Le Epistulae morales ad Lucilium

Le Epistulae morales ad Lucilium

Si tratta di 124 lettere raccolte in 20 libri scritte nel periodo di ritiro dalla vita politica (62-65 d.C.). l’opera è considerata il capolavoro filosofico e artistico di Seneca, il picco più alto e maturo del suo pensiero.
Non si sa con certezza se queste lettere siano poi state realmente inviate a Lucilio ma qualche è certo è che esse non fossero indirizzate solo a lui ma a tutte le generazioni successive che avessero avuto il desiderio di crescere moralmente. La forma epistolare permetteva a Seneca di esprimere liberamente i propri concetti senza l’obbligo della schematicità dei trattai filosofici. L’opera finale è un intreccio di temi diversi, alcuni già trattati nei Dialogi, espressi mediante riflessioni incisive e fulminee ora col compito di fare da consigli morali ora con il dovere di affrontare questioni filosofiche e dottrinali. L’obiettivo è la crescita di tutto il genere umano, non solo Lucilio, che deve prendere coscienza di sé.
Un tema spesso ricorrente nelle Epistulae è l’elogio dell’otium, della vita ritirata che permette di coltivare la propria spiritualità e la propria saggezza in modo da pervenire alla propria coscienza. Da qui il motto senecano Recede in te ipsum (“Ritirati in te stesso”). Quest’idea, espressa così chiaramente non trova precedenti in nessuna filosofia greca o romana.
Seneca dà notevole importanza alla coscientia. Essa è il giudice che vive nell’uomo, la consapevolezza del bene e del male; di conseguenza l’uomo può anche sfuggire alla legge ma non al rimorso e alla paura della propria coscienza.
Nella profonda analisi che Seneca fa della personalità umana, il filosofo scopre il fattore divino che risiede in ogni uomo. I toni che egli usa suggestioneranno, in seguito, i lettori cristiani: “[…] Dio è vicino a te, è con te, è dentro di te. […] in noi dimora uno spirito sacro che osserva e controlla le nostre azioni buone e cattive; a seconda di come noi lo trattiamo, lui ci tratta. In verità, nessun uomo può esser virtuoso senza Dio”. Seneca scopre, nelle profondità dell’animo umano, un Dio che è vicino agli uomini che ha i caratteri di un buon padre, che protegge ed ascolta gli uomini stessi.
Seneca tratta il sentimento dell’humanitas avvicinandosi vertiginosamente alla dottrina cristiana. La sensibilità con cui egli dice di trattare gli schiavi è propria della dottrina cristiana: “Comportati con chi ti è inferiore come vorresti che si comportasse con te chi ti è superiore”. Seneca è pronto a concedere allo schiavo tutta la dignità che l’etica del suo tempo gli negava, evidenziando come lo schiavo e il padrone vivano l’uno in funzione dell’altro.
Seneca pone, come mezzo per il raggiungimento della virtù, la volontà: “Di che cosa hai bisogno per essere buono? Di volerlo!”. La volontà è indipendente dalla conoscenza e non è spiegabile mediante un meccanismo razionale perché “la volontà non si impara”; nemmeno Seneca riesce a spiegarsi come essa abbia origine: “Non potrai citarmi quomodo quod vult coeperit velle (qualcuno che sappia come abbia cominciato a volere ciò che vuole): non vi è stato condotto dalla riflessione ma dall’impulso.”
Ad ogni evento di vitalità, Seneca contrappone il tema della morte. È la legge della natura che chi è nato debba morire, prima o poi, dunque: “[…] Chiunque si lamenta che qualcuno è morto si lamenta che sia stato uomo.”
L’uomo ha il compito di prepararsi alla morte, serenamente, come fece Socrate. In questo può aiutare la filosofia che rende l’uomo libero, sereno e cosciente di sé, quindi felice di essere uomo.

La filosofia di Seneca non può essere accostata a nessuna scuola filosofica. Fu decisamente uno stoico ma abbracciò anche le dottrine platoniche e neo-pitagoriche, senza disdegnare alcuni insegnamenti i Epicuro.
Seneca rimane un rinnovatore nel moderare i termini e smussare i margini dello stoicismo, dimostrandosi sempre aperto a nuove correnti e mostrando la vitalità e la fecondità dei principi platonici ed epicurei.

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