VERGA (1840-1922)

VERGA (1840-1922)

Nato da una famiglia di nobili origini e di tradizioni liberali, Verga iniziò la sua attività letteraria giovanissimo, con i romanzo inedito Amore e patria (1856) dedicato con enfasi patriottica alle fasi del Risorgimento italiano allora in corso. L’esordio pubblico inizia invece nel 1861 con il romanzo I carbonari della montagna, una storia collocata nella Calabria dei primi moti carbonari, ma che riflette motivazioni  etiche e politiche dello scrittore ventenne, arruolatosi durante l’impresa garibaldina nella guardia nazionale e impegnato in attività pubblicistiche di forte ispirazione unitaria. Sullo stesso tema è Sulle lagune (1863), che chiude la trilogia catanese d’ispirazione patriottica, ma nel quale si possono notare i primi segni di un passaggio dal romanticismo eroico a quello passionale. Il passaggio è documentato dalla sostituzione della figura dell’artista a quella dell’eroe nei  romanzi seguenti: Una peccatrice (1866) e, soprattutto, Storia di una capinera (1871), che divenne un vero e proprio best seller e che rese famosissimo Verga. Le ragioni della popolarità di quest’ultima opera furono il motivo manzoniano della monacazione forzata e la struggente confessione di un amore impossibile che condanna alla follia e alla morte. Intanto, trasferitosi nel 1869 a Firenze, Verga aveva avuto modo di conoscere l’ambiente letterario della città, in quegli anni capitale d’Italia. Nel 1872 si stabilì a Milano, entrando in relazione con scrittori come Boito e Capuana e frequentando i salotti letterari della città. Sono di questi anni opere come Eva, Eros e Tigre Reale (1873,74,75), dallo schema simile in cui si consuma il tema dell’artista vittima dell’amore e della società , artista che spesso appartiene alla mondanità, è un uomo o una donna “di lusso”.

Nel 1874 però, stimolato da Luigi Capuana, Verga aveva pubblicato anche il “bozzetto siciliano” Nedda (La storia è incentrata su Nedda, una semplice, innocente e rassegnata raccoglitrice di olive di Viagrande, ma che abita a Ravanusa, chiamata la varannisa, che per aiutare la madre ammalata e che in seguito morirà, è costretta a vagare di fattoria in fattoria in cerca di un lavoro, sostenuta solamente dall’amore per Janu, un contadino che lavora con lei ma che, ammalato di febbre malarica e costretto ugualmente a salire sugli alberi per la rimondatura degli ulivi, un giorno cade e muore lasciando Nedda in attesa di una bambina. Ma la bimba, che nasce “rachitica e stenta”[ presto muore. Il racconto si conclude con le parole di Nedda che, dopo aver adagiato sul letto dove aveva dormito sua madre la povera creatura, “… cogli occhi asciutti e spalancati fuor di misura. – Oh, benedetta voi, Vergine Santa! esclamò – che mi avete tolto la mia creatura per non farla soffrire come me!”),  con cui inaugurava un genere non ancora tentato e nel quale in quegli anni continuò a cimentarsi, ossia la novella. Ma ciò che più conta è la parsimonia dei mezzi stilistici utilizzati per rappresentare un destino di mancato riscatto umano e sociale, oltre alla scelta di un argomento “umile” come la vicenda di una povera raccoglitrice di olive siciliane. È quello che viene considerato l’inizio di una nuova fase verghiana, che trovò compiuta espressione nei Malavoglia (1881), primo di una progettata serie di cinque romanzi (“ciclo dei Vinti”, poi  solo parzialmente compiuto). Nei Malavoglia sono chiari i cardini della nuova concezione veristica di Verga: da una parte l’individuazione di un “punto di vista” che consenta al narratore di calarsi nei fatti e quindi di scomparire, lasciando che questi si producano da sé come per una necessità naturale, cancellando la presenza dell’autore (canone dell’impersonalità); dall’altra il progetto di un ciclo sul modello di Balzac e Zola (realismo+analisi psicologica, antropologica, sociologica dei personaggi). Nei risultati, comunque, più dell’ambizioso progetto sociologico, presentato nella prefazione al romanzo come lo studio dei meccanismi che determinano la darwiniana lotta per la vita e le leggi del progresso umano, è interessante notare l’utilizzo linguistico ed espressivo di Verga, che riflette la diversità dei livelli e dei registri narrativi dei personaggi. Evitando di dar voce direttamente alle proprie reazione etiche, ideologiche, affettive, lo scrittore persegue l’obiettivo di orchestrare la materia sull’intonazione di una voce narrante, ritmata su una cadenza locale immune da compiacimenti dialettali e su una sintassi mimetica (utilizza il toscano, ma crea la frase su modelli siciliani) che restituisca l’elementarità e insieme l’eloquenza del parlato e cali il lettore nel ritmo naturale del vissuto. Verga si confronta con i miti di quell’umanità elementare: l’ideale dell’”ostrica”, la “religione della famiglia”, il “pesce vorace”, tutti simboli per indicare la paura dell’ignoto e il giudizio negativo che Verga dava del progresso, in quanto costringeva i contadini ad uscire dal vincolo tutelare della comunità solo per farsi schiacciare dalla marea degli eventi.

Negli stessi anni in cui lavora ai Malavoglia, Verga scrive anche alcune delle sue novelle più riuscite, la serie di Vita dei campi (1880) dedicata alla Sicilia più primitiva e ai “dannati della terra” (La lupa, Rosso Malpelo, Jeli il pastore, ecc.) e la serie delle Novelle rusticane (1883), dove la materia siciliana si articola in un contesto di rapporti storico-sociali ed economici più evoluti ma anche fortemente drammatici (Libertà) ed ossessivi (La roba). Da queste novelle inoltre Verga traeva materia di drammi; nel 1894 il grande successo della Cavalleria rusticana – musicata da Mascagni – inaugurava il tentativo (felice rispetto agli esperimenti seguenti) di portare il verismo a teatro.

Del 1889 è il secondo grande romanzo di Verga, Mastro-don Gesualdo, pubblicato in rivista l’anno precedente, ma ora riedito con varianti significative. L’impianto narrativo, più ampio che nei Malavoglia, incentrato sulla figura di Gesualdo Motta, un uomo che nel corso della sua vita sacrifica ogni affetto a ragioni strettamente economiche ritrovandosi alla fine schiacciato e sconfitto dall’aridità di cui si è circondato.Il tema del romanzo risulta evidente sin dal titolo: il personaggio principale, Gesualdo Motta è soprannominato dai suoi compaesani “Mastro Don“. Si tratta di un nomignolo dispregiativo che sottolinea la natura di parvenu di Gesualdo, una via di mezzo fra “Mastro” (appellativo riservato a chi dirige un gruppo di muratori) e “Don” (epiteto riservato ai signori e proprietari terrieri). Il protagonista, infatti, da muratore diventa imprenditore, proprietario terriero, marito di una nobildonna; da qui il suo conseguente isolamento, poiché viene detestato da tutti coloro che non hanno ottenuto lo stesso successo in termini di ascesa sociale e disprezzato dal ceto notabile che lo considera un bifolco arricchito. Il romanzo è costituito da ventuno capitoli suddivisi a loro volta in quattro parti corrispondenti alle quattro più importanti fasi della vita del protagonista: il matrimonio con Bianca Trao, il successo economico, l’inizio del declino di Gesualdo, la sua morte. Si tratta quindi di un romanzo che ricorre ad una tecnica per scorci: i fatti più importanti vengono isolati grazie ad ampi salti temporali. Anche per questo esso appare, più che un ultimo grande prodotto della tradizione ottocentesca, come un primo romanzo italiano dell’alienazione borghese.

Con quest’opera il dittico narrativo fondato sui due miti della famiglia e della “roba” si era realizzato, lasciando sospesa l’attuazione del grande ciclo dei “vinti”: il successivo romanzo La duchessa di Leyra rimase incompiuto, mentre gli altri due previsti (L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso) non vennero neppure iniziati. All’estrema attività di scrittore di Verga appartiene Dal tuo al mio (1906), sarcastica parabola dei conflitti sociali, subito adattato per il teatro. Gli ultimi anni di Verga furono tutti ambientati a Catania, dove egli si chiuse in uno scontroso isolamento e in un lungo silenzio. Egli aveva ritrovato nel verismo un metodo per creare in letteratura un correlativo naturale della realtà e liberare la prosa italiana dall’artificiosità: la critica aveva da tempo riconosciuto il suo rilievo di innovatore e la sua importanza d’artista, a cominciare da Capuana, che ne predisse la grandezza, per arrivare a B. Croce.