INFERNO CANTO 3 PARAFRASI VV 1-136

INFERNO CANTO 3 PARAFRASI VV 1-136


(1-9)
PER ME SI VA NE LA CITTA‟ DOLENTE,
PER ME SI VA NE L‟ETTERNO DOLORE,
PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE.
GIUSTIZIA MOSSE IL MIO ALTO FATTORE;
FECEMI LA DIVINA PODESTATE,

LA SOMMA SAPIENZA E „L PRIMO AMORE.
DINANZI A ME NON FUOR COSE CREATE
SE NON ETTERNE, E IO ETTERNA DURO.
LASCIATE OGNE SPERANZA, VOI CH‟INTRATE.
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Virgilio e Dante giungono davanti alla porta dell’Inferno, che reca una minacciosa scritta: “Attraverso me si va nel luogo del dolore, dell‟eterna sofferenza, tra i dannati. Fui creata per una ragione di giustizia.A proposito della giustizia divina, si riporta un passo della Bibbia (Seconda lettera ai Tessalonicesi, I, 6-10):“È proprio della giustizia di Dio rendere afflizione a quelli che vi affliggono e a voi, che ora siete afflitti, sollievo insieme a noi, quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo con gli angeli della sua potenza in fuoco ardente, a far vendetta di quanti non conoscono Dioe non obbediscono al vangelo del Signore nostro Gesù. Costoro saranno castigati con una rovina eterna, lontano dalla faccia del Signore e dalla gloria della sua potenza, quando egli verrà per esser glorificato…”Fui creata dalla Trinità, vista nei suoi attributi di somma potenza del Padre, di somma sapienza del Figlio e di somma carità dello Spirito Santo. Le cose create prima di me sono solo quelle eterne(cioè angeli, cieli, materia pura), e io duro in eterno(l’Inferno fu creato prima dell’uomo, al momento della caduta di Lucifero). Perdete qualunque speranza voi che entrate(la vera pena dei dannati è la loro assoluta impossibilità di sperare nella salvezza della loro anima).


(10-50) 
Queste parole di colore oscuro
vid’ ïo scritte al sommo d’una porta;
per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro».
Ed elli a me, come persona accorta:
«Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta.
Noi siam venuti al loco ov’ i’ t’ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c’hanno perduto il ben de l’intelletto»
E poi che la sua mano ala mia puose
con lieto volto, ond’ io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,
per ch’io al cominciar ne lagrimai.
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’ aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.
E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’ è che par nel duol sì vinta?»
Ed elli a me: «Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro
Caccianli i ciel per nonesser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli».
E io: «Maestro, che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?»
Rispuose: «Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ‘nvidïosi son d’ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
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Dante rimane terrorizzato da questa scritta difficile a comprendersi; quindi ne chiede spiegazione a Virgilio, il quale lo esorta ad abbandonare qualunque paura e viltà d’animo e lo conduce al di là della porta. Così i due poeti si trovano all’interno del “Vestibolo” (siamo ancora nell’Antinferno). Qui Dante comincia a udire sospiri, pianti, urli che paurosamente risuonano in un’atmosfera di tenebre. Dante domanda che cosa sia tutto ciò che sta ascoltando e chi sono quelle anime sofferenti. Virgilio gli risponde che si tratta degli ignavi, i quali in vita rifiutarono ogni responsabilità, vivendo “sanza „nfamia e sanza lodo”, cioè senza ottenere dagli altri né biasimo né lode, quindi da vili. Gli ignavi sono collocati nel Vestibolo assieme a quegli angeli che nella grande battaglia avvenuta in cielo non si schierarono dalla parte di Lucifero, ma rimasero comunque imbelli, abulici, dubbiosi; questi angeli imbelli sono respinti sia dai cieli, che non vogliono perdere la loro bellezza accogliendo genti vili, sia dall’Inferno, perché i dannati proverebbero compiacimento per essere stati meno vili di loro. Proprio perché nella vita non presero mai una posizione, gli ignavi sono indegni sia delle pene dell’Inferno sia della misericordia di Dio.


(51)
non ragioniam di lor, ma guarda e passa.»
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A conclusione della sua spiegazione a Dante sulla natura e la condizione degli ignavi, Virgilio gli pronuncia questa frase che è uno dei versi più celebri della Divina Commedia. In questo verso si avverte il disprezzo di Dante per i vili, gente che non ebbe personalità alcuna e che non fu mai viva.

(52-69)
E io, che riguardai, vidi una ‘nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogne posa mi parea indegna;
e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch’i’ non averei creduto
che morte tanta n’avesse disfatta.
Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.
Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta d’i cattivi,
a Dio spiacenti e a’ nemici sui.
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch’eran ivi.
Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.
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Dante vede che gli ignavi, che sono numerosissimi, sono costretti a correre, nudi,dietro a una bandiera (essi che in vita non ne seguirono mai una), mentre sono soggetti a una stimolazione fisica delle punture di mosconi e vespe (loro che in vita non vollero cedere ad alcuno stimolo, né nel bene né nel male). Il sangue, mischiato a lacrime, riga il volto di questi condannati, che poi è raccolto dai vermi (che sono il contrappasso della viltà). Tra essi Dante vede e riconosce l’anima “di colui che fece per viltade il gran rifiuto”. La maggior parte dei commentatori ritengono che si tratti di Pietro di Morrone. Nato a Isernia nel 1215, sentì profondamente la vocazione eremitica esi ritirò sul monte Morrone e sul massiccio della Maiella, in Abruzzo. Grazie alla creazione di un ordine religioso (i Frati Celestiniani) e attraverso la sua austera ed esemplare esistenza in una grotta della Maiella, ma soprattutto per il compimento di numerosi miracoli, era considerato un santo. Alla morte di papa Nicolò IV (4 aprile 1292), dopo due anni di inutili discussioni ed altrettanti conclavi, il 5 luglio 1294 ci fu la tanto attesa fumata bianca: Pietro di Morrone era il nuovo Papa, col nome di Celestino V. L’incoronazione con la tiara papale avvenne però a L’Aquila il 29 agosto dello stesso anno, davanti a una leggendaria moltitudine di fedeli accorsi da tutta l’Europa, tra i quali anche il giovane Dante Alighieri. Lo spirito ingenuo del Papa eremita mal si conciliava con quello della Curia romana, corrotta e litigiosa. Riservato e privo della sufficiente energia, Celestino V si trovò al centro di aspre contese senza riuscire a dominarle. Sempre più spesso arrivò a meditare l’idea di rinunciare al pontificato e finalmente indisse un Concistoro per il 13 dicembre 1294, durante il quale annunciò il suo atto di rinuncia, dopo soli cinque mesi di pontificato. Al suo posto fu eletto papa il cardinale Benedetto Cajetani, di Anagni (FR), che prese il nome di Bonifacio VIII. Quest’ultimo considerò l’esistenza di Pietro di Morrone una minaccia per il suo stesso pontificato; perciò lo fece rinchiudere nel castello di Fumone (FR), dove il 19 maggio 1296 moriva dopo dieci mesi di prigionia. Nel 1327 i Monaci Celestiniani riuscirono a portare la salma di Pietro di Morrone aL’Aquila, all’interno della Basilica di santa Maria di Collemaggio, dove tuttora si trova.


(70-136)
E poi ch’a riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d’un gran fiume;
per ch’io dissi: «Maestro, or mi concedi
ch’i’ sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer sì pronte,
com’ i’ discerno per lo fioco lume».
Ed elli a me: «Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d’Acheronte».
Allor conli occhi vergognosi e bassi,
temendo no ‘l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi trassi.
Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: «Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno permenarvi a l’altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e ‘n gelo.
E tu che se’ costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti».
Ma poi che vide ch’io non mi partiva,
disse: «Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti».
E ‘l duca lui: «Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che ‘ntorno a li occhi avea di fiamme rote.
Ma quell’ anime, ch’eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che ‘nteser le parole crude.
Bestemmiavano Dio e lor parenti,
l’umana spezie e ‘l loco e ‘l tempo e ‘l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.
Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
ch’attende ciascun uom che Dio non teme.
Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia.
Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso de l’altra, finche ‘l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie,
similemente il mal seme d’Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.
Così sen vanno su per l’onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera s’auna.
«Figliuol mio», disse ‘l maestro cortese,
«quelli che muoion ne l’ira di Dio
tutti convegnon qui d’ogne paese;
e pronti sono a trapassar lo rio,
ché la divina giustizia li sprona,
sì che la tema si volve in disio.
Quinci non passa mai anima buona;
e però, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che ‘l suo dir suona».
Finito questo, la buia campagna
tremò sì forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.
La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;
e caddi come l’uom cui sonno piglia.
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Quindi Dante nota, poco più oltre, la presenza di un fiume. Si tratta dell’Acheronte, che circonda interamente il primo cerchio. Le anime dei dannati che giungono all’Inferno devono oltrepassare questo fiume nella barca di Caronte, che è un demone pagano che ha il compito di traghettare le anime dei dannati. Costui, accorgendosi che Dante è ancora in vita, si rifiuta di traghettarlo, ma Virgilio gli spiega che il suo discepolo attraverserà ugualmente il fiume, perché questo è il volere divino. All’improvviso un terremoto scuote la terra e lo segue un lampo; Dante perde i sensi e, misteriosamente, varca il fiume infernale.
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