VITA E OPERE DI CICERONE

VITA E OPERE DI CICERONE

VITA E OPERE DI CICERONE


Il più grande scrittore e oratore di Roma nacque nel 106 a.C. nella villa avita, ad Arpino, municipio della Campania. La famiglia apparteneva all’ordine equestre e godeva di molta agiatezza, ma nessuno dei suoi antenati aveva voluto sacrificare la tranquillità campestre alle avventure della vita politica. Cicerone fu il primo a presentare il nome dei ‘Tullii’ ai suffragi popolari e apparve perciò ai suoi concittadini come un homo novus.
Giovinetto ancora fu condotto dal padre, insieme col fratello minore Quinto, a Roma, dove si diede con ardore allo studio della filosofia e dell’eloquenza, sotto la guida dei migliori maestri greci e latini. Egli ricorda spesso quel periodo felice della sua vita e in particolare le lezioni dei grandi oratori Antonio e Crasso. Nella scienza e nella pratica del diritto fu ammaestrato dal celebre giurista Q. Muzio Scevola.

Il suo esordio come oratore fu pieno di audacia. Nell’8o a.C. Crisogono, potente liberto di Silla, accusò di parricidio Sesto Roscio Amerino. Molti oratori, anche di grido, si rifiutarono di difenderlo, per timore di Silla; non così Cicerone, che pronunziò un discorso eloquente e coraggioso (Pro Sexto Roscio Amerino), riuscendo non solo a salvare un innocente, ma a bollare d’infamia quei miserabili, che, dopo essersi arricchiti di tutta la sostanza di questo sventurato, tentavano anche di annientarlo sotto l’accusa di un delitto atroce.
Nel 79, seguendo l’uso dei giovani romani del tempo, si recò a perfezionare i suoi studi in Grecia, dove frequentò la scuola del retore Demetrio Siro, dell’epicureo Zenone e dell’accademico Antioco. Passò quindi nell’Asia Minore, e poi in Rodi, dove ascoltò le lezioni del famoso oratore Apollonio Molone, che già aveva conosciuto in Roma e che ebbe su di lui una efficacia decisiva.
Ritornato in patria, si fece conoscere di nuovo e meglio come valente oratore e si dischiuse così la via alle più alte cariche della repubblica. Questore in Sicilia nel 75, l’anno dopo ottenne il laticlavio; fu edile nel 69 e pretore nel 66. Intanto si era insuperabilmente consolidata la sua fama di oratore e molto si era rafforzata la sua posizione politica. Nel 70 i Siciliani, memori del suo governo retto e sapiente, affidarono a lui il patrocinio della loro accusa contro Verre, che quale propretore dell’isola aveva commesso ogni sorta di prepotenze ed estorsioni. Cicerone ottenne un trionfo clamoroso. Verre prese la via dell’esilio senza aspettare l’esito del processo.
Nel 66, essendo pretore, pronunziò il suo primo discorso politico. Il tribuno delle plebe Manilio aveva proposto di affidare a Pompeo il comando della guerra contro Mitridate, ma la proposta era osteggiata dal senato, che diffidava della potenza militare e politica che si andava acquistando Pompeo. Il nostro oratore sostenne in Senato (Pro lege Manilia, sive de imperio Cn. Pompei) la necessità di affidare a Pompeo il comando della guerra e raggiunse l’intento. Finalmente nel 63 ottenne il consolato e diede prova non solo di accorgimento politico, ma anche di coraggio, scoprendo e reprimendo energicamente la fosca congiura di Catilina. Per tale opera il senato lo acclamò padre della patria. Fu questo il periodo più splendido della sua vita politica. Ma qualche anno dopo (marzo del 58), accusato dai suoi avversari e specialmente dal tribuno della plebe Clodio di avere ucciso i complici di Catilina senza processo regolare, per sfuggire ad una legge proposta contro di lui dal medesimo tribuno, prese volontariamente la via dell’esilio e si recò in Grecia. Nel settembre però dell’anno successivo fu richiamato in patria. Quando egli rientrò in Roma, tutto il senato andò ad incontrarlo alle porte della città, seguito da una folla immensa, che lo acconxpagnò come in trionfo sul Campidoglio. Negli anni che seguirono, parlò spesso in senato e nel foro a difesa di amici e fautori, e si unì ai triumviri, spinto anche dal bisogno di difendersi dalla feroce e ostinata persecuzione di Clodio. Nel 51 fu mandato proconsole in Cilicia e per una fortunata azione militare contro una popolazione ribelle del monte Amano fu dai suoi soldati proclamato “imperator”.
Quando poi scoppiò la guerra civile fra Cesare e Pompeo, Cicerone, dopo essersi cullato per qualche tempo nella nobile illusione di farsi mediatore tra i due, si mise col senato dalla parte di Pompeo, parendogli così di servire meglio la causa della libertà. Dopo Farsalo, si avvicinò a Cesare, che già lo aveva ricercato, ma si tenne lontano dalla politica, in un prudente riserbo, e attese allo studio della filosofia e delle lettere.
Caduto Cesare sotto il pugnale dei congiurati (44 a.C.), egli ritornò alla vita pubblica, opponendosi con coraggiosa costanza alle mire di Antonio, che pareva volesse far rivivere la dittatura soppressa. Dal 2 settembre del 44 al 21 aprile del 43 pronunziò le sue famose quattordici “Filippiche”, con le quali con insueta veemenza additò il nuovo tiranno all’esecrazione di tutti. Fu il canto del cigno. Dopo le vittorie dei consoli Irzio e Pansa e di Ottaviano contro Antonio nei dintorni di Modena, i capi cesariani s’incontrano in un’isoletta del Reno, presso Bologna, e stringono il secondo triumvirato. Corne ai tempi di Silla, i nuovi dittatori inaugurano il loro potere con le proscrizioni. Il nome di Cicerone è il primo nella lista di Antonio. Ottaviano abbandona all’ira vendicativa dei collega il vecchio consigliere ed amico.
L’Arpinate, che già prima, all’annuncio del patto fra i tre grandi, si era ritirato col fratello Quinto e il nipote nella villa di Tuseulo, lasciò anche questa, quando seppe dell’avvicinarsi dei triumviri a Roma, e si portò nell’altra sua villa di Astura, presso Anzio, per imbarcarsi per la Macedonia, dove Bruto stava raccogliendo le forze repubblicane. Ma i venti contrari e la violenza della burrasca lo costrinsero a ritornare alla spiaggia. Diede allora ordine ai servi di portarlo al “Formianum”, la villa che possedeva a Formiaingratitudine indicato la via della fuga. Il vecchio uomo consolare, quando vide avvicinarsi i sicari, fece deporre la lettiga e vietò ai servi ogni difesa. Fissò in volto i soldati, poi si sporse dalla lettiga offrendo il capo ai carnefici. I presenti si copersero gli occhi.
Era i1 7 dicembre dei 43. Gli sgherri non si contentarono del capo, troncarono anche le mani dell’oratore e portarono quei miseri resti ad Antonio che li fece esporre sui rostri nel foro, spettacolo d’immensa pietà per i Romani, che da quel luogo lo avevano udito parlare tante volte fra l’universale ammirazione.

Qualche giorno dopo caddero vittime dello stesso odio il fratello Quinto e il figlio di questo. Si erano separati dall’oratore ad Elstura, per tornare a Roma a provvedersi di danaro per il viaggio. Traditi dai servi, caddero nelle mani dei sicari di Antonio e perirono commiserando l’uno la sorte dell’altro.


LE OPERE LETTERARIE
L’opera letteraria di Cicerone è così varia, vasta e preziosa, che costituisce il monumento più insigne di tutta la letteratura latina. Cicerone non fu solo il più grande oratore, ma anche lo scrittore più perfetto e facondo di Roma antica. Di tanta mole di lavoro però io non potrò dare qui che un breve cenno, quello che mi è consentito dalla memoria.
Cicerone deve il meglio della sua fama letteraria alle orazioni. Egli ne scrisse e recitò rnoltissitne; quelle giunte a noi sono 57, tutte di grande interesse e come opera letteraria e come documenti storici. Di tante orazioni ricorderemo qui solo le 5 Verrine, contro il famigerato Verre, e le Filippiche, quattordici discorsi pronunziati contro Antonio, l’ultima sua fatica oratoria e l’ultima nobile battaglia per la causa della libertà e della repubblica.
Anche di studi retorici si occupò volentieri il nostro autore, e scrisse, su questo argomento, opere di molto valore, come il De oratore e l’Orator, in cui tratteggia l’ideale del perfetto oratore, e il Brutus, che è come una storia dell’eloquenza romana. Quando poi le mutate condizioni politiche nota gli consentirono più di prendere parte attiva alla vita pubblica, cercò conforto negli studi filosofici, e compose molte opere, con le quali, se non riuscì a farsi stimare nè come ingegno speculativo, nè per l’originalità di pensiero, concorse tuttavia a divulgare tra i suoi concittadini le dottrine della filosofia greca; inoltre diede alla lingua latina una propria terminologia filosofica, che ancora non possedeva, e rese alla storia stessa della filosofia un prezioso servizio, colmando in parte il vuoto prodotto dalla perdita delle grandi opere originali. Dei suoi moltissimi scritti filosofici citerò almeno i seguenti : De re publica, De legibus, De finibus bonorum et malórum, Tusculanae disputationes, De natura deorum, De divinatione, De officiis, De senectute, De amicitia.
Un’altr’opera ciceroniana per molti riguardi più caratteristica di tutte e di somma importanza, non solo per la vita intima dell’autore, ma per la storia e le vicende del tempo, è il suo voluminosissimo epistolario, che può considerarsi come una miniera ricchissima di rare e preziose notizie. In queste lettere, quasi meglio che in un’opera storica, troviarno ritratta la società romana d’allora: uomini e avvenimenti di quell’agitatissimo periodo ci appaiono, attraverso le lettere ciceroniane, nella loro luce più chiara, nella realtà più intima e viva.
In tutta questa vastissima opera letteraria Cicerone lasciò tracce imperiture di un ingegno acuto e multiforme. Non c’è in tutta la latinità scrittore che lo superi per l’eleganza e il magistero dello stile, e se il suo linguaggio ci appare qualche volta ridondante o verboso, ciò non nasconde mai povertà o vuotezza di pensiero, ma dimostra sola fluidità di immagini, ricchezza e padronanza di forma. Per questo culto dell’espressione egli assoggettò la sua lingua alle più severe leggi della grammatica, quasi volesse imprimere nelle orazioni e negli scritti quella stessa purezza, che perseguiva costantemente nella vita. Dopo la correttezza e precisione della lingua, la sua cura più diligente fu rivolta al numerus, cioè all’armonia e rotondità di un periodo architettato con arte. Per guadagnarsi meglio l’animo dell’uditore, egli volle accarezzarne anche l’orecchio, dando alla sua prosa come un ritmo e una cadenza poetica.
Questi ed altri pregi, che sarebbe qui troppo lungo enumerare, uniti ad una vasta cultura e ad una dottrina soda, fanno di Cicerone il principe dei prosatori latini, e chiunque voglia ancora esprimere nell’antica lingua di Roma, con purezza ed eleganza, il proprio pensiero, deve ricercare in lui il modello più perfetto, il maestro insuperato e insuperabile di lingua e di stile.

Se poi ai meriti sommi dello scrittore, del letterato e dell’oratore, aggiungiamo le virtù insigni del cittadino, come la devozione assoluta alla patria, alla sua Roma, che egli vedeva già, con chiarezza, madre del diritto e dominatrice del mondo, l’amore profondo del bene, la rettitudine più scrupolosa nella vita pubblica e privata, dobbiamo vedere in Cicerone uno degli animi più nobili, grandi e benemeriti dell’antico e glorioso mondo romano.


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