AMINTA TORQUATO TASSO

AMINTA TORQUATO TASSO

Michele Pretti AMINTA Torquato Tasso


L’Aminta, scritta da Torquato Tasso nel 1573 e pubblicata nel 1580 circa, è un dramma pastorale diviso in cinque atti disuguali, preceduti da un prologo e intervallati da cori.

L’azione si sviluppa in una giornata e in uno stesso luogo, una selva.

Il tema principale è l’amore tra la ninfa Silvia e il pastore Aminta, del quale si innamora solamente dopo essere stata salvata dall’attacco dei satiri.

La novità è l’introduzione della vittoria dell’amore e il raggiungimento della felicità a seguito di numerosi amori straziati e tormentati.

Questo è il coro conclusivo del primo atto dell’opera: la lirica d’amore è unita al teatro.

 Il coro ha il ruolo di tramite tra i personaggi e il pubblico ed è quindi una voce intermedia che  trasferisce la ricezione del destinatario, la corte. Il coro indirizza il pubblico a determinate reazioni ;

Questa canzone è il primo intervento del coro e allo stesso tempo è anche un omaggio alla cultura greca e latina; il coro esalta l’amore istintivo e la legge della natura e si ispira all’età dell’oro tanto decantata dai poeti Virgilio e Ovidio nella quale l’uomo segue gli istinti e vive nella felicità primitiva poichè non è vincolato da alcun tipo di legge morale e d’onore.

O BELLA ETÀ DELL’ORO

CORO ATTO I

O bella età de l’oro,
non già perché di latte
se ‘n corse il fiume e stillò mele il bosco: [1]
non perché i frutti loro
dier da l’aratro intatte
le terre e gli angui errâr senz’ira o tosco:
non perché nuvol fosco
non spiegò allor suo velo,
ma in primavera eterna,
ch’ora s’accende e verna,[2]
rise di luce e di sereno il cielo;
né portò peregrino
o guerra o merce a gli altrui lidi il pino.

Ma sol perché quel vano
nome senza soggetto,
quell’idolo d’errori, idol d’inganno,
quel che da ‘l volgo insano
Onor poscia fu detto,
che di nostra natura il feo tiranno,
non mischiava il suo affanno
fra le liete dolcezze
de l’amoroso gregge;
né fu sua dura legge
nota a quel’alme in libertate avezze,
ma legge aurea e felice
che Natura scolpì: S’ei piace, ei lice.

Allor tra fiori e linfe[3]
traean dolci carole[4]
gli Amoretti senz’archi e senza faci;
sedean pastori e ninfe
meschiando a le parole
vezzi e sussurri ed a i susurri i baci
strettamente tenaci;
la verginella ignude
scopria sue fresche rose[5]
ch’or tien ne ‘l velo ascose,
e le poma de ‘l seno acerbe e crude;[6]
e spesso in fonte o in lago
scherzar si vide con l’amata il vago.[7]

Tu prima, Onor, velasti
la fonte de i diletti,
negando l’onde a l’amorosa sete:
tu a’ begli occhi insegnati
di starne in sé ristretti,[8]
e tener lor bellezze altrui secrete:
tu raccogliesti in rete[9]
le chiome a l’aura sparte:
tu i dolci atti lascivi
festi ritrosi e schivi,
a i detti il fren ponesti, a i passi l’arte;
opra è tua sola, o Onore,
che furto sia quel che fu don d’Amore.

E son tuoi fatti egregi
le pene e i pianti nostri.
Ma tu, d’Amore e di Natura donno,[10]
tu domator de’ regi,
che fai tra questi chiostri[11]
che la grandezza tua capir non ponno?[12]
Vattene e turba il sonno
a gl’illustri e potenti:
noi qui negletta e bassa
turba, senza te lassa
viver ne l’uso de l’antiche genti.

Amiam, ché non ha tregua
con gli anni umana vita e si dilegua.
Amiam, ché ‘l Sol si muore e poi rinasce:
a noi sua breve luce
s’asconde, e ‘l sonno eterna notte adduce.[13]

Il coro è formato da cinque stanze di settenari e di endecasillabi, alternati con lo schema abCabCcdeeDfF, e da un congedo XyY.

Lo schema metrico adottato da Tasso richiama alla mente quello di Petrarca in ” chiare, fresche et dolci acque”.

Vi sono parole chiave (” Amore”) e personificazioni (“Natura” “Onore” scritte con la lettera maiuscola).

Nel brano Tasso rimprovera il periodo storico vincolato dagli obblighi morali e dall’onore e ricorda con nostalgia e rimpianto l’età dell’oro, alla quale è particolarmente legato e non ha ancora abbandonato.

 AMINTA E TIRSI

Il dialogo tra Aminta e Tirsi è lo specchio della costruzione della favola, infatti sono questi due pastori legati da amicizia a raccontare i fatti.

Il linguaggio è lirico, composto da confessioni e analisi di stato d’animo.

Alcune cose rappresentabili come il gioco del “segreto” sono raccontate senza alcun tipo di difficoltà.

La vicenda è rappresentata al passato e descritta con gli occhi di colui che la ha vissuta.

Il linguaggio è il medesimo della poesia lirica  ed è costituito da richiami alla tradizione e memorie provenienti da fonti diverse.

Il testo è composto da endecasillabi e settenari alternati a piacere, senza schema.

Essendo io fanciulletto, sì che a pena
giunger potea con la man pargoletta
a côrre i frutti da i piegati rami[14]
de gli arboscelli, intrinseco divenni[15]
de la più vaga e cara verginella
che mai spiegasse al vento chioma d’oro.
La figliuola conosci di Cidippe
e di Montan, ricchissimo d’armenti,
Silvia onor de le selve, ardor de l’alme?
Di questa parlo, ahi lasso! Vissi a questa
così unito alcun tempo che fra due
tortorelle più fida compagnia
non sarà mai né fue.
Congiunti eran gli alberghi,[16]
ma più congiunti i cori:
conforme era l’etate,
ma ‘l pensier più conforme:
seco tendeva insidie con le reti
a i pesci ed a gli augelli, e seguitava[17]
i cervi seco e le veloci damme:[18]
e ‘l diletto e la preda era commune.
Ma mentre io fea rapina d’animali,
fui, non so come, a me stesso rapito.[19]
A poco a poco nacque ne ‘l mio petto,
non so da qual radice,
com’erba suol che per se stessa germini,[20]
un incognito affetto,
che mi fea desiare
d’esser sempre presente
a la mia bella Silvia;
e bevea da’ suoi lumi[21]
un’estranea dolcezza
che lasciava nel fine
un non so che d’amaro:
sospirava sovente, e non sapeva[22]
la cagion de’ sospiri.
Così fui prima amante ch’intendessi
che cosa fosse amore.
Ben me n’accorsi al fin: ed in qual modo,
ora m’ascolta e nota.

È da notare.

A l’ombra d’un bel faggio Silvia e Filli
sedean un giorno ed io con loro insieme,
quando un’ape ingegnosa che cogliendo[23]
se ‘n giva il mèl per que’ prati fioriti,[24]
a le guance di Fillide volando,
a le guance vermiglie come rosa,
le morse e le rimorse avidamente:
ch’a la similitudine ingannata
forse un fior le credette. Allora Filli
cominciò lamentarsi, impaziente
de l’acuta puntura:
ma la mia bella Silvia disse: “Taci,
taci, non ti lagnar, Filli: perch’io
con parole d’incanti leverotti
il dolor de la picciola ferita.
A me insegnò già questo secreto
la saggia Aresia, e n’ebbe per mercede
quel mio corno d’avolio ornato d’oro”.[25]
Così dicendo, avvicinò le labbra
de la sua bella e dolcissima bocca
a la guancia rimorsa, e con soave[26]
susurro mormorò non so che versi.
Oh mirabili effetti! sentì tosto
cessar la doglia: o fosse la virtute[27]
di que’ magici detti o, com’io credo,
la virtù de la bocca
che sana ciò che tocca.
Io che sino a quel punto altro non volsi
che ‘l soave splendor de gli occhi belli,
e le dolci parole, assai più dolci
che ‘l mormorar d’un lento fiumicello
che rompa ‘l corso fra minuti sassi
o che ‘l garrir de l’aura in fra le frondi,
allor sentii ne ‘l cor novo desire
d’appressare a la sua questa mia bocca:
e fatto, non so come, astuto e scaltro
più che l’usato (guarda quanto Amore
aguzza l’intelletto!), mi sovvenne
d’un inganno gentile co’l qual io
recar potessi a fine il mio talento;
ché fingendo ch’un’ape avesse morso
il mio labro di sotto, incominciai
a lamentarmi di cotal maniera
che quella medicina che la lingua
non richiedeva il volto richiedeva.
La semplicetta Silvia,[28]
pietosa del mio male,
s’offrì di dar aita
a la finta ferita, ahi lasso!, e fece
più cupa e più mortale
la mia piaga verace,[29]
quando le labra sue
giunse a le labra mie.
Né l’api d’alcun fiore
còglion sì dolce il mel ch’allora io colsi
da quelle fresche rose;[30]
se ben gli ardenti baci
che spingeva il desire a inumidirsi,
raffrenò la temenza
e la vergogna, o felli
più lenti e meno audaci.
Ma mentre al cor scendeva
quella dolcezza mista
d’un secreto veleno,
tal diletto n’avea
che, fingendo ch’ancor non mi passasse
il dolor di quel morso,
fei sì ch’ella più volte
vi replicò l’incanto.
Da indi in qua andò in guisa crescendo
il desire e l’affanno impaziente
che non potendo più capir ne ‘l petto,
fu forza che scoppiasse: ed una volta
che in cerchio sedevam ninfe e pastori
e facevamo alcuni nostri giuochi,
che ciascun ne l’orecchio del vicino
mormorando diceva un suo secreto,[31]
“Silvia, – le dissi – io per te ardo, e certo
morrò, se non m’aiti”. A quel parlare[32]
chinò ella il bel volto e fuor le venne
un improvviso insolito rossore
che diede segno di vergogna e d’ira:
né ebbi altra risposta che un silenzio,
un silenzio turbato e pien di dure
minaccie. Indi si tolse e più non volle
né vedermi né udirmi. E già tre volte
ha il nudo mietitor tronche le spighe
ed altre tante il verno ha scosso i boschi
de le lor verdi chiome: ed ogni cosa
tentata ho per placarla, fuor che morte.
Mi resta sol che per placarla io mora:
e morrò volentier, pu ch’io sia certo
ch’ella o se ne compiaccia o se ne doglia;
né so di tai due cose qual più brami.
Ben fôra la pietà premio maggiore[33]
a la mia fede e maggior ricompensa
a la mia morte, ma bramar non deggio[34]
cosa che turbi il bel lume sereno
a gli occhi cari e affanni quel bel petto.

TORQUATO TASSO

Torquato Tasso, uomo di origini nobili e dotte,  nacque a Sorrento l’11 marzo 1544 e durante la sua infanzia si trasferì in Sicilia, a Napoli e a Venezia.

Tra il 1560 e 1565 studiò a Padova e Bologna e proprio in quel periodo, 1562, pubblicò il suo primo poema epico cavalleresco, “Rinaldo”, che ha per protagonista il cugino di Orlando, nel quale inserì versi dedicati alle sue amate. Negli anni Settanta a Ferrara visse il periodo di massimo splendore durante il quale fu apprezzato da dame e da gentiluomini; nel 1573 scrisse l’Aminta.

In seguito ad alcuni suoi scritti si sottopose egli stesso alla prova dell’Inquisizione al fine di mettere a tacere alcune voci e critiche moraliste che ormai per Tasso erano diventate vere e proprie manie di persecuzione; un giorno sentendosi perseguitato da un servo gli scagliò contro un coltello.

Alle manie di persecuzione si aggiunsero tendenze autopunitive, ciononostante continuò a scrivere e nel 1581 pubblicò la Gerusalemme liberata.

Nel frattempo fu rinchiuso più volte a causa della sua follia e nel 1586 fu liberato.

Le critiche al suo testo proseguirono anche negli anni successivi e il suo stato mentale si aggravò.

Nel 1595 morì a Roma.

[1]    Stillò: trasudava

[2]    S’accende: caldo estivo Verna: freddo dell’inverno

[3]    Linfe: acque

[4]    Traean…faci: gli Amorini facevano danze senza gli strumenti per l’innamoramento, poichè l’amore nasceva spontaneo

[5]    Rose: bellezze delle fanciulle

[6]    Le poma…crude: seni ancora acerbi ( metafora)

[7]    Il vago: l’amante

[8]    In sé ristretti: abbassati

[9]    tu raccogliesti… sparte: tu raccogliesti in acconciature i capelli sparsi al vento (cfr. Canz., XC, Erano i capei d’oro a l’aura sparsi).

[10]  Donno: signore

[11]  Chiostri: selve

[12]  Capir non ponno: non possono contenere

[13]  Adduce: porta

[14]  L’immagine del fanciullo è ripresa da Virgilio (Buc., VII; 37-40)

[15]  Intrinseco: compagno

[16]  Congiunti…alberghi: trascorrevamo la giornata negli stessi luoghi

[17]  Seguitava: ineguivo

[18]  Damme: daine

[19]  Rapina…rapito: uso metaforico che deriva dal codice petrarchesco

[20]  Com’erba…germini:  l’erba che nasce da sola

[21]  Lumi: occhi richiamo al passo di Virgilio di Didone che ascoltando Enea non capisce di bere amore

[22]  Sospirava sovente…de’ sospiri: lessico amoroso per eccellenza

[23]  Ingegnosa: abile, capace

[24]  Se’ n giva: se ne andava

[25]  Avolio: avorio

[26]  Rimorsa: che era stata punta

[27]  Virtute: potenza

[28]  Semplicetta: sempliciotta

[29]  La mia piaga verace: la piaga d’amore

[30]  Fresche rose: le labbra di Silvia

[31]  Secreto: gioco del segreto tipico del periodo; si sussurra una cosa e la dama risponde ad alta voce; dalla risposta bisogna indovinare la domanda

[32]  M’aiti: mi aiuti

[33]  Ben…fede: la pietà sarebbe un premio maggiore per la dedizione

[34]  Bramar non deggio: non devo desiderare

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