ITALIA E SPAGNA NEL SEICENTO

ITALIA E SPAGNA NEL SEICENTO

IL PREGIUDIZIO DI UNA SPAGNA CORRUTTRICE E DI UN’ITALIA INCORROTTA

CROCE, La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, Laterza Bari 1949


Il Seicento è reputato una delle più infelici età della storia d’Italia, paragonabile in certa guisa alla fine di Roma e agli effetti delle invasioni barbariche: l’età dal mezzo secolo decimosesto ai cominciamenti del decimottavo, dalla Pace di Cateau-Cambrésis alla guerra per la successione di Spagna, in cui mancò in Italia ogni vita politica e sentimento nazionale, la libertà di pensiero fu spenta, la cultura impoverì, la letteratura si fece manierata e goffa, le arti figurative e architettoniche imbarocchirono. E la Spagna è considerata non solo accompagnatrice, ma autrice di questa decadenza, come il potere ora aperto ora arcano che compi la grande ruina e formò il deserto in Italia non meno che altrove; e il suo malvagio influsso è stato accusato in tutte le parti della vita, in quella economica e morale non meno che nella reli­giosa, intellettuale ed artistica […]

Ma chi poi voglia intendere la qualità e la ragione di ciò per l’appunto che si è convenuto di chiamare decadenza italiana (e tale fu veramente per certi rispetti e sotto certi aspetti) ha l’obbligo strettissimo di liberarsi dal fantasma di una Spagna, fonte di nequizia e corruttrice di un’Italia incorrotta; perché questa concezione è logicamente assurda, non essendovi alcun influsso esercitabile dove non c’è un animo disposto ad accoglierlo, ad elaborarlo e a rinviarlo a sua volta potenziato e più o meno profondamente modificato. E che la Spagna non rappresentasse una potenza nemica e malefica è dimostrato dalla coscienza dei contemporanei, che nella sua generalità era soddisfatta, e persino orgogliosa, che l’Italia fosse congiunta con la Spagna […]

La verità circa la vita di quei secoli è da cercare in altro verso; ossia nel riconoscere che l’Italia e la Spagna erano entrambe, a quel tempo, paesi in decadenza. Cosa chiarissima per l’Italia, essendo ben noto che essa, in parte per ritardo, in parte per precocità di sviluppo, non era giunta a formarsi politicamente in modo da resistere alle compatte monarchie dei popoli circostanti, e che, al tempo stesso, per il cangiamento delle linee mondiali di commercio aveva sentito inaridire le fonti della sua prosperità […] Ma anche la Spagna, che la conquistava [l’Italia] e faceva sentire la propria forza politica e guerriera in tutta Europa, se aveva dello Stato moderno l’unità monarchica e le milizie, era per altro troppo medievale e feudale nella sua composizione sociale, e mancava soprattutto di quella preparazione e di quelle attitudini industriali e commerciali, indispensabili alla conservazione della potenza nei tempi moderni; e ciò avvertivano i nostri osservatori di quel tempo, notando, insieme con la ostinata ignoranza degli Spagnoli, la loro ignavia nelle arti e nell’agricoltura, come poi notarono il rapido spopolarsi del paese per effetto della miseria, della emigrazione e delle guerre. E medievali erano le sue idee, quelle idee di cui i popoli vivono, la sua religiosità ch’era superstizione, il suo sentimento monarchico che era devozione al signore, il suo non saper cosa farsi della scienza e della filosofia; sicché, quando si stese vittoriosamente sull’Italia, quando uni alle sue forze quelle dell’Impero, quando aggiunse ai suoi uomini del vecchio quelli del nuovo mondo, non entrava già in un periodo di crescente potenza, ma coglieva il frutto e il fiore della sua civiltà guerresca e cavalleresca; non iniziava uno svolgimento ma piuttosto lo concludeva. E poiché la Spagna si era nutrita della lotta contro gl’infedeli e l’Italia aveva nel suo cuore la Chiesa cattolica, questa potenza internazionale1[1], quando fu minacciata dalla Riforma, trovò nell’una Esperia le sue armi e nell’altra i mezzi della la guida del mondo moderno, e che rappresentò il progresso in ogni campo di operosità, contro il regresso e la decadenza ispano-italiana.

Di qui l’improprietà di raffigurare come un’efficacia malefica, esercitata dalla Spagna sull’Italia, quella che fu analogia o comunanza di processo storico; lungo il quale, certamente, la Spagna diede ma ricevè anche, e l’Italia ricevè e diede a sua volta. Le libere unioni dei cittadini, le accademie napoletane, per esempio, furono sciolte da Pietro di Toledo3 e per lungo tempo dipoi fermamente proibite; ma ciò accadeva, in Italia come in Ispagna, da una parte perché non si rinnovassero le vecchie congiure di nobili o di baroni contro il potere regio, e dall’altra perché non si coltivassero le novità religiose (che dell’una o dell’altra cosa si erano rese colpevoli o erano sospettate le accademie napoletane) , ossia in obbedienza al nuovo ideale monarchico e cattolico, accettato in Italia. La Spagna, invece d’inviare in Italia, come ai primi tempi, uomini di guerra arditi e avventurosi, inviava magistrati esperti nello spremere i popoli e nel tenerli a freno col rigore e con gli accorgimenti e le blandizie e la «grascia» [le vettovaglie], ma l’Italia, non più campo di lotta tra le sue repubbliche o le sue signorie, non più campo di contesa tra gli Stati europei, l’Italia dormente in pace, non meritava altra qualità di governatori; né troppo dissimili dagli spagnoli erano divenuti quasi tutti ì suoi principi indigeni, e perfino i patrizi delle superstiti repubbliche […] Sotto il dominio spagnolo crebbero nelle città italiane le plebi oziose e cenciose coi luridi vizi della miseria, e la lingua spagnola forni allora al dialetto napoletano le tre parole che a lungo vi spiccarono, lazzaro, guappo e camorrista; ma la Spagna era anch’essa il paese dei cenci, e se l’Italia fosse stata, come non era più, ricca e operosa, avrebbe agevolmente scosso il dominio degli Spagnoli, come fecero i Paesi Bassi. La Spagna, d’altra parte, colori alla spagnola il lusso, le ambizioni, le gare di precedenza, mercé i suoi cerimoniali, i suoi grandati4di Spagna, il suo fasto, il suo modo d’intendere la dignità e la gravità, portando la vita verso l’estrinseco e distaccando la forma dalla sostanza; ma verso l’estrinseco era già avviata la società italiana, mancati gli ideali della patria, scemata l’operosità dei commerci, cresciuti gli ozi. Era una decadenza che s’abbracciava a un’altra decadenza.

2 L’una Esperia è la Spagna, l’altra è l’Italia. Col nome di Esperia, «terra d’Occidente» i Greci in­dicarono ora l’Italia, ora la Spagna. I Latini chia­mavano talvolta la Spagna come Hesperia ultima.

Pedro de Toledo, marchese di Villafranca (1484-1553), fu viceré di Napoli dal 1532. Con­trastò il potere baronale; tentò di introdurre nel regno l’Inquisizione e dovette, perciò, affrontare una rivolta popolare-baronale (1547).

grandati: grandato è la dignità di grande di Spagna. Concesso a soli 27 capi di famiglia, esso costituiva il titolo supremo del regno.

[1]  Con l’espressione «potenza internazionale» il Croce allude al Cattolicesimo italo-spagnolo.

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