LA COSCIENZA DI ZENO APPUNTI

LA COSCIENZA DI ZENO APPUNTI

LA COSCIENZA DI ZENO APPUNTI


La coscienza di Zeno non è un’autobiografia, in senso tradizionale, ma piuttosto la storia della genesi e del decorso della nevrosi del protagonista, un’autoanalisi che egli intraprende perché percepisce come malattia il suo “disagio di vivere”. Il tema della “malattia” e della “salute” sono dunque centrali nel romanzo.

La tesi fondamentale, sostenuta a più riprese da Zeno, è quella di vita come malattia.

Svevo è molto scettico sulle possibilità terapeutiche della psicoanalisi, fin dall’inizio, di fronte alla diagnosi del dottor S, che riduce la sua malattia a un canonico caso di complesso edipico, il protagonista risponde irridendo: “La malattia mi appare non come il prodotto di una individuale conformazione psichica, e quindi curabile, ma come la condizione normale dell’esistenza”.

La malattia è indiscutibilmente per Svevo la risultante del conflitto tra la vita e la morte. La malattia è intimamente legata al destino umano, potendo assumere addirittura le valenze di un trionfo dell’uomo sul mondo primitivo delle bestie, idea che ha un’evidente origine darwiniana ed è permeata dal bisogno di collegare la malattia all’evoluzione dell’uomo. D’altra parte la malattia può anche essere una tragica condanna all’ ineludibile morte. Dunque se per Svevo “la malattia è l’epicentro del terremoto umano e universale”, non per caso sulla scia aperta da Nietzsche che in Così parlò Zarathustra affermava che “una delle malattie della terra si chiama per esempio uomo”, il triestino arriverà a postulare una strana sinonimia tra uomo e malattia. Con i suoi due livelli di manifestazioni patologiche, la malattia può essere manifesta fisicamente, affliggendo e distruggendo il corpo biologico dell’uomo o può manifestarsi in modo più ambiguo e perverso in una distruzione di tipo psicologico e morale.

La salute in realtà non esiste e i personaggi che Zeno ci presenta all’inizio come sani si rivelano nel corso del racconto non meno malati del protagonista: l’unica salvezza possibile è la coscienza critica della malattia stessa, e in tal senso l’«inetto», proprio perché incapace di agganciarsi alle convenzioni della vita, possiede una più elastica capacità di adattamento a quello stato patologico che è l’esistenza in quanto tale.

Con il terzo romanzo, il personaggio tipico della narrativa sveviana giunge quindi alla sua maturità. Goffo e intellettualmente velleitario come Alfonso Nitti ed Emilio Brentani, Zeno possiede però l’ironia, che sa esercitare anche verso se stesso, ovvero la capacità di prendere le distanze dagli altri e di non farsi travolgere dalle proprie nevrosi.

La suggestione profonda del testo di Svevo deriva dal fatto che la memoria non evoca avvenimenti, persone o cose se non nel loro significato simbolico: essi sono intaccati dalla malattia; questa consapevolezza gli deriva in virtù della scoperta che la vita è inquinata alle radici. La “malattia” si risolve nel riemergere della coscienza nel presente (egli scopre di essere guarito grazie alla guerra) dopo un auto-esame che la ha portata a immergersi nel labirinto oscuro del passato, lungo percorsi non semplicemente cronologici.

Se il protagonista è guarito, come afferma, lo deve al «commercio». In realtà, diventando profittatore di guerra, anche Zeno non fa che preparare la catastrofe dell’umanità provocata da chi costruisce, compra e vende «ordigni», di cui si parla nell’ultima pagina del romanzo. Il dramma dell’angoscia e del fallimento si trasforma, grazie alla riconciliazione ironica del protagonista con l’universo borghese (unico orizzonte possibile delle sue scelte di vita), in una commedia a lieto fine. Tuttavia in fondo il tono allegro e brioso di tante pagine del libro ha un sottofondo amaro ed è privo di ottimismo. La sua malattia viene a far parte della malattia di un’intera civiltà, destinata alla scomparsa per autodistruzione.

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