento giovanile che ha una visione spensierata dell’esistenza. Ma navigando senza una meta, che orienti la navigazione, si fa sempre più presente l’insidia notturna in cui si nascondono i fitti isolotti, rilevando così il rischio quotidiano cui va incontro l’uomo vivendo giorno per giorno le tappe del proprio viaggio. Così la maturità consapevole del poeta ricerca nostalgicamente quelle isole solitarie, accetta il destino di solitudine e di lotta, anche se non più allietate dalle illusioni fervide della giovinezza; sente, in quel navigare periglioso, nella ricerca ardua e nel dolore, la suprema dignità dell’uomo.

Assistiamo così all’identificazione del poeta con l’eroe greco come appare nel verso 10, dove l’autore definisce il proprio regno ” terra di nessuno”, riferendosi al nome greco di Ulisse.

Anche Saba, come Ulisse, non attende riconoscenza o consolazione, non trova rifugio in un porto, che offre agli altri, che si adagiano nelle piccole certezze, le sue gioie e la sua promessa di pace. Invece l’indomato spirito del poeta, proteso alla conquista di una moralità più vera, va’ alla scoperta di un autentico significato del vivere, non importa se è lontano e forse irraggiungibile. Ma la vita è nel perenne contrasto tra amore e dolore. Anche se si vede la tristezza in questa constatazione, si sente però la dignità austera del non domato spirito, che spinge il poeta ha ricercare una meta più alta.

Singolare è l’ossimoro conclusivo rappresentante la lotta, pur nella continua sofferenza, in “per raggiungere in vita piccoli cambiamenti e piccoli progressi”.

Interessante è al tal proposito l’opinione di E. GIOANOLA:

E’ ” l’altissimo testamento spirituale di Saba “; la rievocazione dei viaggi nell’Adriatico, compiuto come mozzo nell’adolescenza, diventa, per il vecchio poeta, parabola dell’inesausto itinerario dell’uomo nell’esistenza, a somiglianza dell’antico mito di Ulisse, fino alla vecchiaia indomito ricercatore di cose e terre nuove. Il “non domato spirito” (e si noti l’intonazione da melodramma verdiano di questa espressione) spinge ancora a largo le vele del poeta, non avendo mai permesso “il doloroso amore” della vita una navigazione da piccolo cabottaggio”.

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