VIRGILIO LE BUCOLICHE
EGLOGA PRIMA
MELIBEO, TITIRO
MELIBEO
Titiro, tu sdraiato al riparo di un grande faggio moduli una canzone boschereccia sulla umile zampogna; noi abbandoniamo i territori della patria e i dolci campi, noi fuggiamo dalla patria; tu, Titiro, placido all’ombra fai risuonare i boschi del nome della bella Amarilli.
TITIRO
O Melibeo, un dio ci ha dato questa pace: egli infatti sarà sempre per me come un dio; un tenero agnello tratto dai nostri ovili bagnerà sovente di sangue il suo altare. Lui ha concesso che pascolino le mie giovenche, come vedi, e che io suoni le canzoni preferite con lo zufolo agreste.
MELIBEO
Davvero non provo invidia; mi meraviglio piuttosto: a tal punto dovunque c’è scompiglio in tutta la campagna. Ecco, io stesso afflitto spingo innanzi le caprette; anche questa trascino a fatica, Titiro: qui or ora tra i fitti nocciuoli, partorendo ohimè sulla nuda pietra, ha lasciato due gemelli, speranza del gregge. Spesso questa sciagura ci predissero, ricordo, le querce colpite dal fulmine, se si fosse stati meno improvvidi. Ma dicci come sia questo dio, Titiro.
TITIRO
Melibeo, io sciocco credetti che la città che chiamano Roma fosse simile a questa nostra, dove noi pastori siamo soliti menare di frequente gli agnelli appena nati. Così sapevo che i cagnolini sono simili alle cagne, i capretti alle madri; così ero solito paragonare le grandi alle piccole cose. Ma questa di tanto ha levato il capo sulle altre città, di quanto si levano i cipressi sui flessibili vincastri.
MELIBEO
E quale fu la ragione così importante che ti spinse a vedere Roma?
TITIRO
La libertà, che sebbene tardi, quando già a raderla la mia barba cadeva alquanto bianca, si volse infine a riguardarmi e venne dopo lungo tempo, dopo che Amarilli mi tiene in suo potere, e Galatea mi ha abbandonato. Infatti, lo confesserò, per tutto il tempo in cui fui legato a Galatea, non avevo
speranza di libertà, né cura del risparmio. Per quanto numerose uscissero le vittime dai miei ovili, e per quanto grasso formaggio si coagulasse per la città che non ricompensa, la mia destra non ritornava mai a casa carica di denaro.
MELIBEO
Mi chiedevo sorpreso perché, Amarilli, invocassi mesta gli dei, per chi lasciassi pendere sul loro albero i frutti: Titiro era lontano di qui. Anche i pini, Titiro, anche le fonti, anche questi cespugli ti invocavano.
TITIRO
Che dovevo fare? non mi era concesso di uscire di schiavitù, né trovare altrove divinità così propizie. Là io vidi quel giovane, Melibeo, in onore del quale ogni anno i nostri altari fumano per dodici giorni; là alle mie domande lui per primo rispose: «Pascolate come innanzi i buoi, ragazzi, allevate i tori».
MELIBEO
Vecchio fortunato, dunque tuoi rimarranno i campi, abbastanza grandi per te anche se la nuda pietra e la palude col giunco limaccioso ricoprono tutti i pascoli. Ignote pasture non metteranno a repentaglio le madri sfinite, né le danneggerà il pericoloso contagio di un gregge vicino. Vecchio fortunato, qui prenderai il fresco ombroso fra fiumi noti e sacre sorgenti; da questa parte con lieve sussurro spesso ti inviterà come sempre ad assopirti la siepe che qui presso delimita il confine e offre alle api iblee il pasto dei fiori di salice; da questa parte sotto l’alta rupe canterà all’aria il potatore; né cesseranno di tubare le colombe, a te care, o di gemere dall’alto olmo la tortora.
TITIRO
Perciò gli agili cervi pascoleranno nell’etere e i flutti lasceranno a secco sul lido i pesci, il Parto berrà l’Arari o la Germania il Tigri errando esuli fuori dei loro territori, prima che sia cancellato dal nostro cuore il volto di lui.
MELIBEO
Ma di noi alcuni raggiungeranno da qui gli Africani assetati, altri arriveranno in Scizia e al torbido Oasse e ai Britanni del tutto fuori del mondo. Accadrà mai che da qui a lungo tempo io possa rivedere e ammirare i confini patri e il tetto della povera capanna costruito di zolle e dopo qualche stagione il mio regno? Un empio soldato possiederà questi campi così ben coltivati, un barbaro queste messi: ecco fino a qual punto la discordia ha trascinato gli sventurati cittadini; per costoro noi abbiamo seminato i campi! Innesta ora, Melibeo, i peri, disponi in filari le viti! Avanti mio gregge un tempo felice, avanti caprette. D’ora in poi io non vi vedrò più, sdraiato in un verde antro, pendere di lontano da una rupe coperta di rovi; non canterò più canzoni; e non più con me pastore, caprette, brucherete il trifoglio fiorito e il salice amaro.
TITIRO
Potevi tuttavia riposare qui con me per questa notte sulle foglie verdi: ho mele mature, castagne molli e formaggio abbondante, e già di lontano fumano i tetti delle cascine e più grandi scendono dagli alti monti le ombre.
EGLOGA SECONDA
Il pastore Coridone ardeva per il bell’Alessi, delizia del padrone, né aveva di che sperare. Veniva soltanto assai spesso tra i folti faggi dalle cime ombrose; qui solitario rivolgeva con vana passione ai monti e alle selve queste rotte parole:
«O crudele Alessi, non hai alcuna cura dei miei canti? né alcuna pietà di me? finirai col costringermi a morire. A quest’ora anche gli animali cercano l’ombrosa frescura, a quest’ora i rovi spinosi nascondono anche i verdi ramarri, e Testili pesta aglio e serpillo, erbe odorose, per i mietitori stanchi della rovente calura; attorno a me invece, mentre seguo le tue orme, risuonano dagli alberi sotto il sole ardente le stridule cicale. Non era forse meglio subire le tristi ire di Amarilli e i suoi superbi disdegni? o sopportare Menalca, per quanto egli sia scuro e tu di pelle bianchissima? O bel ragazzo, non confidare troppo nel colore: i bianchi ligustri cadono, i giacinti scuri vengono raccolti.
Per te sono spregevole, e non cerchi di sapere, Alessi, chi io sia, quanto sia ricco di greggi, quanto fornito di latte color della neve. Mille mie agnelle pascolano sui monti di Sicilia, non mi manca il latte fresco né d’estate né d’inverno. Canto ciò che era solito cantare Anfione Dirceo, quando talora chiamava gli armenti sull’Aracinto di Atteone. Né sono poi così brutto: poco fa sul lido mi sono specchiato, mentre il mare stava immobile senza venti; neppure a confronto con Dafni temerei il tuo giudizio, se mai non inganna l’immagine riflessa. O se solo ti piacesse abitare meco i campi per te rozzi e le umili capanne e trafiggere i cervi e sospingere la schiera dei capretti al verde ibisco. Insieme con me nei boschi imiterai Pan col canto (Pan per la prima volta insegnò ad unire con la cera più canne; Pan ha cura delle pecore e dei loro custodi), né ti pentiresti di aver logorato il tuo labbruzzo sulla canna: che mai non faceva Aminta per imparare queste stesse cose? Ho una zampogna formata di sette can- ne diseguali, che mi diede in dono Dameta tempo fa, dicendomi mentre moriva: ‘Questa zampogna ha te come secondo padrone’. Così disse Dameta; ne provò invidia lo stolto Aminta. Inoltre due caprioli, che ho trovato in una valle malsicura, con le pelli ancora chiazzate di bianco, succhiano due volte al giorno le poppe di una pecora: io li tengo in serbo per te. Già da un pezzo Testili mi prega di poterli portare via, e lo farà, poiché tu disprezzi i miei doni.
Vieni qui, o bel ragazzo: per te ecco le Ninfe portano gigli in canestri ricolmi; per te una bianchissima Naiade, cogliendo le pallide viole e gli alti papaveri, accosta il narciso e il fiore dell’aneto profumato; poi intrecciandoli alla lavanda e ad altre erbe soavi colora i delicati giacinti con la giallognola calendula. Ed io stesso coglierò le grigie cotogne dalla tenera lanuggine e i frutti del castagno, che la mia Amarilli prediligeva; vi aggiungerò ceree prugne (sia onore anche a questo frutto), e coglierò voi, o allori, e te, mirto che sei loro vicino; perché così disposti mescolate i soavi profumi.
Sei rozzo, Coridone; Alessi non cura i doni, né, se tu gareggiassi in doni, Iolla perderebbe. Ahi, ahi, che cosa ho procurato a me misero? Disperato ho spinto l’Austro sui fiori e i cinghiali nelle limpide fonti. Chi fuggi, ah pazzo? anche gli dei ed il dardanio Paride abitarono i boschi. Pallade che le fondò abiti pure le città; a noi piacciano più di ogni altra cosa i boschi. La torva leonessa insegue il lupo, il lupo a sua volta la capretta, la gaia capretta va in cerca del trifoglio fiorito, Coridone di te, o Alessi: ciascuno è mosso dal suo piacere. Guarda, i giovenchi riportano gli aratri sospesi al giogo e il sole calando raddoppia le ombre che si allungano; me invece brucia l’amore: che misura infatti può esservi all’amore?
Ah Coridone, Coridone, che pazzia ti ha preso! Hai potato solo a metà la vite sull’olmo frondoso; piuttosto perché non ti disponi almeno ad intrecciare coi vimini e col giunco flessuoso qualcosa di cui c’è bisogno? Se questo ti disprezza, troverai bene un altro Alessi».
EGLOGA TERZA
MENALCA, DAMETA, PALEMONE
MENALCA
Dimmi, Dameta, di chi è il gregge? forse di Melibeo?
DAMETA
No, ma di Egone; me lo ha affidato poco fa Egone.
MENALCA
O gregge sempre disgraziato, pecore! mentre quello lì corteggia Neera e teme che ella mi preferisca a lui, qui un pastore estraneo munge le pecore due volte all’ora, e la linfa vitale viene così sottratta al gregge e il latte agli agnelli.
DAMETA
Bada tuttavia ad essere più cauto quando accusi degli uomini; conosciamo bene quelli che, guardando biecamente con gli angoli degli occhi, e in quale tempietto – ma sghignazzarono le Ninfe indulgenti – ti hanno…
MENALCA
- stato allora, credo, quando mi hanno visto tagliare con il falcetto cattivo la piantagione di Micone e le viti novelle.
DAMETA
O qui presso i vecchi faggi, quando spezzasti l’arco di Dafni e le frecce; quelle cose che tu, perverso Menalca, ti affliggevi di vedere donate al ragazzo, e saresti fin morto se non gli avessi fatto qualche cattiveria.
MENALCA
Che cosa potrebbero fare i signori, quando i servi ladri hanno tanta impudenza? Non ti ho forse visto io, birbone, catturare con l’inganno il capro di Damone, malgrado che Licisca abbaiasse ben forte? e mentre gridavo: «E dove si caccia ora quello? Titiro, raduna il gregge!» tu ti nascondevi dietro la giuncaglia.
DAMETA
E che, non avrebbe dovuto egli, vinto nel canto, rendermi il capro che la mia zampogna aveva guadagnato con le canzoni? Se non lo sai, mio era quel capro; e Damone stesso me lo riconosceva; ma diceva di non essere in grado di renderlo.
MENALCA
Tu lui nel canto? o quando mai tu hai avuto una zampogna legata con cera? non solevi tu, ignorante, storpiare nei trivii con un fischietto assordante una canzone che faceva pietà?
DAMETA
Vuoi dunque che facciamo reciprocamente la prova di che cosa ciascuno di noi è capace? io scommetto questa vitella (perché tu per caso non rifiuti: si fa mungere due volte al giorno, nutre con le poppe due piccoli insieme); e tu di’ con quale posta vuoi gareggiare con me.
MENALCA
Non oserei scommettere con te nulla del gregge; a casa ho il padre, ho la severa matrigna, e due volte al giorno contano entrambi il gregge, e quella persino i capretti; ma ciò, che tu stesso ammetterai essere di valore molto maggiore (dal momento che ti piace dar di matto), scommetterò delle coppe di legno di faggio, opera cesellata del divino Alcimedonte, nelle quali una flessibile vite sovrapposta con abile compasso veste di pallida edera i grappoli sparsi. Nel mezzo due figure, Conone e – chi fu l’altro, che agli uomini disegnò con la bacchetta tutto quanto il cielo, quali siano le stagioni per il mietitore, quali quelle per il curvo aratore? Non vi ho ancora accostato le labbra, ma le conservo al riparo.
DAMETA
Anche a me lo stesso Alcimedonte ha fatto due coppe, ed ha avvolto intorno alle anse il flessuoso acanto e nel mezzo ha posto Orfeo e le selve che lo seguono. Non vi ho ancora accostato le labbra, ma le conservo al riparo. Se guardi alla vitella, non c’è motivo che lodi le coppe.
MENALCA
Oggi non mi sfuggirai più; verrò dovunque mi chiamerai. Purché queste cose le ascolti – almeno chi viene avanti, ecco, Palemone; farò sì che tu d’ora in poi non sfiderai più al canto nessuno.
DAMETA
Orsù comincia, se hai qualcosa da dire; in me non sarà alcun indugio, non fuggo nessuno; soltanto, o vicino Palemone, riponi questo canto nel profondo dell’animo (non è piccola cosa).
PALEMONE
Cantate, dal momento che ci siamo seduti sulla soffice erba, ed ora ogni campo, ora ogni albero germoglia; ora le selve si coprono di fronde, ora è la stagione più bella. Comincia, Dameta, tu poi segui, Menalca; canterete a strofe alterne: le Camene amano le strofe alterne.
DAMETA
Da Giove ha inizio il mio canto: tutte le cose sono piene di Giove; egli provvede alle terre, egli ha cura dei miei canti.
MENALCA
Ed io sono caro a Febo; Febo ha sempre in casa mia i doni che ama, l’alloro e il giacinto soavemente rosso.
DAMETA
Con una mela mi colpisce Galatea, scherzosa fanciulla, e fugge verso i salici, e prima desidera esser ben vista.
MENALCA
A me invece si offre spontaneamente la mia fiamma, Aminta, così che Delia non è più nota di lui ai miei cani.
DAMETA
Son pronti i doni per la mia Venere; e infatti ho marcato io stesso il posto dove hanno fatto il nido le aeree colombe.
MENALCA
Ciò che ho potuto, ho mandato al ragazzo dieci mele dorate colte da un albero selvatico; domani gliene manderò altrettante.
DAMETA
O quante volte e che dolci parole mi ha detto Galatea! almeno una parte, o venti, riportatene alle orecchie degli dei.
MENALCA
Che giova che tu stesso non mi disprezzi nel cuore, Aminta, se mentre tu insegui i cinghiali io bado alle reti da caccia?
DAMETA
Mandami Filli: è il mio compleanno, Iolla; quando farò sacrifici con una vitella in pro delle messi, vieni tu stesso.
MENALCA
Amo Filli più delle altre; infatti pianse quando me ne andai e a lungo disse: «Addio, addio, Iolla bello!»
DAMETA
Nuocciono il lupo alle stalle, le piogge alle messi mature, i venti agli alberi, i capricci di Amarilli a me.
MENALCA
Giova l’umidità ai seminati, il corbezzolo ai capretti svezzati, il salice flessibile al bestiame gravido, a me il solo Aminta.
DAMETA
Pollione ama la mia Musa, sebbene sia rozza: Pieridi, pascolate una vitella per il vostro lettore.
MENALCA
Pollione anch’egli compone nuovi carmi: pascolate un toro, che presto aggredisca col corno e coi piedi disperda la sabbia.
DAMETA
Chi ama te, Pollione, giunga En là dove ha piacere che anche tu sia giunto; il miele scorra per lui, e il rovo spinoso produca l’amomo.
MENALCA
Chi non odia Bavio, ami pure i tuoi carni, Mevio, e aggioghi egli stesso le volpi e munga i caproni.
DAMETA
Voi che cogliete i fiori e le fragole che nascono in terra, ragazzi, fuggite di qui, un freddo serpente si nasconde nell’erba.
MENALCA
Guardatevi, pecore, dall’avanzare troppo: non è bene fidarsi della riva; persino il montone sta ora asciugandosi la lana.
DAMETA
Titiro, allontana dal fiume le caprette che pascolano; io stesso, quando sarà il momento, le laverò tutte alla fonte.
MENALCA
Adunate le pecore, ragazzi; se prima la calora ha assorbito il latte, come poco fa, invano mungeremo le poppe.
DAMETA
Ahi, ahi, quanto è magro il mio toto pur nell’erba grassa! l’amore è uguale rovina per il gregge e per il custode del gregge.
MENALCA
Per questi non è certo l’amore la causa, si reggono a stento; non so quale malocchio mi strega i teneri agnelli.
DAMETA
Dimmi, e sarai per me come il grande Apollo, in quali terre si apra uno spazio di cielo non più largo di tre braccia.
MENALCA
Dimmi in quali terre nascano fiori con scritti nomi di re, e ti terrai Filli da solo.
PALEMONE
Non è da me concludere fra di voi una così grande tenzone: e tu meriti la vitella e costui pure e chiunque trepiderà per un dolce amore, o lo proverà amaro. Chiudete i ruscelli, ragazzi: i prati han bevuto abbastanza.
EGLOGA QUARTA
Muse siciliane, cantiamo cose un poco più grandi! Non a tutti piacciono gli arbusti ed i bassi tamerischi; se cantiamo le selve, siano selve degne di un console.
Ora è giunta l’ultima età della profezia cumana, riprende da capo il grande ciclo dei secoli; ora anche la Vergine torna, tornano i regni di Saturno, dall’alto cielo è fatta scendere ora una nuova progenie. Tu dunque proteggi, casta Lucina, il fanciullo che sta nascendo, per il quale per la prima volta avrà fine la generazione del ferro e sorgerà in tutto il mondo quella dell’oro; ora governa il tuo Apollo. E proprio sotto il tuo, il tuo consolato, Pollione, avrà inizio questa splendida età e i grandi mesi cominceranno a trascorrere; sotto la tua guida, le tracce rimaste della nostra scelleratez- za dissolte libereranno dall’eterna paura le terre. Il fanciullo assumerà la vita degli dei, e vedrà gli eroi insieme agli dei ed egli stesso sarà visto da loro, e reggerà il mondo pacificato con le virtù paterne.
Ma per te, fanciullo, senza essere coltivata, la terra produrrà come primi piccoli regali edere erranti qua e là e bàccare e colocasia frammista a ridente acanto; come culla spontaneamente produrrà per te fiori delicati. Spontaneamente le caprette riporteranno a casa le poppe colme di latte, né più gli armenti avranno paura dei grandi leoni; e perirà il serpente, e perirà l’erba ingannatrice del veleno;
nascerà dappertutto amomo assirio. Ma appena sarai in grado di leggere le gesta gloriose degli eroi e le imprese del padre e di conoscere quale sia la virtù, a poco a poco la campagna si farà bionda di morbide spighe e penderà da rovi incolti rosseggiante l’uva e le dure querce trasuderanno miele rugiadoso. Ma della antica malvagità resteranno celate poche tracce, che indurranno a solcare il mare con battelli, a cingere di mura le città, a incidere di solchi la terra. Vi sarà allora un altro Tifi e un’altra Argo che trasporti scelti eroi; vi saranno ancora altre guerre e di nuovo il grande Achille sarà inviato a Troia. Quindi, quando ormai l’età adulta ti avrà fatto uomo, anche il navigante lascerà il mare, e la nave di pino non scambierà più le merci, tutta la terra produrrà tutto: il suolo non subirà rastrelli, né la vigna il falcetto, anche il robusto aratore libererà ormai dal giogo i buoi. La lana non apprenderà a simulare i vari colori, ma da sé sui prati l’ariete cambierà il suo vello ora nel color della porpora piacevolmente rosso ora nel color giallo dello zafferano; spontaneamente il minio scarlatto vestirà al pascolo gli agnelli. Concordi per la ferma volontà dei fati dissero ai loro fusi le Parche: «Filate tali secoli». Orsù, avvicìnati (ormai è tempo) ai grandi onori, cara progenie degli dei, incremento grande di Giove ! Guarda il mondo ondeggiante nella sua massa ricurva, e le terre e gli spazi del mare e il cielo profondo; guarda come tutto si allieti per il secolo che sta giungendo! Oh, a me allora rimanga l’ultima parte di una lunga vita, e tanta ispirazione quanto basterà per cantare le tue imprese! Nei canti non mi vincerà il tracio Orfeo né Lino, per quanto all’uno dia aiuto la madre e all’altro il padre, a Orfeo Calliope, a Lino il bell’Apollo. Anche Pan se gareggiasse con me davanti al giudizio d’Arcadia, anche Pan si dichiarerebbe vinto davanti al giudizio d’Arcadia.
Incomincia, bambino, a riconoscere nel sorriso la madre: lunga pena arrecarono i dieci mesi alla madre. Incomincia, bambino: colui al quale non sorrisero i genitori, né un dio lo degnò della sua mensa, né una dea del suo letto.
EGLOGA QUINTA
MENALCA, MOPSO
MENALCA
Perché, o Mopso – dal momento che ci siamo incontrati entrambi capaci, tu di soffiare le canne leggere della zampogna, io di cantare versi – non sediamo insieme qui tra gli olmi misti ai nocciòli?
MOPSO
Tu mi sei maggiore; è giusto che io ti ubbidisca, Menalca, sia che ripariamo alle ombre incerte degli alberi mentre soffiano gli Zefiri, sia piuttosto nella grotta. Guarda come la lambrusca selvatica ha cosparso la grotta di grappoli rari.
MENALCA
Qui sui nostri monti solo Aminta può gareggiare con te.
MOPSO
Che mai? egli gareggerebbe nel canto per superare anche Apollo.
MENALCA
Comincia tu, Mopso, per primo, se hai pronte o fiamme d’amore di Filli o elogi di Alcone o liti di Codro; comincia, Titiro curerà i capretti al pascolo.
MOPSO
Proverò piuttosto questi carmi, che ho iscritto poco fa sulla verde corteccia di un faggio ed ho intonato con ritmo alterno : tu poscia ordina che Aminta gareggi.
MENALCA
Quanto il salice flessibile è inferiore al pallido olivo, quanto l’umile saliunca ai purpurei roseti, tanto a mio giudizio ti è inferiore Aminta. Ma tu non dire altro, ragazzo: siamo entrati nella grotta.
MOPSO
Le Ninfe piangevano Dafni spento da morte crudele; voi testimoni per le Ninfe, nocciòli e fiumi, quando la madre abbracciando il cadavere miserevole di suo figlio chiama crudeli gli dei e le stelle.
Nessuno spinse in quei giorni i buoi dal pascolo alle fresche correnti, o Dafni; nessun quadrupede né gustò un sorso d’acqua né toccò un germoglio d’erba. Dafni, i monti selvaggi e le foreste raccontano che anche i leoni punici hanno pianto la tua morte.
Dafni insegnò ad aggiogare al carro perfino le tigri armene, Dafni ad introdurre le processioni di Bacco e ad intrecciare rami flessibili con tenere foglie. Come la vite orna le piante, come l’uva le viti, come i tori le mandrie, come le messi i fertili campi, tu sei tutto l’ornamento dei tuoi. Dopo che i fati ti hanno rapito, anche Pales ha abbandonato i campi ed anche Apollo. Nei solchi a cui più volte affidammo grandi semi di orzo crescono loglio infecondo e sterile avena; al posto della tenera viola e del purpureo narciso sorgono il cardo e la marruca dalle spine acuminate. Cospargete la terra di foglie, ricoprite d’ombra le fonti, pastori: Dafni raccomanda che per lui si facciano tali onoranze; e costruite un tumulo e sul tumulo incidete l’epitafio: «Io Dafni nei boschi, e di qui noto fino alle stelle, custode di un bel gregge, io stesso più bello».
MENALCA
Tale è il tuo canto per noi, divino poeta, come il sonno per coloro che giacciono stanchi sull’erba, come spegnere la sete durante la calura ad un rivo zampillante di acqua dolce. Tu eguagli il maestro non solo con la zampogna, ma con la voce: ragazzo fortunato, tu ora sarai il secondo dopo di lui. Ma adesso io ti canterò a mia volta come meglio potrò questi miei carmi, ed alzerò il tuo Dafni alle stelle, innalzerò Dafni alle stelle: anche a me Dafni ha voluto bene.
MOPSO
Ci potrebbe essere per me qualcosa di più prezioso di un tale dono? Certo il fanciullo era degno per sé di essere cantato e già da tempo Stimicone mi ha elogiato questi tuoi versi.
MENALCA
Radioso, Dafni guarda con meraviglia l’insolita entrata dell’Olimpo e scorge sotto i piedi le nubi e le stelle. Allora un intenso piacere pervade i boschi e le altre campagne e Pan e i pastori e le fanciulle Driadi.
Né il lupo tende insidie al bestiame, né le reti da caccia trappole ai cervi: benefico Dafni predilige la quiete. Anche i monti selvosi lanciano grida di gioia alle stelle, anche le rupi alzano ora canti, anche gli alberi esclamano: «Un dio, egli è un dio, Menalca!»
Oh, sii benefico e propizio ai tuoi! Ecco quattro are: eccone due per te, Dafni, due come altari per Febo. Tutti gli anni ti collocherò due coppe spumeggianti di latte fresco su ogni ara e un vaso di grasso olio, e rallegrando il convito prima di tutto con molto vino, davanti al focolare se farà freddo, all’ombra se sarà la stagione delle messi, verserò nei calici vino Ariusio, nuovo nettare. Per me canteranno Dameta e il littio Egone; Alfesibeo mimerà i Satiri danzanti. Sempre avrai questi onori, sia quando renderemo i voti di ogni anno alle Ninfe, sia quando purificheremo i campi.
Finché il cinghiale amerà i gioghi del monte, finché il pesce i corsi d’acqua, finché si nutriranno di timo le api, di rugiada le cicale, sempre dureranno il tuo onore e il nome tuo e la tua gloria. Come a Bacco e a Cerere, così a te faranno voti ogni anno i contadini; anche tu li costringerai a compiere i voti.
MOPSO
Quali, quali doni ti darò per una canzone come questa? che altrettanto non giungono a piacermi né il sibilo dell’Austro che si leva, né le spiagge battute dai flutti, né i fiumi che scorrono per le valli sassose.
MENALCA
Prima io ti farò dono di questo flauto delicato; questo mi insegnò: «Coridone ardeva per il
bell’Alessi», questo: «Di chi è il gregge? forse di Melibeo?»
MOPSO
Ma tu, Menalca, prendi il bastone, bello per i nodi uguali e il puntale di bronzo: benché spesso me lo abbia richiesto Antigene, non l’ha ottenuto (eppure allora era ben degno di essere amato).
EGLOGA SESTA
Talìa, la mia musa, mi concesse all’inizio di poetare in verso siracusano, e non arrossì di abitare nei boschi. Quando però mi accinsi a cantare di re e di battaglie, Cinzio mi tirò l’orecchio e mi ammonì: «Al pastore, Titiro, si addice di pascolare le grasse pecore, di comporre una canzone dimessa». Ora io comporrò un canto agreste sul flauto sottile (certo infatti saranno sempre numerosi attorno a te coloro che desiderano cantare le tue glorie, o Varo, e descrivere le tristi guerre). Non canto canzoni che non siano state comandate. Pure se qualcuno, se qualcuno attratto leggerà anche questi versi, i
nostri tamerischi e tutto il bosco risuoneranno di te, Varo; né a Febo alcuna pagina è più gradita di quella che ha scritto sul frontespizio il nome di Varo.
Avanti, Pieridi. I ragazzi Cromi e Mnasillo sorpresero in un antro Sileno sdraiato nel sonno, le vene gonfie, come sempre, del vino del giorno prima; discosto giacevano le ghirlande appena scivolate dal capo e pendeva il grosso boccale col manico logorato dall’uso. Gli si buttano addosso (più di una volta infatti il vecchio li aveva presi in giro entrambi con la speranza di un canto) e lo legano con lacci tratti da quelle stesse ghirlande; sopraggiunge e si unisce a quei due timorosi come compagna Egle, Egle, la più bella delle Nàiadi, e a lui ormai sveglio dipinge le tempie e la fronte di more sanguigne. Lui sorridendo dello scherzo: «A che scopo annodate i lacci?» dice; «scioglietemi, ragazzi; vi basti avermi veduto. Ascoltate i canti che desiderate; per voi i canti, per costei vi sarà un’altra ricompensa». E subito comincia. Allora avresti davvero potuto vedere Fanni e fiere danzare al tempo, allora avresti potuto vedere rigide querce far ondeggiare le cime; la rupe del Parnaso non si allieta altrettanto del canto di Febo, né il Rodope e l’Ismaro altrettanto ammirano Orfeo.
Cantava infatti come nel vuoto immenso si trovassero ammassati gli atomi della terra, dell’aria, del mare e insieme del puro fuoco; come da questi primi elementi si condensassero tutte, tutte le cose, e lo stesso molle globo del mondo; poi come il terreno cominciasse a indurirsi e a separare il mare nella distesa delle acque e a prendere a poco a poco le forme delle cose; e come già le terre stupiscano alla luce del sole non mai veduto prima, e come cadano le piogge da nubi sospinte sempre più in alto, e come subito comincino a spuntare foreste e rari animali vaghino per monti ignari.
Narra quindi delle pietre scagliate da Pirra, dei regni di Saturno e dell’aquila del Caucaso e del furto di Prometeo. Prosegue con il racconto della fonte alla quale fu abbandonato Ila mentre gli Argonauti lo chiamavano e tutto il lido ripeteva: «Ila, Ila!»; e consola Pasifae dell’amore del giovenco color della neve, fortunata lei se non fossero mai esistiti gli armenti. Ah, giovane infelice, quale pazzia ti ha preso? Le Pretidi riempirono i campi di falsi muggiti, ma nessuna tuttavia cercò amplessi tanto turpi di bestie, per quanto avesse temuto il giogo dell’aratro sul collo e spesso avesse cercato le corna sulla fronte liscia. Ah, giovane infelice, tu ora vai errando sui monti; lui, appoggiato il fianco color della neve su teneri giacinti, sotto un’elce scura rumina chiare erbette o insegue qualcuna nel grande gregge. «Chiudete Ninfe, Ninfe dittee chiudete ora i passi dei boschi, se mai per caso si mostrino ai miei occhi le orme errabonde del toro; o forse attratto dall’erba verde o seguendo l’armento, qualche giovenca lo guidi alle stalle di Gortina».
Poi canta la fanciulla che ammirò i pomi delle Esperidi; poi col canto riveste del muschio di un’amara corteccia le sorelle di Fetonte e le fa ergere dal suolo come grandi ontani. Poi canta come una delle Muse condusse sui monti d’Aonia Gallo che vagava lungo le correnti del Permesso, e come davanti a quell’uomo si alzò tutto il coro di Febo; come il pastore Lino, i capelli ornati di fiori e di appio amaro, gli disse con canto profetico queste parole: «Le Muse ti donano questa zampogna, su prendila; la diedero prima al vecchio Ascreo, e con essa egli era solito trascinare col canto dai monti i rigidi ornielli. Con essa tu possa cantare l’origine del bosco di Grinio, affinché non esista altro bosco di cui Apollo si vanti di più».
A che dirò come abbia narrato o di Scilla di Niso, che è fama travagliasse le navi dulichie cinta intorno al candido ventre di mostri latranti e, ah, nel gorgo profondo sbranasse con cani marini i naviganti atterriti; o come abbia narrato della trasformazione delle membra di Tereo, quali vivande, quali doni gli preparasse Filomela, con quale corsa fuggisse nei deserti e con quali ali prima di andarsene l’infelice svolazzasse sopra la propria casa?
Egli continua a cantare tutte le cose che l’Eurota beato aveva ascoltato, quando un tempo Febo le componeva, e aveva comandato che le imparassero a memoria gli allori; le valli facendo eco le riportano alle stelle, finché sopraggiunse Vespro malgrado il disappunto dell’Olimpo, e comandò di spingere le pecore alle stalle e di farne la conta.
EGLOGA SETTIMA
MELIBEO, CORIDONE, TIRSI
MELIBEO
Per caso Dafni si era seduto ai piedi di un leccio mormorante, e Coridone e Tirsi avevano radunato insieme le greggi, Tirsi le pecore, Coridone le caprette turgide di latte: entrambi nel fiore dell’età, entrambi Arcadi, e pari nel cantare e pronti nel rispondere. Qui appunto, mentre io attendevo a proteggere dal freddo i teneri mirti, era arrivato smarrendo il cammino proprio il mio caprone, maschio del gregge; ed io scorgo Dafni. Quando egli a sua volta mi vede: «Presto» dice a vieni qui, o Melibeo; il tuo caprone è in salvo e così i capretti; riposa sotto l’ombra, se puoi indugiare un poco. Qui attraverso i prati i giovenchi verranno spontaneamente a bere, qui il Mincio ha coperto le rive verdeggianti di tenere canne, e dalle querce sacre risuona il ronzio degli sciami». Che fare? io non avevo né Alcippe né Filli per chiudere in casa gli agnelli svezzati, e la gara di Coridone con Tirsi era grande; infine al loro canto ho posposto i miei seri lavori. Con versi alterni cominciarono dunque entrambi a gareggiare; le Muse volevano che li ricordassero alterni. Questi versi ripeteva Coridone, quelli Tirsi subito dopo.
CORIDONE
Ninfe Libetridi, amore nostro, concedetemi un canto quale al mio Codro (egli compone in versi canti vicini a quelli di Febo), o, se non tutti ne siamo capaci, qui la mia zampogna canora penderà dal sacro pino.
TIRSI
Pastori Arcadi, ornate di edera il nascente poeta, perché di invidia si rompano le viscere di Codro; o, se darà lodi oltre il lecito, cingetemi la fronte di bàccare, perché la mala lingua non nuoccia al vate futuro.
CORIDONE
O Delia, il piccolo Micone ti offre questa testa di setoloso cinghiale e le corna ramose di un cervo longevo. Se questo dono durerà, tu ti innalzerai tutta intera nel marmo levigato con i polpacci avvinti da un coturno purpureo.
TIRSI
Ti basti, o Priapo, attenderti ogni anno un boccale di latte e queste focacce; di un orto modesto sei custode. Per il momento ti abbiamo fatto di marmo; ma, se i parti completeranno il gregge, tu diventerai d’oro.
CORIDONE
Nerina Galatea, più dolce per me del timo dell’ Ibla, più candida dei cigni, più bella dell’edera bianca, non appena i tori pasciuti ritorneranno alle stalle, vieni, se hai un poco d’amore per il tuo Coridone.
TIRSI
Sì, che io ti appaia più amaro delle erbe sardoniche, più ispido del pungitopo, più vile di un’alga gettata, se per me questa giornata non è già più lunga di un anno intero. Andate a casa pasciuti, se un poco almeno vi vergognate, andate giovenchi
CORIDONE
Fonti muschiose ed erba più soffice del sonno, e verde corbezzolo che vi copre di ombra rara, difendete il gregge dalla canicola; già si avvicina la torrida estate, già i germogli si gonfiano sul flessibile tralcio di vite.
TIRSI
Qui focolare e legna resinose, qui sempre fuoco abbondante e stipiti neri per la continua fuliggine; qui tanto ci curiamo dei freddi di Borea, quanto o il lupo del numero, o i fiumi impetuosi delle rive.
CORIDONE
Stan ritti i ginepri ed i castagni irti di ricci, giacciono sparsi qua e là i frutti ciascuno sotto il suo albero, ogni cosa è lieta ora; ma se il bell’Alessi andasse via da questi monti, vedresti anche i fiumi senz’acqua.
TIRSI
Inaridisce il campo, muore di sete l’erba per l’aria ammorbata, Libero ha rifiutato ai colli l’ombra dei pampini; ma all’arrivo della mia Filli tutta la selva verdeggerà, e Giove scenderà abbondante con pioggia feconda.
CORIDONE
Carissimo è il pioppo ad Alcide, la vite a Bacco, il mirto alla bella Venere, a Febo il suo alloro; Filli ama i nocciòli; fin tanto che li amerà Filli, né il mirto né l’alloro di Febo vinceranno i nocciòli.
TIRSI
Bellissimo è il frassino nei boschi, il pino nei giardini, il pioppo lungo i fiumi, l’abete negli alti monti; ma se più spesso mi tornassi a visitare, Licida bello, a te cederebbe il frassino nei boschi, il pino nei giardini.
MELIBEO
Questo ricordo, e che Tirsi vinto gareggiava inutilmente. Da allora Coridone è per noi Coridone.
EGLOGA OTTAVA
Dirò il canto dei pastori Damone ed Alfesibeo: dimentica delle erbe la giovenca si fermò ad ammirarli mentre gareggiavano, per la loro canzone le linci si stupirono ed i fiumi mutato aspetto fermarono il loro corso, dirò il canto di Damone e di Alfesibeo.
Tu per me, sia che tu abbia ormai oltrepassato le rupi del grande Timavo, sia che rasenti la spiaggia del mare illirico, – giungerà mai quel giorno, in cui mi sia dato di celebrare le tue imprese? sarà mai che io possa diffondere per tutto il mondo i tuoi canti, i soli degni del coturno di Sofocle? Da te il principio, per te finirò: accogli i canti iniziati per tua volontà, e lascia che intorno alle tue tempie fra gli allori della vittoria serpeggi quest’edera.
L’ombra fredda della notte aveva appena lasciato l’orizzonte, sulla tenera erba stava la rugiada graditissima agli animali; appoggiato ad un affusolato bastone di olivo così Damone incominciò:
DAMONE
Sorgi e prevenendolo conduci il giorno benefico, Lucifero, mentre io, ingannato dall’indegno amore di Nisa promessa sposa, mi lamento e sul punto di morte, nell’ora estrema, mi rivolgo ancora agli dei, per quanto nulla mi abbia valso averli testimoni. Intona con me, o mio flauto, del Menalo i versi.
Sempre ha il Menalo bosco mormorante e pini che sussurrano, sempre egli ascolta gli amori dei pastori e ascolta Pan, che per primo non permise che fossero senza arte le canne. Intona con me, o mio flauto, del Menalo i versi.
Nisa si dà a Mopso; che cosa non dobbiamo attenderci noi innamorati? a questo punto i grifoni si accoppieranno alle cavalle, e subito dopo le timide daine verranno a bere coi cani. Mopso, prepara nuove fiaccole: ti si conduce la sposa; spargi, o marito, le noci: per te Espero lascia l’Eta. Intona con me, o mio flauto, del Menalo i versi.
O sposa ad un uomo par tuo, tu che tutti disprezzi, tu a cui sono invise la mia zampogna, le caprette, il mio ispido sopracciglio, la barba fluente, tu che credi che nessuno degli dei si curi delle cose mortali. Intona con me, o mio flauto, del Menalo i versi.
Tra le mie siepi ti vidi bambina mentre con mia madre coglievi mele stillanti rugiada (ero io la vostra guida). Ero già entrato allora nel tredicesimo anno, già potevo toccare da terra i rami sottili. Come ti vidi, così mi sentii perduto, così mi rapì un triste smarrimento! Intona con me, o mio flauto, del Menalo i versi.
Ora so cosa sia Amore: su nude rocce lo generano o il Tmaro o la Rodope o i remoti Garamanti, bimbo non della nostra razza né del nostro sangue. Intona con me, o mio flauto, del Menalo i versi.
Feroce Amore insegnò alla madre a macchiarsi le mani del sangue dei suoi figli. Madre, perfino tu crudele. Più crudele la madre, o lui bimbo malvagio? malvagio quel bimbo, crudele anche tu, madre Intona con me, o mio flauto, del Menalo i versi.
Ora il lupo eviti spontaneamente il gregge, le dure querce producano mele dorate, l’ontano fiorisca di narciso, i tamerischi stillino l’ambra viscosa dalla corteccia, i barbagianni gareggino anche coi cigni, Titiro sia un Orfeo, un Orfeo nei boschi, un Arione tra i delfini. Intona con me, o mio flauto, del Menalo i versi.
Si trasformi pure ogni cosa in mare profondo. Addio, selve: a capofitto dalla sommità dell’alto monte mi getterò nelle onde; abbi quest’ultimo dono di un morente. Cessa, ormai cessa, o flauto, del Menalo i versi.
Così Damone; cantate voi, o Pieridi, la risposta di Alfesibeo; non tutti possiamo tutto.
ALFESIBEO
Porta acqua, e cingi questo altare di morbida benda e brucia grasse verbene e maschio incenso, perché io provi con riti magici a catturare i sensi sani del promesso sposo; qui non manca nulla se non i versi magici. Riportate dalla città a casa, o miei versi, riportate Dafni.
Possono i versi trarre anche giù dal cielo la luna, con versi Circe trasformò i compagni di Ulisse, il freddo serpente si schianta nei prati al suono dei versi. Riportate dalla città a casa, o miei versi, riportate Dafni.
Prima di tutto ti metto attorno a tre a tre questi fili di tre diversi colori, e tre volte porto la sua immagine intorno a questo altare; del numero dispari gioisce il dio. Lega con tre nodi, Amarilli, ciascuno dei tre colori; annoda dunque, Amarilli, e pronuncia queste parole: «Lego i lacci di Venere». Riportate dalla città a casa, o miei versi, riportate Dafni.
Come questa creta indurisce e come questa cera si liquefa per un unico e medesimo fuoco, così Dafni per il nostro amore. Spargi il farro e brucia col fuoco sacro i fragili rami dell’alloro: Dafni cattivo fa ardere me, io ardo questo alloro sull’immagine di Dafni. Riportate dalla città a casa, o miei versi, riportate Dafni.
Tale colga Dafni un amore, quale coglie una giovane vacca, quando stanca di cercare il giovenco tra radure e fitte foreste stramazza vicino ad un rivo d’acqua sulla verde erba palustre, e fuori di sé dimentica di ripararsi davanti alla lunga notte, tale un amore lo colga né io mi curi di sanarlo. Riportate dalla città a casa, o miei versi, riportate Dafni.
Queste vesti mi lasciò una volta quel traditore, pegni cari di sé, che io ora proprio sulla soglia di casa, Terra, ti affido; questi pegni mi sono debitori di Dafni. Riportate dalla città a casa, o miei versi, riportate Dafni.
Queste erbe e questi veleni, colti nel Ponto, Meri in persona mi ha dato; nascono numerosi nel Ponto. Per mezzo di questi ho veduto Meri spesso trasformarsi in lupo e nascondersi nelle foreste, spesso evocare le anime dai profondi sepolcri e trasportare altrove le messi seminate. Riportate dalla città a casa, o miei versi riportate Dafni. Porta fuori le ceneri, Amarilli, e gettale dietro le
spalle nel ruscello che scorre. E non voltarti indietro! Con queste magie io assalirò Dafni; egli non rispetta gli dei, né i versi magici. Riportate dalla città a casa, o miei versi, riportate Dafni.
«Guarda: la cenere stessa ha avvolto spontaneamente l’altare di tremule fiamme, mentre tardavo a portarla fuori. Sia buon presagio!» É certo qualcosa e Ilace abbaia sulla soglia. Debbo credere? o si fingono da sé i propri sogni coloro che amano? Interrompetevi, dalla città viene Dafni, interrompetevi ormai, o versi.
EGLOGA NONA
LICIDA MERI
LICIDA
Dove ti dirigi, Meri? forse in città, dove porta la strada?
MERI
O Licida, vivi siamo giunti al punto che uno straniero – cosa che non avremmo mai temuto -, diventato padrone del nostro campicello, possa dire: «Questa è roba mia; andatevene, vecchi contadini». Ora vinti, tristi, poiché il Caso muta a capriccio ogni cosa, gli mandiamo questi capretti, ma non gliene venga buon pro.
LICIDA
Eppure avevo sentito come cosa certa che dove i colli cominciano a digradare e a piegare la cima in dolce pendio, Eno all’acqua e ai vecchi faggi dalle cime ormai spezzate, tutto con i suoi carmi aveva salvato il vostro Menalca.
MERI
L’avrai sentito e ne corse la voce; ma i nostri carmi, Licida, valgono tra le armi di Marte solo quanto, si dice, le caonie colombe all’arrivo delle aquile. Che se una cornacchia da un cavo leccio a sinistra non mi avesse prima ammonito a troncare in qualsiasi modo nuove liti, questo tuo Meri non vivrebbe più, né lo stesso Menalca.
LICIDA
Ahi, qualcuno può essere vittima di un delitto così terribile? ahi, per poco insieme con te non ci furono tolte anche le consolazioni che tu ci dai, Menalca! Chi canterebbe le Ninfe? chi cospargerebbe la terra di erbe fiorite o coprirebbe di verde ombra le fonti? o il canto che ti levai di soppiatto poco fa, mentre ti recavi dal nostro amore Amarilli: «Titiro, finché torno – la via è corta – pascola le caprette e, pasciutele, portale a bere, Titiro, e nel condurle bada a non andar contro al caprone: esso ferisce col corno».
MERI
Piuttosto questi versi, che ancora incompiuti cantava a Varo: «Varo, il tuo nome i cigni col loro canto leveranno in alto alle stelle, purché ci resti Mantova, Mantova ahimè troppo vicina all’infelice Cremona!»
LICIDA
Possano i tuoi sciami evitare i tassi di Cirno, possano le tue vacche pasciute di trifoglio colmare le poppe; dai inizio al canto, se hai qualcosa da cantare. Anche me resero poeta le Pieridi, anche io ho canzoni, me pure chiamano vate i pastori; ma io non credo a loro: ancora non mi sembra infatti di comporre cose degne di Vario né di Cinna, ma di strepitare come oca fra i cigni melodiosi.
MERI
- appunto ciò che faccio e in silenzio, Licida, rimugino fra me stesso, se mi riesce di ricordare; e non è un canto ignobile. «Vieni qui, o Galatea; che piacere c’è dunque fra le onde? qui è la splendente primavera, qui sulle rive dei fiumi la terra sparge fiori variopinti, qui un candido pioppo sovrasta una grotta e le viti flessibili intessono ombrosi pergolati. Vieni qui; lascia che i flutti battano furiosi i lidi».
LICIDA
E quei versi che ti avevo udito cantare da solo nella notte serena? ricordo il motivo: se ricordassi le parole!
MERI
«Dafni, perché osservi il sorgere antico degli astri? ecco è apparsa la stella di Cesare Dioneo, stella per cui i campi si allietano di messi e per cui l’uva prende colore sui colli solatii. Innesta i peri, Dafni; i nipoti coglieranno i tuoi frutti». Tutto porta via il tempo, anche la memoria: ricordo che spesso da ragazzo trascorrevo cantando lunghe giornate; ora ho scordato tante canzoni, anche la stessa voce fugge ormai Meri; i lupi videro Meri per primi. Tuttavia questi canti te li potrà ripetere più spesso Menalca.
LICIDA
Rinvii con pretesti i miei desideri. Ed ora tutta la piana tace distesa dinanzi a te ed è caduto, guarda, ogni soffio di vento mormorante; qui siamo proprio a metà del cammino; e infatti comincia ad apparire il sepolcro di Bianore. Qui, dove i contadini sfrondano il denso fogliame, qui, Meri, cantiamo; qui deponi i capretti, arriveremo egualmente in città. O se temiamo che la notte addensi prima la pioggia, possiamo procedere continuando a cantare (il cammino sarà così meno faticoso); perché si cammini cantando, ti
alleggerirò di questo fardello.
MERI
Cessa di parlare, ragazzo, e facciamo ciò che ora preme; canteremo meglio le canzoni allora, quando egli stesso sarà arrivato.
EGLOGA DECIMA
Concedimi, Aretusa, quest’ultima fatica: pochi versi debbo dire al mio Gallo, ma tali che li legga la stessa Licoride; chi negherebbe dei versi a Gallo? e così, quando tu scorrerai sotto i flutti sicani, possa Doride non mischiare con te la sua onda salata. Inizia; cantiamo i tormentosi amori di Gallo, mentre le caprette camuse brucano i teneri virgulti. Non cantiamo a sordi, le selve riecheggiano ogni cosa.
In quali boschi o quali pascoli vi trovavate, fanciulle Naiadi, mentre di un amore non meritato Gallo periva? non vi trattennero infatti né i gioghi del Parnaso né quelli del Pindo né l’aonia Aganippe. Per lui piansero anche i lauri, anche i tamerischi, per lui che giaceva sotto una rupe solitaria piansero anche il Menalo ricco di pini e le rocce del freddissimo Liceo. S’arrestano d’intorno anche le pecore; esse non ci evitano, tu non evitare il gregge, divino poeta; anche il bell’Adone portò a pascolare le pecore ai fiumi. Giunse anche il pastore, giunsero i tardi porcari, giunse Menalca bagnato dall’aver raccolto le ghiande invernali. Tutti chiedono: «Donde ti è venuto codesto amore?» Giunse Apollo, e dice: «Gallo, perché impazzisci? Licoride, il tuo amore, ha seguito un altro attraverso nevi e attraverso accampamenti irti di armi». Venne anche Silvano, ornato il capo di fronde agresti, scuotendo canne fiorite e grandi gigli. Venne Pan dio dellArcadia, che noi stessi vedemmo rosso per le bacche sanguigne del sambuco e per il minio: «E che misura vi sarà mai?» disse, «Amore non cura tali cose; Amore crudele non si sazia delle lacrime, né le erbette dei ruscelli, né le api del trifoglio, né le caprette delle frasche».
Ma quegli triste rispose: «Almeno ciò canterete, o Arcadi, alle vostre montagne, voi soli capaci di cantare, Arcadi. O come dolcemente le mie ossa riposerebbero, se un giorno la vostra zampogna cantasse il mio amore! Ah se io fossi stato uno di voi, custode di un vostro gregge o vignaiuolo di uva matura! Certo se la mia folle passione fosse Filli o Aminta o chiunque altro (che importa se Aminta è bruno di pelle? anche le viole sono scure e scuri i giacinti), con me tra i salici giacerebbe, sotto la vite flessibile; coglierebbe per me mazzi di fiori Filli, canterebbe Aminta.
Qui fresche fonti, qui soffici prati, Licoride, qui bosco; qui con te sarei consunto solo dal trascorrere del tempo. Ora un folle amore mi trattiene fra le armi del duro Marte in mezzo alle frecce ed ai nemici ostili: tu sei lungi dalla patria, o non vorrei dover credere tanto! ah, crudele, sola senza di me vedi le nevi delle Alpi e i freddi del Reno. Ah, che i freddi non ti facciano male! ah, che il ghiaccio pungente non ferisca i tuoi piedi delicati!
Andrò e quei carmi che ho composto con verso calcidico li modulerò con il flauto del pastore siculo. Ho deciso: preferisco soffrire nelle foreste tra covi di fiere e incidere i miei amori sulle tenere cortecce degli alberi; cresceranno quelli, crescerete voi, amori. Intanto percorrerò il Menalo in compagnia delle Linfe o caccerò i focosi cinghiali; il gelo non mi impedirà mai di circondare coi cani le balze del Partenio. Già mi pare di procedere per rupi e boschi sonanti; mi diletta scagliare frecce cretesi con arco partico, come se ciò fosse un rimedio alla mia folle passione o quel dio imparasse ad ammansirsi ai mali degli uomini.
Oramai non mi piacciono più né le Amadriadi e neppure i canti; voi stesse foreste di nuovo allontanatevi. Le nostre sofferenze non possono mutare l’amore, neppure se nel freddo più intenso attingessimo all’Ebro e affrontassimo le nevi sitonie di un umido inverno; neppure se, quando la corteccia inaridisce morendo sull’alto olmo, spingessimo le pecore degli Etiopi sotto la costellazione del Cancro: Amore vince ogni cosa, anche noi cediamo ad Amore».
Vi basterà, o dive, che questo abbia cantato il vostro poeta, mentre siede e con il sottile ibisco intreccia un cestello, o Pieridin; voi renderete questo canto preziosissimo a Gallo, a Gallo, per cui il mio amore tanto cresce di ora in ora, quanto si alza di primavera il verde ontano. Alziamoci; gravosa suole essere ai cantanti l’ombra, gravosa l’ombra del ginepro; anche alle messi nuocciono le ombre. Rincasate sazie, viene Espero, andate, caprette.