VITTORIO ALFIERI BIOGRAFIA

VITTORIO ALFIERI BIOGRAFIA

VITTORIO ALFIERI BIOGRAFIA


Biografia

Nasce ad Asti nel 1749 da genitori nobili. A nove anni, orfano di padre (la madre si è risposata), entra all’Accademia Militare di Torino per uscirne, dopo otto anni che egli stesso definì di “diseducazione”, con la qualifica di “Portainsegna del reggimento di Asti”.

Si stanca ben presto del pur non troppo faticoso servizio militare e, chiesta licenza al suo re, si mette in viaggio e visita per sei anni buona parte dell’Europa, sempre inquieto e scontento, malinconico e tragico nelle sue aspirazioni in molti casi velleitarie (non aveva profonde conoscenze culturali, né possedeva ancora forza espressiva e linguistica adatta a far poesia come egli avrebbe voluto), non riuscendo a fermarsi a lungo in nessun luogo.

Oltre a molte città italiane, tra le quali predilige Firenze, Pisa e Siena, visita la Francia, l’Inghilterra (che dimostra di amare molto), i Paesi Bassi, la Germania, l’Austria, la Danimarca, la Svezia, la Russia, la Spagna e il Portogallo.

Un certo conforto alle sue inquietudini lo trova solo nelle selve desolate e desertiche della Penisola Scandinava o dell’Aragona in Spagna, dove scenari naturali di per sé tragici, terribili ed assoluti, si armonizzano bene all’inquietudine preromantica, o protoromantica, del suo animo.

Tornato a Torino si dà alla vita mondana, viziosa e priva di ordine, cominciando però a comporre alcuni scritti in francese che, essendo lui di Asti (“Allobrogo”, lo appella il Parini nell’ode Il dono, alludendo alle sue origini galliche), era la lingua che conosceva meglio, più ancora dell’italiano che infatti cercherà di conoscere meglio frequentando la Toscana.

Nel 1755 dà alle scene la sua prima tragedia, Cleopatra (o “Cleopatraccia”, come la definisce lui stesso nella sua autobiografia), seguita da una farsa, I poeti. La recita ottiene accoglienza favorevole ma lo stesso Alfieri ne vieterà la rappresentazione dopo la terza sera perché non ritiene di meritare un tale successo e perché è convinto di riuscire a fare molto meglio, anzi, di avere il preciso dovere di fare meglio.

La vicenda di Cleopatra ed Antonio, nella tragedia, è cucita con ansia e trasporto su una storia sentimentale autobiografica vissuta dallo stesso poeta con una ragazza che, a suo dire, ne impoverisce la capacità compositiva e che sostanzialmente ostacola, per mezzo di una passione insana e travolgente, il sacro cammino dell’artista nello svolgimento della sua missione.

Alfieri, come detto consapevole della propria impreparazione tecnica e linguistica, per diventare compiutamente poeta quale sente di dover essere, si dedica ad uno studio paziente, intenso, costante e metodico della grammatica e della letteratura italiana e latina, onde ovviare alle profonde lacune che gli erano state lasciate da un corso di studi da lui giudicato del tutto insoddisfacente: “asino tra gli asini e sotto un asino”, come definiva la sua partecipazione alla scuola dell’Accademia Militare di Torino. Si reca quindi a vivere per un lungo periodo in Toscana allo scopo di migliorare i propri mezzi di espressione.

Intanto compone con entusiasmo le sue prima tragedia importanti. Continua tuttavia a viaggiare anche in quegli anni laboriosi che vanno dal 1775 al 1790, e per essere più libero delle proprie azioni e nei propri spostamenti, fa dono alla sorella di tutto ciò che possiede (la sua parte della  grande ricchezza nobiliare della famiglia Alfieri) in cambio di una rendita annua vitalizia che gli permetta di vivere senza troppe preoccupazioni.

Nel 1785, per seguire la donna che ama già da alcuni anni, la contessa d’Albany, Luisa Stolberg, sposata a Carlo Edoardo Stuart, pretendente al trono d’Inghilterra e più tardi rimasta di lui vedova, si reca in Alsazia e poi a Parigi, da dove fugge nel 1792 quando la rivoluzione francese, che dapprima lo aveva entusiasmato, lo disgusta e lo impaurisce.

Vive gli ultimi anni della sua vita a Firenze, dedicandosi fra l’altro, da solo e con successo, allo studio della lingua greca. Compone in quegli ultimi anni anche altre opere, fra le quali La Vita, che aveva già cominciato a scrivere a Parigi.

Si spegne nel 1803 e viene sepolto in Santa Croce, dove un monumento commissionato dalla contessa d’Albany ad Antonio Canova, splendido scultore del Neoclassicismo, si innalza sulla sua tomba.

Le opere politiche

L’Alfieri, perennemente agitato da un desiderio prepotente di libertà (teorizzò infatti l’immagine del “liberuomo”, di cui era lui stesso rappresentazione, nella vita e nell’arte), non concretò mai un preciso programma politico, come poteva essere quello del Machiavelli, che pur l’Alfieri aveva letto attentamente ed apprezzato, poiché ogni limite posto alla libertà individuale gli appariva insopportabile e perciò nessun regime avrebbe potuto, in fondo, appagarlo.

Egli era contro la tirannide, intesa come qualunque forma di potere; riteneva che un preciso dovere dell’”eroe”, ovvero del “liberuomo”, ma diciamo anche meglio dell’artista in generale, dovesse essere quello di combattere ed abbattere una qualsivoglia espressione del potere. Alfieri riteneva bensì che i tiranni esistono perché la maggior parte degli uomini (la “plebe”) è contenta di vivere in condizioni di schiavitù e appoggia colpevolmente la tirannide; d’altra parte si comporta similmente anche quella che Alfieri definiva la “sesquiplebe”, ovvero la classe media, i borghesi, i quali, tutti compresi nella difesa dei propri affari e dei propri interessi (“il mercato obeso”), sono sempre pronti ad affidarsi al tiranno che dà loro maggiori garanzie diventandone ugualmente schiavi, al pari della plebe.

In tale visione del mondo politico, il ruolo dell’artista è fondamentale e riassume le caratteristiche che la tradizione classica ci ha restituito come “eroiche”: l’artista deve essere pronto ad uccidere il tiranno e, non potendolo fare, ad uccidere se stesso. Evidenti gli elementi definiti di “protoromanticismo” in questo rapporto tra il potere e la cultura. Resta da specificare comunque che Alfieri, in politica, ebbe chiari i lineamenti della sua “pars destruens” (cosa bisogna fare, e perché, per abbattere la tirannide) ma si rivelava estremamente fumoso e approssimativo nella sua “pars costruens”. Ovvero: abbattuta la tirannide, che si fa? Ecco, egli non esprime mai un’idea precisa in proposito. Non parla di democrazia, né di popolo, si dimostra disgustato dal governo rivoluzionario francese alla caduta della monarchia, insomma non traccia linee programmatiche per la riorganizzazione delle dinamiche sociali e civili a seguito dell’abbattimento della tirannide. Questo perché il suo è un discorso fondamentalmente artistico; anche la tirannide di cui parla, nonostante, soprattutto nelle tragedie, si rifaccia ad esempi concreti della storia (bliblica, greca, romana,  longobarda, medicea), sembra sempre più un simbolo valido per lo scandaglio interiore ed esistenziale del poeta che non una presa di posizione lucida, quale poteva essere quella dei filosofi illuministi (dei quali Alfieri non sposa in assoluto alcuna teoria).

Anche nei trattati principali, in cui questa sua esigenza di libertà si fa pressante e viene definita in qualche maniera teorica, restano molto vaghi sulle alternative al potere che schiaccia la libertà: in Della tirannide, trattato del 1770, dimostra quanto siano dannosi i regimi assoluti; nel Del Principe e delle lettere, del 1786, esalta l’ufficio dello scrittore in particolare, e dell’artista in generale, che dovrebbe rifiutare ogni protezione principesca per conservare gelosamente la propria indipendenza. Alfieri è fermamente e fieramente avverso al “mecenatismo”. In questo possiamo dire che spalanca una finestra completamente nuova e, nonostante i limiti della sua produzione e della sua visione artistico-politica, davvero salutare sul panorama della letteratura italiana. Non dimentichiamo infatti quanto ancora fosse presente la tendenza secolare della letteratura di corte in Italia e che anche durante l’Illuminismo aveva dato i suoi frutti (scadenti) presso sovrani riformisti ed illuminati, pur attenti ai dettami della nuova filosofia. Ebbene, Alfieri non faceva alcuna distinzione: per lui il potere era potere e basta e andava combattuto dai poeti anche quando si presentava nelle forme più accomodanti, ammalianti, paternalistiche o concilianti, aperte e progressiste.

Infatti Alfieri, dopo aver letto un testo encomiastico che Plinio aveva dedicato all’imperatore Traiano ed essersene indignato, scrive il Panegirico di Plinio a Traiano facendo parlare lo storico ed intellettuale latino come, secondo lui, avrebbe dovuto, cioè consigliando all’imperatore di ristabilire le libertà repubblicane, non esaltandone l’operato (come lo scrittore lombardo del I secolo fece) di sovrano assoluto.

La Vita

In questa autobiografia l’Alfieri si propone soprattutto di mostrare quale aspro itinerario egli abbia dovuto percorrere per giungere alla meta sospirata: la composizione delle sue tragedie. A tal fine esagera l’ignoranza dei suoi anni giovanili per meglio porre in rilievo lo sforzo da lui compiuto al fine di procurarsi un’adeguata preparazione culturale, tecnica e compositiva.

Sono molto interessanti le pagine in cui descrive il metodo da lui utilizzato nella stesura delle tragedie, che possiamo sintetizzare così: tutto parte da una forte emozione, scaturita dalla lettura di un brano biblico o da un episodio mitologico o storico; successivamente Alfieri stende qualche appunto sullo sviluppo che vorrebbe dare alla tragedia per mettere in evidenza il tema o l’idea di fondo; quindi scrive il soggetto, con relativi dialoghi, in prosa; infine mette in versi quanto ha precedentemente scritto.

In tutto il libro la figura del protagonista si innalza, circondata di eroismo, sul mondo circostante. Una prosa scabra ed incisiva, come era tipico della scrittura e del temperamento di Alfieri, dà alla narrazione unità ed efficacia.

Le opere minori

Nelle Rime (prevalentemente sonetti ed alcune canzoni, per un totale di circa quattrocento componimenti tra cui compaiono anche poemetti, prose liriche e satire in terza rima) l’Alfieri esprime, talora con pieno abbandono fantastico, i propri sentimenti, imitando il Petrarca ma senza la levità del predecessore e, soprattutto, senza rinunciare ad una propria personalità sui temi dominanti dell’amore e della malinconia. Niente a che vedere, dunque, con la pattuglia di imitatori petrarcheschi che, nei secoli precedenti e ancora alla fine del Settecento, ingolfavano le stamperie italiane (e non solo); Alfieri non frequenta un petrarchismo “di maniera”, anticipando invece molti dei temi e della sensibilità che troveranno compiutamente sfogo nella stagione romantica successiva, sia per quanto riguarda l’espressione lirica del sentimento e dei tormenti interiori, sia per quanto riguarda una visione molto soggettiva della storia e della sua interpretazione strumentale.

In un poemetto in ottave, l’Etruria vendicata, opera beninteso di scarso valore, egli esalta l’uccisione di Alessandro De Medici compiuta dal cugino Lorenzino. Le reminiscenze machiavelliane sono forti ma gli esiti, e il senso del messaggio, decisamente differenti.

Nel Misogallo, che significa “odio contro la Gallia”, cioè la Francia, del 1789, si scaglia con prose, sonetti ed epigrammi contro la Francia rivoluzionaria, facendo polemica piuttosto che poesia.

Nelle Satire, che sono 17, esprime spesso con efficacia l’avversione e le ire suscitate in lui da costumi, usanze e istituzioni del suo tempo, non risparmiando le mode frivole, la decadenza del’istituto della famiglia e il comportamento delle donne.

Negli ultimi anni della sua vita compone in endecasillabi sciolti quattro commedie di matrice aristofanesca, e quindi di argomento politico: L’uno, I pochi, I troppi, L’antidoto, nelle quali satireggia ancora una volta il governo assoluto e tirannico nella prima, l’oligarchia nella seconda, la democrazia nella terza e una vaga forma di monarchia costituzionale nella quarta, in cui sembra lasciare intendere il male minore anche se, ad onta del titolo che lascerebbe pensare il contrario, non dà modo di vedere con chiarezza se egli credesse davvero in quella forma di governo.

In altre due commedie, La finestrina e Il divorzio, si erge a censore di costumi, mostrando con disgusto le recondite passioni degli uomini e la corruzione contemporanea dell’istituzione familiare. Se il tema della seconda di queste commedie è facilmente comprensibile già dal titolo, e riguarda un tema di stringente attualità ancor oggi, la prima va invece spiegata: gli dei decidono di agevolare il lavoro dei giudici aprendo una “finestrina”, appunto, nell’animo degli uomini allo scopo di poterci guardare dentro con chiarezza e fare giustizia con maggior precisione. Il problema è che, da quella “finestrina”, saltano fuori tante e tali nefandezze dell’animo umano che gli dei decidono significativamente di tornare a chiuderla per evitare guai peggiori. Anche il tributo al Machiavelli commediografo, oltre che scrittore politico, emerge con chiarezza da queste opere.

Le tragedie

Con le sue tragedie l’Alfieri si propone di conseguire uno scopo educativo: far nascere negli uomini l’odio per la tirannide e il conseguente amore per la libertà; perciò esse di solito rappresentano un conflitto chiaro tra un tiranno ed una o più vittime le quali, anche con la loro sconfitta (che è sempre ineluttabile), dimostrano la violenza dell’oppressore.

Le tragedie di Alfieri sono rapide, prive di episodi troppo elaborati e di episodi secondari, cioè vanno subito al sodo. Nella maggior parte dei casi ruotano intorno a tre nomi fondamentali e non esistono messaggeri o confidenti, come nella tradizione classica. Cominciano quando già il conflitto tra i personaggi è giunto alla sua fase più acuta, cosicché l’azione, distinta in 5 atti (che hanno caratteristiche di fondo comuni in tutte le tragedie e rispettano un’architettura rigorosa e ripetitiva) dei quali il quarto breve ed il quinto brevissimo, precipita rovinosamente e in fretta verso la cosiddetta “catastrofe”, cioè lo sviluppo della “catarsi” delle tragedie greche, il momento in cui il dramma si risolve.

In ciascuna di queste tragedie l’autore, allorché un personaggio o un episodio della storia suscita la sua commozione, butta giù uno schema improvvisato sulla spinta della prima ispirazione, poi scrive in prosa tutto il soggetto con i dialoghi già riferiti ai personaggi e infine mette lo scritto in versi endecasillabi sciolti, eliminando implacabilmente tutto ciò che gli sembra superfluo e privo di tensione lirico-drammatica o di emozione forte.

Gli argomenti delle tragedie alfieriane, che sono 19, sono tratti prevalentemente dalla storia greca e romana, anche se non mancano le eccezioni mitologiche, bibliche, di storia medievale (che influenzeranno il Manzoni dell’Adelchi) e rinascimentale (le storie fiorentine all’epoca dei Medici). I titoli delle tragedie riferite alla storia greca e romana sono: Agamennone, Agide, Antigone, Merope, Mirra, Oreste, Polinice, Timoleone, Bruto Primo, Bruto Secondo, Ottavia, Sofonisba, Virginia. I titoli delle tragedie riferite alla storia medievale e moderna sono: Rosmunda, La congiura de’ Pazzi, Don Garzia, Filippo, Maria Stuarda. Il titolo dell’unica tragedia riferita compiutamente ad una storia biblica è Saul.

I personaggi sono sempre figure illustri, agitate da forti passioni a cui l’autore partecipa vivamente con intento educativo. Non di rado l’Alfieri si rivela in queste opere eloquente oratore ed efficace sostenitore del proprio ideale morale, piuttosto che autentico poeta. Non mancano tuttavia pagine di poesia schietta, quando egli riesce ad intuire certi segreti moti spirituali e ad esprimerli con parole semplici ed efficaci.

La più complessa tragedia dell’Alfieri è il Saul (“Saulle”, come lo definisce lui nella Vita), in cui l’angoscia del vecchio re abbandonato da Dio, in preda ai fantasmi che l’anima sua stessa, collerica e gelosa, gli crea, è mirabilmente rappresentata.

Nel Saul e nella Mirra, altra tragedia di rilievo, il tiranno e l’eroe, solitamente contrapposti e rappresentati da due personaggi diversi, convivono nello stesso protagonista con effetti di sondaggio psicologico notevoli e di fecondo contrasto spirituale.

L’Alfieri, nel suo intento di insegnare la libertà in senso assoluto e privo di compromessi, afferma per primo quel concetto di “poeta-vate” moderno che verrà poi ripreso da Foscolo e Manzoni fino al Carducci e al D’Annunzio, ma non dobbiamo dimenticare quanto della suggestione lirica alfieriana sussista nella poesia di Leopardi. Quindi Alfieri è a buon diritto considerato, ad onta dei tanti limiti della sua produzione poetica effettiva, un netto anticipatore dei temi più brillanti che tutto l’Ottocento letterario italiano, e in particolare quello romantico, saprà esprimere.


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