CANTO 16 INFERNO ANALISI

CANTO 16 INFERNO ANALISI


  1. In questo canto si parla dei peccatori dell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio, i consiglieri fraudolenti: sono i furbi, gli astuti che, servendosi dell’eloquenza, dell’intelletto e quindi del libero arbitrio (doni fatti da Dio, ma in questo caso utilizzati in modo errato), provocano il male.
    Il canto comincia con un inno a Firenze di quattro terzine e Dante, nominando i cinque ladri del canto precedente, vuole in un certo senso collegare l’inno (ma non tutto il canto perchè dal punto di vista narrativo qui si parla di un’altra bolgia) con il XXV canto. Dal terzo verso in poi dell’inno si comincia a capire però che queste quattro terzine non celebrano in realtà la grandezza di Firenze (come avviene invece per i primi due versi): più che di inno si potrebbe parlare infatti di invettiva che Dante lancia contro Firenze e nei primi due versi è abbastanza esplicita l’ironia.
    l’invettiva termina bruscamente e Dante comincia la narrazione. I due poeti si muovono lungo un sentiero ostico per vedere il bellissimo, immenso e spaventoso passaggio dell’ottava bolgia. Per descriverlo al lettore, Dante utilizza varie similitudini. Le prima similitudine è ampia (tre terzine) e ricchissima di particolari davvero stupefacenti (“come la mosca cede alla zanzara” è per esempio la proposizione che utilizza per indicare l’ora del giorno), che sono la testimonianza di quell’enorme e faticoso “labor limae” che caratterizza tutta l’opera. In questa similitudine Dante paragona alle fiamme che risplendono nell’ottava bolgia alle lucciole che un contadino vede nel suo campo al crepuscolo di un giorno d’estate. Successivamente fa un’altra similitudine: paragona la vicenda di Elia è Eliseo narrata nella Bibbia (quella in cui Elia viene portato via da un carro di fuoco inviato dal Signore e Eliseo fa in tempo a vederlo) con il movimento delle fiamme dell’ottava bolgia.
    La descrizione poi restringere il suo campo per concentrarsi su una singola fiamma, “La fiamma cornuta”, cioè divisa in due parti, che Dante paragona alla “pira dov’Eteocle fu miso”: i due fratelli, nati dall’unione tra Edipo, re di Tebe, e Giocasta, la madre di quest’ultimo, si odiavano a tal punto da combattersi la città, scontrandosi durante la guerra, si uccisero vicendevolmente e, posti l’uno accanto all’altro sulla pira, vennero bruciati e la fiamma si divise in due parti.
    Virgilio informa Dante che lì si trovano Ulisse e Diomede, eroi greci, alleati durante la guerra contro Troia, conosciuti come macchinatori di inganni e famosi per la loro astuzia, e parla anche di alcune delle più famose frodi commesse da questi, tra cui: “l’agguato del caval ” di Troia, la frode ai danni di Achille, che costretto a partire in guerra una volta scoperto lascia l’amata Deidamia; e infine il furto della statua di Pallade Atena.
    Quindi, sapendo che in quella fiamma bipartita ci stanno Ulisse e Diomede cresce la tensione di Dante e cresce anche la voglia di parlare con “l’un” di questi, cioè Ulisse. In questi versi utilizza anche un poliptoto: “assai ten priego / e ripriego, che’l priego….”; la figura retorica accentua l’intenso desiderio di Dante di conoscere quale fosse stata la morte di Ulisse. Virgilio decide di avere un discorso con Ulisse e dice a Dante di non parlare. Appena la fiamma delle due anime si avvicina Virgilio comincia a parlare utilizzando una figura retorica: la “captatio benevolentiae”, l’arte con cui si riesce a “captare”, a ottenere/catturare la benevolenza dell’ascoltatore, in modo da chiedere in seguito qualcosa. Ho notato che in questi versi forse c’è anche qualcosa di simbolico: Dante vuole farci capire che l’unico strumento per combattere l’astuzia è l’astuzia stessa. Infatti la captatio benevolentiae è lo strumento più utilizzato da Ulisse nell’Odissea di Omero: grazie a questa infatti riesce a con vincere, fuggire, frodare. Per esempio nel VI libro dell’Odissea, benché nudo, convince Nausica ad aiutarlo ed entra nella corte del re Alcinoo. E qui nella Divina Commedia Ulisse è “vittima” del suo stesso strumento. Ai versi 80 e 81 c’è una anafora (“s’io meritai di voi”).
    Quindi comincia il monologo di Ulisse, che racconta la fine della sua vita (inventata da Dante). La figura di Ulisse non è mai stata conosciuta direttamente da Dante (per direttamente Intendo attraverso la lettura dell’Iliade e dell’Odissea), Perché non conosceva il greco. Per questo motivo si affida agli scritti di Ovidio, Seneca, Cicerone e lo stesso Virgilio. La fonte più importante è comunque Orazio.
    Ulisse, ormai vecchio, sente nonostante sia appunto In età avanzata, la voglia ossessiva di conoscere: “di molte uomini vide città e conobbe la mente” scrive Omero nel proemio dell’Odissea, navigò in tutto il Mediterraneo, ma tutto questo non gli bastava, voleva continuare, voleva sfidare il mondo conosciuto, i canoni, le verità assolute date per scontate della maggior parte degli uomini. Per questa ragione decide di partire e convincere i compagni “con questa orazione picciola” e di proseguire in questo “folle volo”. Allora oltrepassano lo stretto di Gibilterra e le colonne d’Ercole e, dopo cinque mesi circa di navigazione senza sosta si trovano davanti la montagna del Purgatorio. Inizialmente la compagnia è felice, ma deve subito ricredersi perché comprende che sta per diventare vittima di una punizione divina. Allora Dio prende la nave , la fa girare tre volte e alla quarta la scaglia giù sotto il mare. Il canto si chiude con questa scena, col punto di maggior tensione nel canto ( spannung), caratterizzato dal silenzio di Dio.
    A mio avviso Dante è molto simile all’Ulisse di cui parla nel XXVI . La vita di Ulisse è una continua sfida nei confronti della conoscenza: quella più grande è forse questa narrata da Dante, cioè l’attraversamento delle colonne d’Ercole alla ricerca di nuove realtà. La sfida che Dante lancia alla conoscenza del tempo è molto più grande: sfida tutti, l’uomo e Dio, costruisce un oltretomba, suddivide i peccatori, nomina personaggi realmente esistiti, mette Beatrice Portinari, la sua amata, accanto alla Madonna come angelo, giudica, in un certo senso sostituendosi a Dio. Per questo motivo Dante si rivede molto in Odisseo e nella frase che gli fa pronunciare: “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza.

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