VITA E OPERE DI PASCOLI

VITA E OPERE DI PASCOLI

VITA E OPERE DI PASCOLI


GIOVANNI PASCOLI

Poeta italiano (San Mauro di Romagna, od. San Mauro Pascoli, Forlì, 1855 – Bologna 1912). Figlio quartogenito di Ruggero, fattore della tenuta della Torre, di proprietà dei principi Torlonia, dopo avere trascorso l’infanzia nella casa paterna, nel 1862 venne collocato a Urbino nel collegio Raffaello tenuto dagli scolopi. Il 10 agosto 1867 il padre, mentre tornava dal mercato di Cesena, rimase ucciso da una fucilata sparata a bruciapelo da un ignoto, e fu quello il primo di una lunga serie di lutti che funestarono l’adolescenza del poeta. Lasciata la tenuta della Torre, la famiglia si stabilì a San Mauro, e nel volgere di un anno morirono la sorella Margherita e la madre, e nel 1871 il fratello Luigi. Giovanni stette ancora nel collegio di Urbino sino al 1871; frequentò la seconda liceale a Rimini e la terza a Firenze, conseguendo la maturità classica a Cesena. Essendosi classificato primo tra i concorrenti a sei borse di studio messe a bando dall’università di Bologna (tra i professori che lo esaminarono c’era il Carducci, e il Pascoli narrò poi quell’incontro memorabile nella prosa Ricordi di un vecchio scolaro), poté iscriversi ai corsi di lettere. Moriva di lì a poco il fratello maggiore Giacomo che, molto confidando nel suo ingegno, lo aveva aiutato. Il poeta, che in quegli anni strinse amicizia con Andrea Costa e aderì al socialismo, tanto s’infervorò dell’azione rivoluzionaria da venire incarcerato (7 settembre – 22 dicembre 1879). Quando uscì di prigione la sua passione politica si era di molto affievolita e, anche per esortazione del Carducci, tornò agli studi e conseguì la laurea nel 1882. Cominciò allora la sua carriera di professore liceale di latino e greco: a Matera prima, quindi a Massa dove ricostituì la famiglia ricongiungendosi con le sorelle Ida e Maria, la prima delle quali di lì a poco si sposò, mentre l’altra gli restò sempre vicina, affettuosa ma anche troppo gelosa custode della sua intimità.


Dal 1887 al 1895 insegnò nel liceo di Livorno, e nel 1895 si sistemò nella casa di Castelvecchio di Barga, presso Lucca, che non molto dopo poté acquistare e che fu poi sempre il suo porto di pace. In quegli anni malinconici e sereni, assorbiti da un lavoro talvolta eccessivo, maturò la maggior parte delle liriche raccolte in Myricae delle quali solo poche sono anteriori al 1886: Il maniero e Rio Salto del 1877, Romagna del 1880. Pubblicate nel 1891, Myricae segnarono l’inizio della sua fortuna di scrittore; in quello stesso anno il Pascoli riportò il primo successo di poeta in latino aggiudicandosi la medaglia d’oro al concorso di Amsterdam con il poemetto Veianus. Nel 1895 passò dall’insegnamento liceale a quello universitario tenendo per due anni l’incarico di grammatica greca e latina a Bologna; dal 1897 al 1902 fu poi nominato titolare di letteratura latina all’università di Messina; dal 1903 al 1905 tenne a Pisa la cattedra di grammatica greca e latina, che lasciò per succedere al Carducci nell’insegnamento della letteratura italiana a Bologna. Nella fase della sua formazione, documentabile attraverso le liriche giovanili raccolte poi nelle Poesie varie (1912), la poesia pascoliana quanto restò lontana dagli influssi del classicismo carducciano altrettanto fu aperta alle suggestioni del tardo Romanticismo. Specialmente la lettura dell’Aleardi e di poeti stranieri lasciò non poche tracce nei versi giovanili, come l’esempio di Severino Ferrari lo portò a tentare metri, temi e linguaggio della poesia popolare. Ma la fase sperimentale era ormai nettamente superata nelle Myricae, che, arricchite di nuovi componimenti nelle varie edizioni sino alla sesta del 1903, furono per la loro inconfondibile originalità un libro fondamentale non soltanto nella carriera del Pascoli ma nella storia della moderna poesia italiana.


Tema dominante delle Myricae è la campagna nei suoi momenti di più trepida malinconia, osservata con occhio attento ai particolari, ma amata soprattutto per quanto in essa si rispecchia della tristezza del poeta. I tocchi descrittivi vi possono essere molto precisi, non solo per condiscendenza al naturalismo trionfante nel secondo Ottocento ma per il presupposto che la poesia sia dentro le cose stesse; eppure la bellezza delle migliori liriche di Myricae consiste non nella fedele riproduzione della natura, bensì nell’alone di stupore che circonda i paesaggi e li fa vibrare in un’atmosfera di sogno. Altro tema fondamentale sono i ricordi autobiografici, con la meditazione sul dolore personale che aspira a farsi riflessione sul dolore di tutte le creature. Qui non è difficile scorgere ambizioni sproporzionate alla più schietta ispirazione del poeta, e vederlo assumere nel suo mondo d’idillio e di sogno accenti messianici che la fragilità delle idee mal riesce a giustificare.

Riconoscendo nelle Myricae la più autentica espressione della poesia pascoliana, non solo si è portati a sottovalutare queste contraddizioni, ma si rinuncia anche a capire come in esse stia qualche cosa di intrinseco, oltre che a tutta la poesia, alla personalità del Pascoli. Tali contraddizioni sono infatti quelle che si osservano anche nelle pagine critiche e negli scritti teorici. Mentre il Pascoli condannò la “poesia applicata” e credette che il canto del poeta sia sempre qualche cosa di prodigiosamente istintivo (e queste idee espose nelle prefazioni scritte per le varie edizioni di Myricae, nel saggio del 1895 Eco di una notte mitica, sulla notte degli imbrogli nei Promessi sposi, accostata per certi particolari alla descrizione della fuga di Enea da Troia del secondo libro dell’Eneide, e soprattutto in quello che resta il documento fondamentale della sua poetica, Il fanciullino, in non pochi dei saggi danteschi (Minerva oscura, 1898; Sotto il velame, 1900; La mirabile visione, 1902) e altrove egli si compiacque di scoprire nella poesia reconditi significati mistici e simbolici e di attribuirle precise finalità morali, in evidente contrasto con quel principio di purezza lirica che aveva teorizzato nel Fanciullino. Giustamente però la critica, anziché insistere su queste debolezze concettuali, si è impegnata soprattutto nello studio della complicata psicologia del poeta, valendosi a tal fine anche dell’epistolario, e nell’analisi del suo linguaggio e del modo nel quale arditamente in esso si incontrano il letterario e il popolare, l’arcaico e il moderno. Nondimeno, sulle numerose raccolte di versi che vennero dopo le Myricae difficilmente potranno mutare i giudizi comunemente accettati. Un posto privilegiato toccherà sempre ai Canti di Castelvecchio, nei quali i temi delle Myricae tornano più rarefatti e in accordi metrici e musicali più altamente suggestivi: alcune delle liriche di questa raccolta — La mia sera, La tessitrice, Il gelsomino notturno, Il ciocco — saranno sempre ammirate tra i capolavori pascoliani. Difficilmente contestabile è pure l’importanza dei Poemetti (1897), sdoppiati poi nei Primi poemetti (1904) e nei Nuovi poemetti (1909), che per l’ampia struttura e per la stessa metrica — la terzina di endecasillabi — più concedono a modi narrativi e drammatici, ma per gli argomenti che trattano e per la sintassi franta, tutta sospensioni, ritorni e riprese improvvise, offrono una delle più schiette testimonianze dell’anima poetica del Pascoli. Maggiore complessità artistica è nei Poemi conviviali (1904) e nei Carmina. La profonda assimilazione della lingua dei poeti greci e la sensibilità romantica con la quale leggende e storie dell’antica Grecia sono rivissute nei Conviviali pongono infatti il lettore di fronte a una poesia suggestiva e di rara raffinatezza. Nei Carmina poi, che raccolgono i vari componimenti poetici latini (una sezione di epigrammi e poesie in metri lirici; i poemetti ispirati dalla storia di Roma antica [Res romanae] e dalla storia letteraria romana [Liber de poetis]; e, in una sezione a sé, i poemetti di argomento cristiano [Poemata christiana]), la poesia latina ritrovava, dopo i secoli dell’Umanesimo, accenti di verità e di modernità che hanno del portentoso. Opera di artista più che di poeta sembrano invece Le canzoni di re Enzio (1909) e, nella maggior parte, i Poemi italici (1911); ma di artificiosità e di infruttuose deviazioni dai centri vitali della sua sensibilità il Pascoli diede soprattutto prova in Odi e Inni (1906) e nei Poemi del Risorgimento, raccolti postumi nel 1913. Chi voglia infine conoscere a fondo il gusto del Pascoli artista e interprete di poesia non dovrà trascurare le sue traduzioni, riunite nel volume delle Traduzioni e riduzioni (1913) e le fortunate antologie scolastiche, le due latine (Lyra, 1895, ed Epos, 1897) e le due italiane (Sul limitare, 1889, e Fior da fiore, 1901), che per la scelta dei brani e per le osservazioni disseminate nelle note costituiscono un documento di prim’ordine della sensibilità estetica del poeta. Nel Novecento la poesia pascoliana è stata sottoposta ad analisi che partendo da punti di vista differenti hanno contribuito a metterne in luce aspetti nuovi e ad accrescerne l’importanza: sotto il profilo linguistico, studiosi che vanno da G. Contini a P. P. Pasolini hanno messo in risalto il carattere sperimentale del linguaggio pascoliano; mentre altri lettori, quali M. Luzi e G. Barberi Squarotti, hanno considerato la poesia di Pascoli alla luce della psicoanalisi e della critica simbolica.


Le poesie

Myricae

È l’opera più famosa del Pascoli. Il titolo, tratto da un verso di Virgìlio, « è posto a significare la modestia e quotidianità degli oggetti prescelti e il prevalente aspetto impressionistico-rurale » (il poeta stesso scrisse: « Sono frulli d’uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare di campane »).

Pubblicato per la prima volta nel 1891 (un’ edizione scarna ed essenziale che presentava appena ventidue poesie), il volume via via si arricchì, sia attraverso il recupero di componimenti giovanili, sia attraverso l’inserimento di componimenti nuovi, sino a comprendere nell’ultima edizione centocinquantasei poesie Vi trovano posto componimenti scritti nell’arco di un ventennio, che risultano perciò legati a situazioni spirituali notevolmente diverse.

Nell’opera, alquanto composita, si possono approssimativamente distinguere tre nuclei:

a) il nucleo delle prime myricae, formato da quadretti, da schizzi campestri o paesistici, che presentano « un rapporto di semplicità e di cordialità col mondo, contemplato con visione ottimistica ».

b) II nucleo delle poesie ispirate direttamente dalla tragedia familiare (è da notare che questo tema non compare nella prima edizione del volume).

c) II nucleo delle ultime myricae, che presentano una visione della vita cupa e dolorosa.


Primi Poemetti. Nuovi Poemetti

I Primi Poemetti furono pubblicati nel 1904, ma erano già apparsi con il titolo Poemetti qualche anno prima; i Nuovi Poemetti furono invece pubblicati nel 1909. I due volumi, formano un dittico, sono costruiti alla stessa maniera e presentano, accanto ad un nucleo principale costituito da un lungo poemetto georgico, altri componimenti di diversa natura e ispirazione.

Nel poemetto georgico sono descritte, insieme, le varie fasi della coltivazione dei campi e la vita di una famiglia contadina con la storia d’amore, semplice e serena, di Rosa e Rigo ,una storia scandita sul ritmo della coltivazione del grano. Quasi a contrasto con l’idillica serenità del mondo agreste, gli altri componimenti sono invece dettati da un unico intento meditativo, che muove da fatti contingenti per sollevarsi a visioni cosmiche: il mistero insondabile dell’universo e la sorte amara e dolorosa dell’umanità (c’è anche il tentativo di sfruttare queste meditazioni per esortare gli uomini ad amarsi come fratelli).

I Primi Poemetti si chiudono con Italy, «epos tragico della nazione che emigra»; i Nuovi Poemetti con Pietole, «epos virgiliano della nazione redenta col ritorno alla terra».


Canti di Castelvecchio

Furono raccolti nel 1903 e dedicati alla madre («E su la tomba di mia madre rimangano questi altri canti!… Canti d’uccelli anche questi »), come le myricae erano state dedicate al padre. Essi dunque, a giudizio dei critici, non solo si collegano alle Myricae, ma «ne sono, per così dire, una continuazione». In verità, i Canti traggono ispirazione da un paesaggio determinato e concreto, che è quello di Barga; ma sviluppano anche, con notevole impegno, il tema della tragedia familiare. Vi si possono perciò approssimativamente distinguere due gruppi di poesie. Il primo gruppo, ispirato al paesaggio ed alla vita di Barga, presenta il più delle volte quadri di paesana quotidianità, disegnati con realistica concretezza (solo in qualche caso quella realtà viene interpretata simbolisticamente); il secondo gruppo, ispirato ai ricordi del poeta, è volto invece a ricostruire nei particolari gli eventi luttuosi della sua famiglia e, nelle prove migliori, descrive un ritorno, nella memoria, al tempo ed ai luoghi della sua fanciullezza.


Odi e Inni

Pubblicato nel 1906, il volume raccoglie liriche già apparse in giornali e riviste e si distingue per la presenza, determinante, di poesie di argomento storico e sociale, ispirate per lo più ad eventi contemporanei altamente significativi. Il Pascoli vi esalta l’eroismo, sia bellico (A Ciapin, Alle batterie siciliane) sia civile (Gli eroi del Sempione, Chavez) e celebra alcuni grandi uomini scomparsi, che hanno dato all’umanità un grande insegnamento civile o politico (La quercia d’Hawarden, Bismarck, A Verdi, Inno secolare a Mazzini). Come ha scritto G. Sozzi, « non mancano però altri motivi, che vanno da quelli strettamente intimi e personali( La piccozza, II sepolcro) a quelli in cui il poeta affronta il problema del dolore umano, del destino insondabile, della morte(II cane notturno, II vecchio}; da quelli in cui dalla contemplazione del male e della morte il poeta si solleva all’affermazione di una suprema legge morale, la legge del dovere, dell’amore (Nel carcere di Ginevra, II negro di Saint Pierre, I1 pope, La porta santa) a quelli in cui la fantasia del poeta è volta a visioni cosmiche, di cui taluna particolarmente ardita nel concepimento (L’aurora boreale, Alla cometa di Hall)” Nel complesso l’opera appare ispirata ai principi del “patriottismo patriottico”, che il Pascoli aveva esposto in discorsi pronunciati a Messina (sono questi principi che egli consentono di invocare il perdono per chi ha ucciso, ma anche la vendetta sugli Abissini vincitori degli Italiani; di esaltare gli eroi del lavoro e dell’ardimento civile e gli eroi dell’ardimento bellico). La maggior parte dei componimenti è perciò di diretta propaganda politica o, almeno, si risolve nella propaganda politica, mentre i componimenti ispirati al problema del dolore umano e del mistero rispondono segretamente all’intento di avvalorare le posizioni ideologiche del poeta.


Poemi conviviali

Raccolti in volume nel 1904 (la seconda edizione definitiva è del 1905), i Poemi conviviali presero il nome dal « Convito », la rivista di Adolfo De Bosis, dove erano stati pubblicati, nel 1895, i primi tre poemetti: Gog e Magog, Alexandros, Solon. Ispirati dal culto per l’antichità classica,furono ordinati in modo da costituire « una specie di storia ideale del mondo antico e dell’antica civiltà dai primordi della vita ellenica alla nascita ed al trionfo del Cristianesimo », e vanno perciò idealmente integrati con i Carmina, nei quali il Pascoli ricostruì gli aspetti fondamentali della civiltà latina, e specialmente con i Poémata christiana, che celebrando la lenta e progressiva penetrazione del Cristianesimo in tutte le classi sociali del mondo romano, ne sono la naturale continuazione. Si tratta tuttavia di una ricostruzione particolare, storicamente esatta in quanto riproduce minuziosamente tutte le peculiarità dei luoghi e dei tempi rappresentati; eppure estremamente libera. Come ha scritto Renato Serra, il Pascoli non è un umanista, « non si ferma sui luoghi consacrati dall’ammirazione dei secoli »; ma « trova in una frase, in una figura, in una immaginazione qualche cosa che attira il suo sguardo, ed eccola nella sua fantasia rifiorire tutta nuova, mito e simbolo e parte viva della sua vita stessa ». Dopo l’illustrazione dei tempi omerici, con i due cicli eroici: il ciclo di Achille e il ciclo di Odisseo, abbiamo quella del tempo di Esiodo con la celebrazione delle piccole quotìdiane fatiche degli uomini. Seguono i poemetti ispirati al pensiero. platonico, con l’esigenza della giustizia e l’aspirazione all’immortalità, mentre il disgregarsi dell’antica civiltà viene rappresentalo nell’insoddisfazione di Alessandro, dopo tutte le sue conquiste (Alexandros), e nella vittoria finale dei barbari (Gog e Magog). Il volume si chiude con La buona novella, il poemetto che celebra l’annuncio del nuovo messaggio cristiano.


Poemi Italici

I Poemi Italici furono pubblicati nel 1911 e constano di tre soli poemetti: Paolo Ucello, Rossini, Tolstoi. In Paolo Ucello viene presentata la figura di Paolo di Dono pittore fiorentino del Quattrocento, che non potendo comprarsi gli uccelli, dei quali era amantissimo, li dipingeva sul muro per bearsene. È sera, Paulo dimentica di recitare l’Angelus, anzi il cruccio della sua povertà gli invade il cuore. Ed ecco scendere, attraverso la scena dipinta sulla parete, San Francesco, che lo rimprovera amorevolmente: anche gli uccelli amano la libertà, e lui, Paulo è come un uccello che uomini crudeli hanno accecato; e cerca il sole, di cui son pieni cieli. Poi il Santo scompare, mentre l’usignolo canta e la luna illumina nella stanza buia « il vecchio dipintore addormentato ».

In Rossini il Pascoli ricostruisce un episodio della vita giovanile del grande musicista: la composizione della romanza del salice per l’Otello. È descritto, dapprima, il musicista che rientra brillo a casa. Si affaccia alla finestra: nel cielo la musica stellare della Galassia,della Lira, del Cigno; giù, nella strada, un coro discorde di ubriachi che si allontana. Tenta di fissare qualche nota per l’opera incompiuta, ma sopraffatto dai fumi del vino cade in un sonno profondo. Gli appare allora l’anima, la « Parvoletta », sulla cui natura, partecipe del divino, c’è una lunga disquisizione. La « Parvoletta » parla al musicista ancora addormentato, finché questi, destatosi, torna al clavicembalo e compone la romanza « Assisa a pie d’un salice ».

In Tolstoi il poeta si rifece alla famosa fuga del grande scrittore russo, che lasciò la sua casa per andare alla ricerca dell’ideale della perfezione umana, dando a quell’episodio uno sviluppo fantastico.

Immagina infatti che Tolstoi s’incontri con San Francesco, con Dante e con Garibaldi; e che è proprio Garibaldi, l’eroe contadino che ara in semplicità il suo campo nell’isola di Caprera, quello che appaga l’ansia di ricerca dello scrittore-pellegrino.


Le canzoni di Re Enzio

Stese tra il 1908 e il 1909, furono pubblicate insieme con i Poemi Italici nel 1911. Sono tre: la Cantorie del Carroccio, la Canzone del Paradiso, la. Canzone dell’Olifante; ma a queste avrebbero dovuto seguire una Canzone dello Studio, una Canzone del cuor gentile, e infine un soave epilogo, Biancofiore, in modo da presentare la storia della Bologna dugentesca fino al momento del « dolce stil nuovo ». Il Pascoli, in una nota, scrisse che intendeva richiamare il pensiero dei lettori « alle fiere vicende dell’età di mezzo» e rendere « un alito di vita ai tempi lontani »; e invero, tutto è aderente alla realtà, sia i nomi « con quel loro sapore di Medioevo nobile guerresco, con il loro colorito di umiltà popolana bolognese, sia i fatti, tratti dalle antiche cronache o dalle ricerche erudite di storici contemporanei ».


Carmina

I Carmina occupano tutto l’arco della storia poetica del Pascoli dal 1887 al 1911 (dai distici Ad Ianum Crescentium, scritti a Massa, al poemetto cristiano Thallusa), e comprendono le seguenti raccolte: Liber de poetis, Ruralia, Res Romanae, Poemata christiana, cui sono stati aggiunti due Hynni (a Roma e a Torino) e le « Varie » in latino, cioè i Poématia et epigrammata..

Ispirati dal culto dell’antichità classica e dalla profonda conoscenza che il Pascoli aveva del mondo antico, da un lato si inseriscono nella tradizione umanistica del poetare in latino (il Pascoli possedette una singolare attitudine ad esprimersi in quella lingua, al punto che è stato definito poeta bilingue), ma dall’altro lato la superano, perché la ricostruzione erudita non rimane mai fine a se stessa, ma è il pretesto da cui muove la sua fantasia per ricostruire quel mondo lontano. Come ha scritto A. Mocchino, « la storia o dileguò per lui in una lontananza fantastica, in un crepuscolo dove non sono più differenze di costumi o di età, […] o si frantumò negli elementi costitutivi, in piccoli particolari inerti, così stretti alla più umile realtà quotidiana da non essere più storia ».

D’altra parte, la lingua non aderisce a nessun modello, ma è intessuta di vocaboli e di frasi tratti dall’intero arco della tradizione latina; tuttavia risulta affatto originale ed aderisce perfettamente a tutte le scene rappresentate.


LA POETICA

Un testo particolarmente importante per lo studio della poetica pascoliana è la prosa Il Fanciullino.

C’è dentro di noi, ci dice il poeta romagnolo riprendendo un’immagine del Fedone, un fanciullino che rimane tale anche quando noi cresciamo e ci si ingrossa la voce e si accende nei nostri occhi un nuovo desiderare. Il fanciullino ama “le aste bronzee e i carri da guerra e i lunghi viaggi e le grandi traversie” e non s’interessa degli amori e delle donne, per quanto belle esse siano; il fanciullino si meraviglia di tutto, poiché tutto gli sembra nuovo e bello, e non tralascia nessun particolare; il fanciullino è generoso e buono cosi che “non gli uomini si sentono fratelli tra loro, essi che crescono diversi e diversamente si armano, ma tutti si armano, per la battaglia della vita; sì i fanciulli che sono in loro, i quali, per ogni poco d’agio e di tregua che sia data, si corrono incontro, e si abbracciano e giocano.” Egli è in tutti gli uomini. È lui che ha paura al buio, è lui che ci fa sognare ad occhi aperti, è lui “che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei,” è lui che piange e ride senza perché, che sa dire la parola che ci commuove, che sa fare umano e puro l’amore, che fa sorgere nell’uomo serio la meraviglia per le fiabe e le leggende e nell’uomo pacifico fa echeggiare le fanfare e nell’uomo incredulo fa vaporare un altarino. È lui che mette il nome alle cose e “dà un segno, un suono, un colore, a cui riconoscere sempre ciò che vide una volta,” è lui che scopre nelle cose le somiglianze e le relazioni più ingegnose. Egli si trova in tutti, abbiamo detto. “C’è dunque chi non ha sentito mai nulla di tutto questo? Forse il fanciullo tace in voi, professore, perché voi avete troppo cipiglio, e voi non lo udite, o banchiere, tra il vostro invisibile e assiduo conteggio. Fa il broncio in te, o contadino, che zappi e vanghi, e non ti puoi fermare a guardare un poco; dorme coi pugni chiusi in te, operaio, che devi stare chiuso tutto il giorno nell’officina piena di fracasso e senza sole.” Ma metteteli tutti insieme gli operai, i contadini, i banchieri, i professori in una chiesa a una funzione di festa oppure in un teatro a una bella musica: “ecco tutti i loro fanciullini alla finestra dell’anima, illuminati da un sorriso o aspersi d’una lagrima, che brillano negli occhi de’ loro ospiti inconsapevoli; eccoli i fanciullini che si riconoscono, dall’impannata al balcone dei loro tuguri e palazzi, contemplando un ricordo e un sogno comune.”. Il fanciullino è, dunque, il poeta che — in misura maggiore o minore — si trova nel fondo di ogni uomo.

Abbiamo voluto richiamare queste pagine notissime perché in esse, fin dalle prime battute, si trovano molti elementi della poetica pascoliana. In primo luogo il carattere irrazionale, intuitivo dell’arte, insito alla natura stessa del fanciullo: “Fanciullo, che non sai ragionare se non a modo tuo, un modo fanciullesco che si chiama profondo, perché d’un tratto, senza farci scendere a uno a uno i gradini del pensiero, ci trasporti nell’abisso della verità”. Di conseguenza la meraviglia, lo stupore di fronte alle cose: “Tu sei il fanciullo eterno, che vede tutto con meraviglia, tutto come per la prima volta.” E quindi la poetica dell’oggettività, cioè la concezione che la poesia non s’inventa ma si scopre perché essa si trova nelle cose stesse (“e non averla trovata fu difetto, non di poesia nelle cose, ma di vista negli occhi”‘) e la distinzione tra fantasia e sentimento poetico, la prima non necessaria e il secondo invece indispensabile alla poesia. Perché non è necessario alzare “gli occhi dalla realtà presente”‘ e trovare belli e degni di canto solo “i fiori delle agavi americane,” ma belle sono anche le cose umili che ci circondano “le minime nappine, color gridellino, della pimpinella, sul greppo.” Poesia è trovare nelle cose “il loro sorriso e la loro lacrima; e ciò si fa da due occhi infantili che guardano semplicemente, e serenamente di tra l’oscuro tumulto della nostra anima.” Poetica dell’oggettività che diventa, dunque, per naturale trapasso, poetica delle piccole cose, della vita quotidiana e da cui discende la necessità di una lingua precisa, che non si perda in ghirigori e bellurie, che sappia essere semplice e diretta (il poeta “deve togliere non aggiungere”), che sappia chiamare ogni cosa con il suo nome: “Pensate ai fiori e agli uccelli, che sono dei fanciulli la gioia più grande e consueta: che nome hanno? S’ha sempre a dire uccelli, si di quelli che fanno tottavi e sì di quelli che fanno crocro? Basta dir fiori o fioretti, e aggiungere, magari, vermigli e gialli, e non far distinzione tra un greppo coperto di margherite e un prato gremito di crochi?” E da cui discende anche la polemica antiletteraria, contro la nostra poesia che non fu mai “elementare e spontanea,” che “sa di lucerna, non di guazza, e d’erba fresca,” contro il fanciullino italico il quale “non ruzza che ben vestito e ben pettinato,” con la poesia applicata che introduce elementi estranei all’interno della poesia pura.

Ma un’altra caratteristica del fanciullino, lo abbiamo visto, è quella di essere in tutti gli uomini. La poesia, quindi, non è il privilegio di alcune anime elette, ma può essere intesa da tutti. Pochi, certo, sono quelli che riescono a scoprire il valore effettivo delle cose, ma, quando essi hanno detto la parola giusta, chi l’ha udita esclama: “Anch’io vedo ora, ora sento ciò che tu dici e che era, certo, anche prima, fuori e dentro di me, e non lo sapeva io affatto o non cosi bene come ora!” E, per questa ragione, la poesia ha in sé, in quanto poesia, “una suprema utilità morale e sociale.” Perché “chi ben consideri, comprende che è il sentimento poetico il quale fa pago il pastore della sua capanna, il borghesuccio del suo appartamentino ammobigliato “e che è certamente benefico un tale sentimento “che pone un soave e leggero freno all’instancabile desiderio.” E per questo il poeta vero, “senza farlo apposta e senza addarsene,” è per natura socialista “o, come si avrebbe a dire, umano.” Certo il poeta è solo poeta, non oratore o predicatore o filosofo o tribuno. E nemmeno è, “sia con pace del Maestro, un artiere che foggi spade e scudi e vomeri; e nemmeno,
con pace di tanti altri, un artista che nielli e ceselli l’oro che altri
gli porga.” Il poeta “non sale sulla sedia o su un tavolo ad arringare,” ma si mescola alla folla, non trascina ma è trascinato, non grida ma parla sommesso e dimesso, non è l’eroe democratico di stampo risorgimentale e nemmeno il superuomo di stampo nicciano, ma un eroe umile e modesto eppure capace di dire la parola che tutti, senza saperlo, hanno nel cuore e in cui tutti si riconoscono.

I tratti salienti della poetica pascoliana, cosi come venne teorizzata nel Fanciullino e in altri scritti di quegli anni, potrebbe dunque così riassumersi: il poeta coincide con il fanciullo che è in tutti gli uomini ( e di qui, con un passaggio non difficile, l’idea che la poesia consista soprattutto nel ricordo dell’infanzia); la poesia non s’inventa ma si scopre, perché essa si trova nelle cose che ci circondano, anche nelle più umili e consuete, anzi si trova in un particolare di quelle cose che solo il poeta sa vedere; la poesia non ha un carattere razionale, ma intuitivo, come è appunto intuitivo il modo di conoscere e di giudicare dei fanciulli; la poesia ha bisogno di una lingua precisa che chiami ogni cosa con il suo nome; la poesia deve essere spontanea e antiletteraria e non deve sopportare il peso di grandi strutture culturali o logiche o ideologiche, deve essere pura e non applicata; la poesia non deve proporsi uno scopo civile o morale o umanitario, perché essa, in quanto tale, solo con l’essere poesia, ha già una funzione civile e morale; la poesia, infatti, persuade ogni uomo ad accontentarsi del poco e, di fronte al destino comune di essere mortali e alla comune infelicità e alla nuova bufera che pare addensarsi sull’umanità, lo spinge a mettere da parte ogni odio e a considerare fratello l’altro uomo; la poesia può nascere dalla sofferenza e mai dalla sopraffazione. Tuttavia la caratteristica che più colpisce nel Fanciullino è quella di presentarsi in modo del tutto antitetico al superuomo dannunziano: lì la lussuria e qui l’innocenza, lì il tono esaltato e qui la voce smorzata, lì gli oggetti e i paesaggi esotici e strani qui gli oggetti e i paesaggi di tutti i giorni, lì l lusso qui la povertà, lì il dominio e qui la sofferenza. Eppure anche il Fanciullino, come già il Superuomo dannunziano, presenta collegamenti reali con la situazione italiana. Ad intendere ciò giova, quindi, una ricostruzione più precisa dello sviluppo e dei tratti fondamentali della ideologia pascoliana.


IDEOLOGIA

Le origini degli atteggiamenti ideologici del Pascoli vanno ricercate nella prima giovinezza, quando era ancora studente liceale. A Rimini, egli assorbì dall’ambiente stesso la simpatia per le idee socialiste e rivoluzionarie ( Rimini era un vivacissimo centro della sinistra rivoluzionaria, repubblicana e anarchica).Gli anni universitari poi, a Bologna, certamente contribuirono a rafforzare gli orientamenti socialisteggianti del Pascoli, anche se da nessun documento risulta che egli conoscesse Andrea Costa prima della fine del famoso processo del 76. I biografi attribuiscono alla morte del fratello Giacomo (12 maggio 1876), unico sostegno della famiglia (che per di più lasciava la moglie e due bambini), quel sentimento di rivolta e di disperazione contro l’ingiustizia della società e della sorte, che portò Pascoli ad iscriversi all’Internazionale. È una spiegazione puramente psicologica, un po’ di maniera, forse, che tende a presentare come un colpo di testa e come la conseguenza di un grande smarrimento interiore l’adesione del poeta al movimento rivoluzionario. In realtà è assai probabile che l’occasione determinante che spinse Pascoli a iscriversi all’Internazionale sia stata il processo degli internazionalisti, l’eco che esso ebbe nell’opinione pubblica, il prestigio che ne ritrassero gli imputati. Una conferma può esserci data dal fatto che la stessa occasione determinò l’iscrizione all’Internazionale di Severino Ferrari, che non aveva nessun motivo personale di rivolta contro la società. Il processo agli internazionalisti, che si svolse a Bologna e durò tre mesi, fu un grande avvenimento seguito con interesse morboso dall’opinione pubblica. Intanto i fatti stessi che lo avevano provocato avvolgevano di un alone romantico e suggestivo gli imputati. Si trattava di una rivoluzione mancata, qualcosa di simile alla impresa di Pisacane. Costa aveva assicurato “di poter contare su trentamila uomini, su quattromila fucili Wetterly e su mille bombe all’Orsini”. I romagnoli dovevano dare il segnale di inizio a un incendio che avrebbe dovuto propagarsi per tutta la penisola.
La presenza di Bakunin, il misterioso rivoluzionario russo, aggiungeva un’ultima pennellata a un quadro già di per sé suggestivo per le mille analogie risorgimentali. In realtà Costa venne arrestato due giorni prima che scoppiasse il movimento, la colonna che mosse da Imola verso Bologna fu di appena centocinquanta persone, per la maggior parte disarmate, e Bakunin dovette fuggire vestito da prete. Se l’insurrezione fu un fallimento il processo invece fu un trionfo. L’interrogatorio di Andrea Costa fu ascoltato con silenzio religioso dal pubblico che gremiva l’aula e di esso approfittò il giovane agitatore per rievocare con parole commosse i vari momenti della storia dall’Internazionale ed esporre i principi che la ispiravano. Poi ci fu la deposizione di Carducci, come testimone a favore di Costa: di Carducci che rifiutò di giurare sul Vangelo perché lo considerava solo “un residuo storico” e che dichiarò “essere naturale il precipitarsi nella lotta di giovani di forte ingegno quando non era lontano il momento in cui una nuova forma di vita sociale si sarebbe fatta strada.”

E il verdetto fu di assoluzione. Di conseguenza non c’è da stupirsi che proprio quell’avvenimento affrettasse il processo di maturazione di Pascoli e di Severino Ferrari fino a determinare la loro adesione all’Internazionale. Essi certo erano socialisti “più di cuore che di mente, ” come scriverà Severino ad Andrea Costa chiedendogli consigli sui libri da leggere.” E i consigli di Andrea non andranno molto oltre gli scritti di Bakunin: poiché la formazione ideologica degli anarchici era anch’essa abbastanza generica. Lo stesso Andrea Costa s’era accostato all’Internazionale per un moto sentimentale e umanitario, più che per un approfondimento ideologico. Con una simile carica passionale e libertaria era del tutto naturale che il movimento socialista rivoluzionario romagnolo respingesse l’ala marxista dell’lnternazionale, troppo dialettica, scientifica e realistica e si schierasse con quella anarchica-bakuniniana, romantica ed utopistica, sognando “il sollevamento spontaneo delle moltitudini popolari insorgenti a rovesciare tutte le istituzioni borghesi.”.Voglio dire che la definizione di Severino: “sono socialista più di cuore che di mente,” può essere estesa a tutto il movimento anarchico romagnolo e caratterizza le ragioni stesse dell’adesione di molti intellettuali e di Pascoli all’Internazionale. (e la polemica di quest’ultimo con il “gelido marxismo” ha origini ben più lontane della nascita del suo nazionalismo).

Pascoli, comunque, s’impegnò abbastanza nell’attività politica. Sono noti i momenti più importanti di questa attività: distribuzione clandestina de II Martello sequestrato dalla polizia (18 marzo 1877), ospitalità a Costa fuggiasco, probabile partecipazione ad una assemblea in favore di Passanante (novembre 1878), arresto per aver partecipato a una manifestazione in favore degli internazionalisti imolesi (7 settembre 1879), deposizione in cui ammette di aver partecipato alla manifestazione, nega di aver insultato i carabinieri, nega di appartenere ad alcun partito politico, dichiara di essere di quei “socialisti che desiderano il miglioramento della società, senza pervertimenti dell’ordine e di ammirare la generosità di chi si sacrifica per studiare il mezzo di raggiungere tale miglioramento” (settembre 1879), rinvio a giudizio (18 novembre 1879), processo e ritiro dell’accusa da parte del Pubblico Ministero (22 dicembre 1879), incontro con Costa rientrato in Italia (marzo 1880) e definitivo allontanamento dall’attività politica.

È certo che Pascoli era in crisi già parecchi mesi prima dell’arresto se nella primavera del 79 scriveva a Severino la sua intenzione di ritornare in Romagna per prepararsi agli esami. Ed è anche certo che l’arresto e il periodo di detenzione fecero maturare rapidamente la crisi. Tuttavia anche in questo caso i biografi commettono l’errore di attribuire solo a cause psicologiche il mutamento delle posizioni pascoliane: cause psicologiche che esistono e sono molto importanti,ma non sono sole. La crisi personale di Pascoli, infatti coincide con la crisi generale del movimento anarchico romagnolo. Il leader di quel movimento, Andrea Costa, all’estero si incontrava con il pensiero di Marx e con l’esperienza e l’intuito politico di Anna Kuliscioff. L’utopia bakuniana aveva mostrato tutta la sua astrattezza. Il popolo, quando cessava di essere un ideale retorico e diventava realtà, non era con loro, non capiva i loro fini ultimi.

Occorreva un bagno di economia politica. Si passava così dall’utopia alla politica, dal sogno della palingenesi alla lotta minuta e quotidiana per singoli, a volte insignificanti miglioramenti economici e politici.

Era questo che interessava Pascoli, socialista più di cuore che di mente? Poteva il poeta letteratissimo fare un bagno di economia politica? E di fronte alla crisi dell’utopia e del sogno rivoluzionario, di fronte alla prospettiva lunga del socialismo legalitario, poteva non porsi il problema del proprio destino individuale e della propria vocazione? Certo è che la crisi dell’utopia anarchica e il conseguente divorzio fra il poeta e il movimento socialista italiano fa sorgere anche in lui il problema che caratterizza tutta la generazione intellettuale post-risorgimentale. II problema di un ideale da contrapporre alla miseria della vita italiana di quegli anni (o almeno a quella che appariva tale), di un ideale che potesse far superare la delusione del Risorgimento incompiuto e tradito, il predominio delle istanze economiche personali e di classe su quelle generali dell’intera nazione, il dilagare degli uomini seri e calcolatori: la ricerca di un ideale che è alla base del sorgere del nazionalismo e imperialismo passionale, di quel nazionalismo, cioè, che si manifesta prima come cultura, come orientamento degli intellettuali, e poi come creazione effettiva delle basi economiche di una espansione imperialistica, determina, così, in Pascoli lo slittamento progressivo da una semplice adesione psicologica al socialismo a forme di nazionalismo scoperto.

La prima tappa delle nuove posizioni pascoliane possiamo fissarla nel dicembre del 1882. Il 20 dicembre di quell’anno giunse la notizia dell’esecuzione di Oberdan. L’arresto del giovane triestino, il processo e la sua condanna provocarono una grande commozione nell’opinione pubblica italiana. Il Pascoli inviò allora per la sottoscrizione dieci lire. L’episodio è importante perché dimostra che Pascoli continuava a sentirsi a suo modo impegnato e che attraverso il canale dell’irredentismo si rivalutava in lui quel concetto di patria e nazione che egli cercherà d’ora in poi di fondere con quello di umanità e di socialismo. La seconda tappa importante è il 1887, quando Pascoli partecipò alla messa per i morti di Dogali e dettò una epigrafe in onore dei caduti. Il concetto di patria e di nazione si è maturato non più collegandosi alle rivendicazioni irredentistiche, ma al problema dell’espansione coloniale. Espansione conciliabile per Il Pascoli, con i principi del socialismo, una volta trasferito il concetto di proletariato da una classe sociale alla nazione stessa. Egli non sente contrasto tra il socialismo umanitario che abbraccia tutti i popoli e l’aspirazione all’espansione. Non è l’Italia la nazione povera, il proletariato tra i popoli? Per questo esulta quando, nel 1911 La grande proletaria si è mossa alla conquista della Libia ( il discorso fu pronunciato a Barga il 26 novembre 1911, poco dopo che le truppe italiane erano sbarcate in Libia). Non è sopraffazione quella guerra perché la regione che andavamo ad occupare è bagnata dal nostro mare e già “ per opera dei nostri progenitori fu abbondevole d’acque e di messi, e verdeggiante d’alberi e di giardini; e ora da un pezzo, per l’inerzia di popolazioni nomadi e neghittose gran parte un deserto.” È, invece, la rivincita dell’italiano umiliato e offeso, povero e disprezzato contro coloro che volevano perennemente sfruttarlo. È la nostra una guerra di difesa, non di offesa: combattiamo “non per disertare ma per coltivare, non per inselvatichire e corrompere ma per umanizzare e incivilire, non per asservire ma per liberare. Noi difendiamo gli uomini e il loro diritto di alimentarsi e vestirsi coi prodotti della terra da loro lavorata, contro esseri che parte della terra necessaria al genere umano tutto sequestrano per sé e corrono per loro, senza coltivarla, togliendo pane, cibi, vesti, case all’intera collettività che ne abbisogna.” È la dimostrazione della nostra raggiunta unità: tutti gli italiani di tutte le regioni partecipano alla guerra, tutti gli italiani di tutte le classi: “E vi sono le classi e le categorie anche là: ma la lotta non v’è, o è lotta a chi giunge prima allo stendardo nemico, a chi prima lo afferra, a chi prima muore. A questo modo là il popolo lotta con la nobiltà e la borghesia.”

Strettamente connesso all’espansione coloniale è il problema dell’emigrazione. L’Italia che ha troppe braccia, che è troppo piccola e troppo povera per dare lavoro a tutti i suoi figli, l’Italia che manda in giro per il mondo centinaia di migliaia di lavoratori, ha diritto ad avere delle colonie dove impiegare questa mano d’opera esuberante.

In questo caso — lasciando da parte il fastidio che può dare certa prosa pascoliana — bisogna rilevare che il nostro poeta si collegava a un problema reale dell’Italia post-unitaria. Il problema dell’emigrazione era certo uno dei più gravi e più angosciosi. L’emigrazione, iniziatasi subito dopo il 70 e sviluppatasi nei decenni successivi fino a raggiungere le punte massime proprio nel periodo giolittiano, presentava appunto le caratteristiche che vengono sottolineate dal Pascoli. Era un’emigrazione di poveri e la maggiore percentuale la davano appunto le regioni più povere, il Mezzogiorno e il Veneto. Era un’emigrazione di lavoratori non qualificati, per lo più contadini e braccianti. Era un’emigrazione non protetta ed esposta a ogni sopruso e ad ogni sfruttamento prima ancora che lasciasse il suolo della patria: “ Prima ella mandava altrove i suoi lavoratori che in Patria erano troppi e dovevano lavorare per troppo poco. Li mandava oltre Alpi e oltre mare a tagliare istmi, a forare monti, ad alzare terrapieni […..] a fare tutto ciò che più difficile e faticoso [……] Il mondo li aveva presi a opra i lavoratori d’Italia; e più ne aveva bisogno, meno mostrava di averne, e li pagava poco e li trattava male [….] così tornavano in Patria poveri come prima e peggio contenti di prima o si perdevano oscuramente nei gorghi di altre nazionalità”. L’ultimo elemento della ideologia pascoliana è la sua concezione francescana o tolstoiana. Nello stesso modo, infatti, in cui Pascoli non sentiva contrastare con il socialismo l’aspirazione all’espansione coloniale, così non lo sente in contraddizione con la sua teoria della bontà, dell’amore, della fraternità fra tutti gli uomini.

L’UOMO

Per intendere il mondo poetico del Pascoli non sono inutili alcuni cenni anche alla biografia e al temperamento del poeta. La migliore documentazione sulla vita privata di Pascoli che si è avuta negli ultimi anni (la Vita scritta da Maria Pascoli e il suo epistolario) mette in luce un carattere fornito di una sensibilità così contraddittoria e capricciosa, cosi ricca di complessi e di umori, cosi simile alla sensibilità scossa e morbosa propria del momento di passaggio dalla infanzia alla virilità, da far sorgere il sospetto che in lui il fanciullo metaforico coincidesse in parte con il fanciullo reale. Particolarmente interessante è la sensualità pascoliana che è profonda e torbida anche se meno evidente di quella dannunziana. Leggiamo ad esempio, alcuni documenti che illuminano i rapporti fra lui e le sorelle.

Vi dominano un amore e una gelosia morbosi che fanno pensare ad alcuni processi psicologici analizzati da Freud. Egli si domanda angosciato se le sorelle possano amarlo almeno come amano le loro compagne di scuola: “Amate voi me, che ero lontano e parevo indifferente, mentre voi vivevate all’ombra del chiostro, e gioivate poco e piangevate molto dell’isolamento? Amate voi me, che sono accorso a voi soltanto quando escivate dal convento raggianti di mite contentezza, m’amate voi almeno come le gentili compagne delle vostre gioie e consolatrici dei vostri dolori?” E quando la sorella Ida si fidanza egli reagisce come un innamorato tradito, come un fanciullo irragionevole che non sa adattarsi alle leggi della vita e della società. E particolarmente insopportabile gli riesce l’idea che essa possa divenire possesso di un altro: “Quanta amarezza! Quale enorme felicità non avrei io rifiutata, pur di non far dispiacere a lei e a te! Oh! un gran torto ha la tua sorella: quello d’avere idoleggiata per sé, esclusivamente per sé, la felicità che avrebbe tolta a noi anche col ferro e col veleno!…”. Ma leggiamo ancora questa altra lettera alla sorella Maria: No mia dolce Mariù. non sono sereno. Questo è l’anno terribile, dell’anno terribile questo è il mese più terribile. Non sono sereno: sono disperato. Io amo disperatamente angosciosamente la mia famigliola che da tredici anni,_virtualmente. mi sono fatta e che ora si disfà, per sempre. Io resto attaccato a voi, a voi due, a tutte e due: a volte sono preso da accessi furiosi d’ira, nel pensare che l’una freddamente se ne va, come se fosse la cosa più naturale del mondo, se ne va strappandomi il cuore, se ne va lasciandomi mezzo morto in mezzo alla distruzione de’ miei interessi, della mia gloria, del mio avvenire della mia casina, di tutto! [….] non capisci che a restituirmi la pace è necessario, non che io prenda moglie — belle forze! — ma che io m’innamori? e come si fa, quando il cuore è tutto occupato da voi due? Siete sorelle e amate e siete amate da sorelle: così dici. Va bene: ma dimmi in coscienza, senza diplomazia, dimmi Mariù: tu mi ami da sorella: perché t’ha a dispiacere che io ami una donna da amante da sposo da marito? […..] Come farò, come faro? [……] Mariù serbala per me la tua pietà! Bacia il povero Gulì e saluta la povera adele” Questa lettera ci dice molto della “ affettività” del poeta ( non sfuggano le espressioni di cui il poeta quarantenne ( la lettera è del 1895) si serve: “famigliola”, “ serbala per me la tua pietà”, “ saluta la povera adele” ) e del morboso legame con la famiglia. Si badi bene non con una famiglia creata con l’esperienza dell’amore e della paternità, ma con la famiglia d’origine, sentita come nucleo di memorie di sangue, come rifugio sicuro nel quale arroccarsi. Questa situazione affettiva ci aiuta a meglio capire le componenti incoscie che hanno condizionato i suoi rapporti sociali e il suo pensiero politico, ma anche a penetrare nel mondo dei simboli della poesia , innanzi tutto quello della casa-nido, una delle immagini ricorrenti della poesia pascoliana. La famiglia viene vista, infatti, come ha scritto Barberi Squarotti ( Simboli e strutture della poesia del Pascoli) “ come nido, caldo, chiuso, segreto, raccolto in una esistenza senza rapporti, ma brulicante di complice intimità, di istinti e di affetti viscerali”. Si collega a questa immagine della casa nido l’ossessionante ricorrere del motivo dei morti, delle dolorose memorie familiari che cementano questo rapporto col nido e lo rendono sempre più esclusivo e più chiuso.

 

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