VIRGILIO ENEIDE II VV 1-267

VIRGILIO ENEIDE II VV 1-267

(trad. M. Ramous)

ENEA RACCONTA LA FINE DI TROIA


Tacquero tutti: gli occhi intenti al viso di Enea
pendevano dalle sue labbra. Dal suo posto d’onore,
bene in vista, l’eroe cominciò in questi termini:
Regina, tu mi chiedi di rinnovare un dolore
inesprimibile; mi ordini di dire come i Greci
abbian distrutto Troia, le sue ricchezze, il suo regno
degno di pianto e narrarti tutte le cose tristi
che ho visto coi miei occhi ed alle quali tanto
ho preso parte! Chi potrebbe trattenersi
dalle lagrime a un tale racconto, fosse pure
soldato del duro Ulisse o Mirmidone o Dolope?
E già l’umida notte precipita dal cielo,
le stelle, tramontando, ci persuadono al sonno.
Ma se proprio desideri conoscere le nostre
disgrazie ed ascoltare brevemente l’estrema
sciagura di Troia, quantunque il mio animo
inorridisca al ricordo e rilutti di fronte
a così grave dolore, parlerò.
I capi greci, prostrati dalla guerra e respinti dai Fati
dopo tanti e tanti anni, con l’aiuto di Pallade
fabbricano un cavallo simile a una montagna,
ne connettono i fianchi di tavole d’abete,
fingendo che sia un voto (così si dice in giro)
per un felice ritorno. Di nascosto, nel fianco
oscuro del cavallo fanno entrare sceltissimi
guerrieri, tratti a sorte, riempiendo di una squadra
in armi la profonda cavità del suo ventre.
Proprio di fronte a Troia sorge Tenedo, un’isola
molto nota, ricchissima finché il regno di Priamo
fu saldo, adesso semplice approdo malsicuro:
i Greci sbarcano là, celandosi nel lido
deserto. Noi pensammo che fossero andati via
salpando verso Micene col favore del vento.
E subito tutta la Troade esce dal lungo lutto.
Spalanchiamo le porte: come ci piace andare
liberi ovunque e vedere gli accampamenti dorici,
la pianura deserta, la spiaggia abbandonata!
“C’erano i Dolopi qui, il terribile Achille
si accampava laggiù, qui tiravano a secco
le navi, e là di solito venivano a combattere.”
Alcuni stupefatti osservano il fatale
regalo della vergine Minerva ed ammirano
la mole del cavallo; Timete per primo
ci esorta a condurlo entro le mura e a porlo
sull’alto della rocca, sia per tradirci, sia
perché le sorti di Troia volevano così.
Invece Capi ed altri con più accorto giudizio
chiedono che quel dono insidioso dei Greci
sia gettato nel mare od arso, e che i suoi fianchi
siano squarciati e il suo ventre sondato in profondità.
La folla si divide tra i due opposti pareri.
Allora, accompagnato da gran gente, furioso,
Laocoonte discende dall’alto della rocca
e grida da lontano: “Miseri cittadini,
quale follia è la vostra? Credete che i nemici
sian partiti davvero e che i doni dei Greci
non celino un inganno? Non conoscete Ulisse?
O gli Achivi si celano in questo cavo legno,
o la macchina è fatta per spiare oltre i muri
e le difese fin dentro le nostre case e piombare
dall’alto sulla città, o c’è sotto qualche altra
diavoleria: diffidate del cavallo, o Troiani,
sia quel che sia! Temo i Greci, anche se portano doni.”
Così detto scagliò con molta forza la grande
lancia nel ventre ricurvo del cavallo di legno.
L’asta s’infisse oscillando, le vuote cavità
del fianco percosso mandarono un gemito
rimbombando. Ah, se i Fati non fossero stati
contrari e le nostre menti accecate Laocoonte
ci avrebbe convinto a distruggere il covo
dei Greci; e tu ora, Troia, saresti ancora in piedi,
e tu, rocca di Priamo, ti leveresti in alto!
Ma ecco dei pastori troiani trascinare
davanti al re, fra le urla, un giovane sconosciuto
dalle mani legate dietro la schiena: s’era
consegnato da solo ai pastori per dare
l’ultimo tocco all’inganno e aprire Troia agli Achei,
risoluto nell’animo a condurre a buon fine
le sue frodi o soccombere a una morte sicura.
La gioventù troiana accorre da ogni parte
verso di lui, gli fa ressa intorno per vederlo,
fa a gara ad insultarlo. Ora ascolta le insidie
degli Argivi ed impara a conoscerli tutti
dal crimine di uno solo…
Quando inerme, impaurito, si fermò tra di noi
guardando le schiere frigie, disse: “Ormai quale terra,
quali mari potranno accogliermi? Che cosa
può fare un infelice che non ha posto al mondo
dove stare tra i Greci, e il cui sangue gli ostili
Troiani ora reclamano, per vendetta?” Quel pianto
frenò la nostra rabbia, ci calmò. Lo esortiamo
a raccontarci chi sia, da che sangue discenda,
per qual motivo stia lì: ci dica perché e come
dovremmo fidarci di un Greco prigioniero.
Finalmente, deposto ogni timore, disse:
“O re, confesserò la verità, qualsiasi
cosa accada: anzitutto sono di stirpe argolica,
non lo nego; la sorte maligna ha fatto di me
un infelice, ma mai un imbroglione e un bugiardo.
Forse t’è giunta alle orecchie notizia del nome glorioso
di Palamede, il Belide, che i Greci mandarono a morte
innocente, accusandolo a torto di tradimento
con una causa truccata, perché era contro la guerra;
ora, morto, lo piangono. Il mio povero padre
mi mandò a questa guerra dai primi anni, compagno
di Palamede che m’era anche legato per sangue.
Finché egli mantenne rango reale e importanza
nelle riunioni dei re, io pure ebbi una fama,
io pure fui onorato. Ma quando Palamede
per l’invidia di Ulisse (dico cose ben note)
abbandonò morendo le regioni dell’aria,
mi ritirai in disparte, afflitto, in solitudine
ed in lutto, indignato tra me per la sventura
dell’amico innocente. Pazzo che fui, non seppi
tacere! Promisi che avrei fatto vendetta
se mi si presentasse l’occasione, tornato
vittorioso alla patria Argo: suscitai odii
terribili con tali parole. Questa fu
l’origine dei miei guai: Ulisse cominciò
da allora a spaventarmi con sempre nuove calunnie,
a diffondere voci ambigue tra la gente,
a cercare di nuocermi, conscio della sua colpa.
Né si dié pace finché, con l’aiuto di Calcante…
Ma perché ricordare vanamente quei casi
dolorosi? Perché indugiare se avete
in odio tutti i Greci e vi basta sapere
che sono Greco? Presto, mandatemi al supplizio:
è quel che vuole Ulisse, è quello che gli Atridi
sarebbero disposti a pagare a gran prezzo!”
Bruciamo dalla voglia d’interrogarlo e sapere
le cause della sua fuga, ignari della perfidia
e dell’astuzia dei Greci. Tremando egli continua,
quel cuore falso, e ci dice: “I Danai tante volte
desiderarono andarsene, abbandonare Troia
e fuggire via, stanchi di questa guerra eterna.
Oh, l’avessero fatto! Spesso l’aspra tempesta
chiuse loro le strade del mare e Austro terribile
li costrinse a fermarsi. Già sorgeva il cavallo
fatto di travi d’acero; allora più che mai
i nembi risuonavano per tutto il vasto cielo.
Inquieti mandiamo Euripilo a interrogare l’oracolo
di Apollo, ed egli ne torna con questo triste responso:
– Placaste i venti col sangue d’una vergine uccisa
quando la prima volta veniste alle spiagge di Troia,
o Danai: ora dovete implorare un ritorno
felice con altro sangue, sacrificare un’anima
d’Argo! – Tutti stupirono quando la voce giunse
alle orecchie del popolo, un gelido tremore
corse per tutte le ossa: chi mai dovrà morire,
chi sarà mai la vittima reclamata da Apollo?
A questo punto Ulisse trascina fra la gente
che urlava sbigottita l’indovino Calcante:
gli chiede spiegazioni sul volere dei Numi.
E molti mi avvertivano della frode crudele
di quell’ingannatore, prevedendo in silenzio
l’avvenire. Calcante tace per dieci giorni
chiuso in sé, rifiutando di nominare alcuno,
di mandare qualcuno a morire. Alla fine,
quasi per forza, spinto dalle grida di Ulisse,
parla come d’accordo, mi destina all’altare
del sacrificio. Tutti assentirono, lieti
permisero che ciò che ognuno temeva per sé
ricadesse su un altro. E già si avvicinava
l’infausto giorno, già per me si preparavano
il sacrificio, le bende da mettere intorno alle tempie,
il frumento salato: mi strappai alla morte,
lo confesso, spezzai le corde e nella notte
mi nascosi tra l’erba e il fango d’uno stagno,
finché non facessero vela, pregando che partissero.
Non spero più oramai di rivedere la patria
né i cari figli né il padre tanto desiderato:
gli Atridi forse vorranno fare su loro vendetta
della mia fuga, espiando con quel sangue la colpa
di non avermi ucciso. Perciò ti prego, o re,
per i Celesti e gli Dei che sanno la verità,
per la fede, se c’è ancora un po’ di fede
tra i mortali, pietà di tante mie miserie,
pietà del mio cuore che soffre senza colpa.”
Gli doniamo la vita, commossi da tante lagrime,
lo compatiamo molto. Lo stesso Priamo comanda
che gli sian tolti i legami e le manette, e gli dice
amichevolmente: “Chiunque tu sia dimentica i Greci,
consìderati dei nostri. Ma dimmi la verità:
perché quest’immenso cavallo? Chi ne è l’inventore?
A che serve? È un ex-voto o un ordigno di guerra?”
Sinone, esperto d’inganni e di trappole greche,
levò verso le stelle le mani liberate
dalle manette e disse: “Chiamo a testimoniare
voi, fuochi eterni, la vostra divinità inviolabile,
e voi altari e voi spade da cui fuggii,
e voi bende divine che quand’ero una vittima
ho portato: m’è lecito spezzare il giuramento
che mi consacra ai Greci, m’è lecito odiare
i Greci e rivelare tutto quel che nascondono;
non c’è più alcuna legge che possa trattenermi.
O Troia, tu mantieni le tue promesse, ed io
ti salverò (dirò la verità, rendendoti
in cambio della vita un immenso servigio):
rimani dunque fedele alla tua santa parola!
Le speranze dei Greci per la guerra intrapresa
si basarono sempre sull’aiuto di Pallade.
Ma un giorno l’empio Tidide e Ulisse l’ingannatore,
volendo strappare dal tempio il Palladio fatale,
uccise le sentinelle della rocca, rapirono
la sacra statua e osarono toccare con le mani
insanguinate le bende virginee di Minerva:
da allora tali speranze decrebbero, svanirono,
le forze s’indebolirono, la mente della Dea
divenne ostile, avversa. La Tritonia Minerva
lo fece loro capire con prodigi evidenti.
Appena la statua fu posta in mezzo all’accampamento
nei suoi occhi sbarrati arsero fiamme d’ira,
un sudore salato corse per le sue membra;
per tre volte la Dea (miracolo incredibile)
balzò da terra impugnando lo scudo e l’asta oscillante.
Calcante subito annunzia che bisogna fuggire
per il mare, che Pergamo non potrà mai cadere
sotto le lance argoliche se non si torna ad Argo
a chiedere gli auspici, portandovi il Palladio
e poi riconducendolo sulle curve carene.
Ora, benché ritornino col favore del vento
alla patria Micene, cercano nuove armi,
Dei propizi e ben presto, rinavigato il mare,
giungeranno improvvisi: così Calcante interpreta
i presagi. Calcante ancora li ha convinti
a lasciare qui il cavallo al posto del Palladio
per riparare l’offesa alla Dea ed espiare
il triste sacrilegio; e ha ordinato di farlo
così grande, così ben contesto di travi
– una mole che si alzi sino al cielo – perché
non possa passare attraverso le porte,
perché i Troiani non riescano a introdurlo in città
a proteggere il popolo col santo, antico culto.
Ché se le vostre mani violano il dono sacro
di Minerva (gli Dei ritorcano su Calcante,
prima, questo presagio!) una disgrazia estrema
ne verrebbe all’impero di Priamo ed ai Troiani;
invece se riuscirete a spingere il cavallo
sino in cima alla rocca, sarete vittoriosi,
porterete la guerra fin sotto le mura di Pelope:
ecco quale destino attende i nostri nipoti.”
Grazie all’arte insidiosa dello spergiuro Sinone
la storia fu creduta: e coloro che Achille
e il Tidide e dieci anni e migliaia di navi
non riuscirono a vincere, li vinsero la frode
e le lagrime finte d’un Greco ingannatore.
Allora un altro evento molto più spaventoso
sopraggiunse improvviso a turbarci: infelici!
Eletto sacerdote di Nettuno, Laocoonte
sacrificava ai piedi dell’altare solenne
del Dio un enorme toro. Ed ecco (inorridisco
nel dirlo) due serpenti, venendo da Tenedo
per l’alta acqua tranquilla, si levano sull’oceano
con spire immense e s’avviano insieme verso la spiaggia:
i loro petti svettano tra i flutti, le sanguigne
creste sorpassano l’onde, il resto del loro corpo
sfiora la superficie dell’acqua: enormi groppe
che s’attorcono in cerchi sul mare che, frustato
dalle code, spumeggia fragoroso. E approdarono
a riva: gli occhi ardenti iniettati di sangue
e di fuoco, lambivano con le vibranti lingue
le bocche sibilanti. Fuggiamo qua e là
pallidi a tale vista. Senza esitare, i serpenti
puntano su Laocoonte. E anzitutto, avvinghiati
con molte spire viscide i suoi due figli piccoli,
ne straziano le membra a morsi. Poi si gettano
su Laocoonte che armato correva in loro aiuto
stringendolo coi corpi enormi: già due volte
in un nodo squamoso gli han circondato vita
e collo: le due teste stan alte sul suo capo.
Sparse le sacre bende di bava e di veleno
Laocoonte si sforza di sciogliere quei nodi
con le mani ed intanto leva sino alle stelle
grida orrende, muggiti simili a quelli d’un toro
che riesca a fuggire dall’altare, scuotendo
via dal capo la scure che l’ha solo ferito.
Infine i due serpenti se ne vanno strisciando
sino ai templi più alti, raggiungono la rocca
della crudele Minerva, rifugiandosi ai piedi
della Dea sotto il cerchio del suo concavo scudo.
Nuovo terrore s’insinua nelle anime tremanti
di tutti noi: molti dicono che meritatamente
Laocoonte ha pagato il suo grave delitto,
egli che con la lancia colpì la statua di quercia
scagliandole nel dorso la punta scellerata.
Gridano tutti che occorre trascinare il cavallo
a Troia, supplicando la santità di Minerva…
Apriamo una breccia nella cinta di mura
che attornia la città. Ognuno dà una mano
a sottoporre ruote scorrevoli al cavallo,
a legare al suo collo lunghe funi. La macchina
fatale ha già passato le mura, piena d’armi,
mentre intorno i fanciulli e le vergini cantano
gli inni rituali felici di toccare per gioco
le funi con le mani. E la macchina avanza,
scivola minacciosa in mezzo alla città.
O patria, casa di Dei, e voi mura dardanie
che tanta guerra ha reso famose: quattro volte
si fermò al limitare della porta e altrettante
le armi nel suo ventre tuonarono sinistre!
Noi non pensiamo a nulla e andiamo avanti, ciechi
nella nostra follia, finché non sistemiamo
il mostro maledetto dentro la santa rocca.
Anche Cassandra allora aprì la bocca – mai
creduta dai Troiani, per volere d’Apollo –
e ci predisse il fatale imminente destino.
Quel giorno per noi doveva essere l’ultimo:
ma (infelici!) adorniamo di fronde festive
i templi degli Dei per tutta la città.
Intanto il cielo gira su se stesso, la notte
erompe dall’oceano, avvolgendo di fitta
tenebra terra e cielo e inganni dei Mirmidoni:
in ogni casa i Troiani esultanti si sono
taciuti, un duro sonno avvince i loro corpi.
E già l’armata greca avanzava da Tenedo
nell’amico silenzio della tacita luna
in ordine perfetto, avviandosi ai lidi
ben noti, e già la nave ammiraglia levava
la fiamma d’un segnale luminoso: Sinone,
protetto dagli ostili disegni degli Dei,
furtivamente allora libera i Greci chiusi
nel ventre del cavallo, aprendo gli sportelli
di pino. Spalancata la macchina fa uscire
all’aperto i guerrieri: si calano con una fune,
lieti di abbandonare quella stiva, Tessandro
e Stenelo, il feroce Ulisse ed Acamante,
Toante e Neottolemo Pelide, Macaone
il grande e Menelao, ed infine Epeo stesso
artefice dell’inganno. Invadono la città
sepolta nel sonno e nel vino: massacrano
i guardiani, spalancano le porte e fanno entrare
come d’accordo i compagni, riunendosi con essi.