UNITA DI ITALIA

UNITA DI ITALIA

Il Piemonte di Cavour ottenne l’appoggio di gran parte dei patrioti italiani

  • Approfittò allora della favorevole situazione europea e dell’alleanza con la Francia per vincere la seconda guerra  d’indipendenza
  • L’impresa dei Mille, guidata da Garibaldi, permise la conquista del Mezzogiorno d’Italia
  • Il regno di Sardegna divenne regno d’Italia

IL PIEMONTE E CAVOUR

Vittorio Emanuele II ebbe un ministro di grandi capacità: Camillo Benso conte di Cavour. Con lui la politica piemontese fece davvero un salto di qualità.

Cavour era un deciso sostenitore del pensiero liberale e dell’economia liberista. Sosteneva anche che Stato e Chiesa erano due istituzioni distinte, che dovevano rimanere assolutamente separate:

  • la Chiesa doveva occuparsi della religione e delle coscienze, non del governo e delle cose terrene;
  • lo Stato doveva governare senza occuparsi di questioni religiose e anzi garantire a chiunque la libertà di professare la propria fede (o anche di non averne alcuna).

 

IL PROGETTO DI CAVOUR PER L’INDIPENDENZA ITALIANA

Nominato presidente del Consiglio dei ministri nel 1852, Cavour poté mettere mano alla realizzazione del suo progetto politico per l’indipendenza italiana.

Egli sosteneva che solo il Piemonte poteva realizzarla, perché non era sottomesso all’ Austria (come invece erano i Borboni di Napoli, il granduca di Toscana, i duchi di Modena e di Parma); solo il Piemonte, inoltre, poteva garantire alle monarchie europee che l’Italia non si sarebbe spinta troppo in là, verso ideologie democratiche e radicali.

Avuta questa garanzia, pensava Cavour, le potenze come la Francia e l’Inghilterra avrebbero potuto aiutare il Piemonte, sia per indebolire l’Austria, sia per evitare che il nazionalismo italiano si indirizzasse verso soluzioni meno moderate.

Inoltre, l’Inghilterra poteva avere una ragione in più per sostenere la causa italiana: quella di creare nell’ area del Mediterraneo una nuova nazione sufficientemente forte da limitare l’influenza della stessa Francia.

LA GUERRA DI CRIMEA

Per realizzare il piano di Cavour era però necessario che il piccolo regno di Sardegna trovasse il modo di farsi prendere in considerazione dalle potenze di cui ricercava l’appoggio. L’occasione fu trovata nella guerra di Crimea.

Nel 1854 la Russia aveva dichiarato guerra alla Turchia, per impadronirsi delle regioni affacciate sul mar Nero, oggi corrispondenti alla Bulgaria e alla Romania. Francia e Inghilterra, preoccupate dall’espansione dell’impero russo, avevano sostenuto militarmente la Turchia.

La guerra si rivelò molto dura, anche per le gravi epidemie che scoppiarono fra le truppe alleate, impegnate nell’ assedio della città di Sebastopoli.

Cavour decise che era opportuno partecipare alla guerra. Il regno di Sardegna inviò in Crimea un corpo di spedizione comandato dal generale Alfonso La Marmora. Quattro mesi dopo, il nuovo corpo dei bersaglieri partecipò alla battaglia vittoriosa della Cernaia.

Poco meno di 200 uomini morirono sul campo, ma circa 1500 piemontesi persero la vita per l’epidemia di colera. Le conseguenze politiche di questo sacrificio furono però estremamente positive:

Vittorio Emanuele II, in visita ufficiale a Londra e a Parigi, fu accolto con grandi dimostrazioni di simpatia e il giornale inglese Daily Telegraph salutò il giovane sovrano «come nostro alleato, come quella rarità che è un re costituzionale»;
nel congresso per la pace, riunito si a Parigi nel 1856, fu riservato un giorno a Cavour nel quale poté parlare della questione dell’indipendenza italiana.

 

I FALLIMENTI DEI MAZZINIANI

Nel frattempo si verificarono vari tentativi d’insurrezione dei mazziniani, nessuno dei quali ebbe buon esito.

Nel 1851 il sacerdote Giovanni Grioli venne fucilato presso Mantova, a Belfiore. Nel 1857 Carlo Pisacane sbarcò presso Sapri, una cittadina posta sul confine tra Campania e Basilicata, e cercò di spingere la popolazione alla rivolta. Gli abitanti del luogo, del tutto ignari delle intenzioni dei patrioti, pensarono però di trovarsi di fronte a una scorreria di briganti. Pisacane fu ucciso e i suoi compagni uccisi o catturati. La loro azione, ingenua e generosa, era fallita per la mancanza di preparazione, per l’illusione che le masse del Mezzogiorno fossero spontaneamente pronte alla rivolta.

Dopo questi tragici avvenimenti molti repubblicani, e tra questi Garibaldi, si resero definitivamente conto che l’unica speranza di unità nazionale era legata alla monarchia del Piemonte.

Garibaldi era molto amato dal popolo e ben visto dai democratici: la sua adesione al progetto politico piemontese portò con se molti consensi.

GLI ACCORDI TRA ITALIA E FRANCIA

Dopo gli accordi di Parigi i rapporti di amicizia tra il governo piemontese e l’imperatore dei Francesi si fecero più stretti. Tuttavia nel 1858 un drammatico episodio rischiò di far crollare l’abile costruzione politica di Cavour.

Un repubblicano italiano, Felice Orsini, attentò con una bomba alla vita di Napoleone III. L’imperatore si salvò, ma vi furono morti e feriti.

Orsini voleva punire Napoleone per l’intervento militare del 1849 contro la Repubblica Romana. Prima di essere giustiziato, scrisse all’imperatore chiedendo perdono per il proprio gesto e raccomandandogli la causa della libertà italiana.

Cavour riuscì a volgere il gesto dell’Orsini a vantaggio della causa italiana. Se non si fosse fatto in fretta, egli sostenne, si sarebbero pericolosamente diffusi i movimenti estremisti. Il liberale e moderato regno piemontese era una barriera contro questo rischio.

Dopo lunghe trattative diplomatiche tra Napoleone III e Cavour, un accordo segreto fu firmato a Plombières, una cittadina termale francese, nel 1858.

Cavour ottenne l’impegno di un intervento militare francese in caso di aggressione austriaca al Piemonte;
Napoleone III ebbe la promessa della cessione di Nizza e della Savoia alla Francia.

Cavour si impegnò con l’imperatore, che temeva un’Italia troppo forte, a dividerla in quattro Stati: Nord, Centro, Sud e Stato Pontificio. In questo modo al Piemonte sarebbe toccata solo l’Italia settentrionale; ma in realtà Cavour pensava di riuscire a volgere la situazione a proprio vantaggio, una volta che l’Austria fosse stata sconfitta.

LA SECONDA GUERRA D’INDIPENDENZA

Il trattato di alleanza stabiliva che la Francia sarebbe intervenuta per difendere il Piemonte da un attacco dell’ Austria, non per aiutarlo ad attaccare il Lombardo- Veneto. Occorreva quindi provocare la guerra, ma non iniziarla.

Nei primi mesi del 1859 il Piemonte radunò le sue truppe sul Ticino. Ai soldati regolari si affiancarono migliaia di volontari giunti da tutta Italia. Garibaldi ebbe il comando di un corpo di volontari: i Cacciatori delle Alpi.

Il governo austriaco cadde nella trappola e inviò un ultimatum a Torino. Per evitare una guerra Vittorio Emanuele II doveva immediatamente disarmare l’esercito.

Il re rifiutò e le truppe austriache varcarono il Ticino per attaccare Novara e Vercelli.

I Piemontesi rallentarono l’invasione allagando le risaie della zona e si ritirarono lentamente, riunendosi ai Francesi, comandati dallo stesso Napoleone III.

La prima battaglia avvenne presso Magenta, dove i Francesi sconfissero nettamente gli Austriaci. Napoleone III e Vittorio Emanuele II entrarono trionfalmente a Milano. Garibaldi conquistò Varese, Como, Bergamo e Brescia.

Pochi giorni dopo i Francesi batterono nuovamente gli Austriaci a Solferino, mentre l’esercito piemontese otteneva una vittoria a San Martino.

 L’ARMISTIZIO DI VILLAFRANCA

Tali vittorie ebbero immediate conseguenze in tutta Italia: Firenze, Modena, Parma, Bologna scacciarono i loro rispettivi sovrani, formarono nuovi governi provvisori e chiesero l’unione con il regno di Sardegna. Napoleone III si spaventò: egli comprese che Cavour non si sarebbe limitato al governo dell’Italia settentrionale.

Inoltre i cattolici francesi tenevano molto alla salvaguardia dei domini del Pontefice e, a Parigi, la guerra in Italia era divenuta impopolare per le numerose perdite sul campo di battaglia. A ciò si aggiunse la dura presa di posizione della Prussia: per evitare il rafforzamento della Francia, essa minacciò di intervenire a fianco dell’ Austria.

Così 1’11 luglio 1859 Napoleone III firmò un armistizio a Villafranca, presso Verona, con lo stesso imperatore Francesco Giuseppe, senza consultare gli alleati piemontesi.

I due imperatori concordarono che la Lombardia venisse ceduta al regno di Sardegna, ma che l’intero Veneto rimanesse sotto il governo austriaco. Vittorio Emanuele II non si sentì abbastanza forte da respingere l’accordo e accettò. Per protesta Cavour diede le dimissioni da capo del governo.

 

L’ITALIA CENTRALE SI UNISCE AL REGNO DI SARDEGNA

Ma il piano di Cavour continuò a realizzarsi. Richiamato a capo del governo (1860), egli riprese a trattare con Napoleone III. L’imperatore non aveva ricevuto le ricompense promesse (Nizza e la Savoia) poiché il Piemonte sosteneva che firmando l’armistizio di Villafranca non aveva rispettato i patti. Cavour gliele offrì nuovamente pur di avere mano libera con la Toscana, l’Emilia-Romagna, Parma e Modena.

Qui, la scelta se unirsi o no al regno di Sardegna venne affidata a un plebiscito, una votazione con la quale i cittadini avrebbero dovuto dire sì o no all’ annessione. Veniva così stabilito un importante principio: ciascun popolo doveva decidere da sé, con un voto, il proprio destino.

L’Italia centrale approvò a stragrande maggioranza dei votanti (97% di sì) l’annessione al regno di Sardegna: in Toscana, ad esempio, vi furono 366.571 voti a favore, 14.952 contro.

LA SPEDIZIONE DEI MILLE

Il 2 aprile 1860 si inaugurava a Torino il nuovo Parlamento, allargato ai rappresentanti dell’Italia centrale. Nello stesso mese scoppiarono alcune rivolte in Sicilia.

Forte era la presenza di Siciliani a Torino e a Genova: erano liberali o democratici fuggiti o esiliati dalla loro isola. Fra questi, Francesco Crispi, che più tardi diventerà un importante uomo politico: egli convinse Garibaldi a organizzare una spedizione militare in Sicilia, garantendogli l’appoggio popolare.

Vittorio Emanuele II era segretamente favorevole all’impresa, mentre Cavour diffidava dei democratici garibaldini e temeva la Francia e l’Inghilterra. Alla fine Cavour accettò il progetto, purché l’impresa si realizzasse “spontaneamente”, senza il consenso del governo, in modo da evitare contrasti con le grandi potenze.

Nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1860, 1070 garibaldini (i Mille) si imbarcarono presso lo scoglio di Quarto, vicino a Genova, su due piroscafi (il Piemonte e ilLombardo). Erano volontari che lasciavano la famiglia, il lavoro, la vita quotidiana, le professioni, lo studio per combattere con Garibaldi. La maggior parte erano borghesi, ma non mancavano aristocratici, artigiani, operai.

GARIBALDI CONQUISTA IL MEZZOGIORNO

Dopo essersi fermati nel porto toscano di Talamone, per imbarcare armi e munizioni, i due piroscafi giunsero nel porto di Marsala, dove i Mille sbarcarono. A Salemi Garibaldi indirizzò un proclama alle popolazioni, invitandole alla rivolta e assumendo il comando in nome di Vittorio Emanuele II. Molti lo seguirono, non solo borghesi e artigiani, ma anche contadini, che spesso si sollevarono contro i grandi proprietari. Pochi giorni dopo lo sbarco, Garibaldi sconfisse le truppe borboniche a Calatafimi e occupò Palermo.

Il re di Napoli, Francesco II di Borbone, cercò di correre ai ripari. Andò alla ricerca di alleanze con le potenze europee e si affrettò a concedere una costituzione, per conquistarsi le simpatie dei liberali.

Ma era ormai troppo tardi: le truppe garibaldine batterono nuovamente i borbonici a Milazzo e sbarcarono in Calabria, conquistando Reggio. Il 7 settembre 1860 Garibaldi entrò in Napoli, accolto trionfalmente dalla popolazione, mentre Francesco II si rifugiava a Gaeta.

LA CONQUISTA DELLE MARCHE E DELL’UMBRIA

A questo punto Cavour decise di intervenire per prendere il controllo della situazione. Le sue motivazioni erano molteplici:

temeva che Garibaldi potesse proclamare una repubblica nel Mezzogiorno;
intendeva cogliere l’occasione per conquistare anche le Marche e l’Umbria, che erano rimaste sotto il governo pontificio;
infine voleva evitare che Garibaldi attaccasse Roma, provocando un intervento militare dei Francesi a protezione del papa.

Alle potenze europee, e soprattutto alla Francia, Cavour dichiarò che era costretto a far intervenire l’ esercito per evitare i pericoli di una rivoluzione democratica a Napoli. In realtà questa scusa gli servì per far penetrare le truppe nello Stato Pontificio. Le truppe mercenarie del papa furono battute a Castelfidardo (1860).

L‘esercito piemontese, evitando Roma, si impadronì delle Marche e dell’Umbria.

GARIBALDI CONSEGNA AL RE IL MEZZOGIORNO

Nel frattempo Garibaldi aveva sconfitto definitivamente le truppe borboniche sul fiume Voltumo e Vittorio Emanuele II aveva raggiunto il suo esercito.

Il 26 settembre 1860 Garibaldi e Vittorio Emanuele II si incontrarono presso Teano (Caserta). Qui Garibaldi salutò il sovrano come re d’Italia, affidandogli tutti i territori liberati. Nel mese di novembre la Sicilia e il regno di Napoli votarono con il 99% di sì l’annessione all’Italia.

Garibaldi aveva compiuto un’impresa straordinaria, che gli valse un’enorme popolarità non solo in Italia, ma in tutta Europa. Per se non volle onori e ricompense di nessun tipo. Chiese solo un posto per gli ufficiali garibaldini nel nuovo esercito italiano. Solo alcuni furono accettati da un’amministrazione militare che si mostrò molto diffidente.

Finita la grande avventura, Garibaldi si ritirò a Caprera, un’isoletta nel nord della Sardegna. Ci si può chiedere perché lo fece. Era l’uomo più popolare e amato d’Italia e avrebbe potuto rimanere nella vita politica con grandi prospettive.

Ma innanzi tutto egli era un uomo semplice e poco ambizioso: la sua casa di Caprera fu modestissima ed egli coltivò personalmente la sua terra.

Inoltre, era vicino ai democratici, ma non era un politico. Nel momento decisivo mise le sue grandi capacità di combattente al servizio della monarchia piemontese: fece cioè una scelta realistica e pratica che lo pose in contrasto con le antiche convinzioni personali e con molti amici e compagni di lotta. Una volta assolto il suo compito, nel superiore interesse dell’Italia, lui democratico e repubblicano, non aveva alcun motivo per cercare nuovi incarichi al servizio di una monarchia liberale e moderata.

Infine, Garibaldi era un condottiero e un uomo d’azione: la politica con le sue sottigliezze, i suoi intrighi, le sue ipocrisie gli era del tutto estranea. Quando capì che la grande avventura era finita, conoscendo i propri limiti, si ritirò.

 

LA SCOMPARSA DI CAVOUR

Il primo atto del nuovo parlamento italiano (17 marzo 1861) fu la proclamazione del regno d’Italia, con capitale a Torino. Per completare l’unità del paese mancavano soltanto Roma e il Veneto.

Vittorio Emanuele II assunse per sè e i suoi discendenti il titolo di “re d’Italia, per grazia di Dio e volontà della nazione”. Con questa formula si dette una soluzione di compromesso al contrasto fra le idee tradizionali e quelle innovatrici.

Il re era tale “per grazia di Dio”, cioè perché la volontà divina l’aveva posto sul trono. Ma era anche tale per “volontà della nazione”, perché voluto dal popolo che aveva diritto di fare le proprie scelte. Neppure tre mesi dopo moriva Camillo Cavour. Fu una grave perdita, che privò l’Italia del solo uomo politico di alto livello, proprio quando era necessario dare inizio all’ organizzazione del nuovo Stato.

 

 

I PRIMI GOVERNI ITALIANI E LA TERZA GUERRA D’INDIPENDENZA

 

 

Problemi

L’unificazione dell’Italia fu un evento storico avvenuto dopo secoli di dominazioni straniere e di governi molto diversi tra le diverse zone.

Molti ed enormi problemi rimanevano.
Roma, il Lazio, il Veneto, il Trentino non appartenevano ancora al regno d’Italia. Le diverse zone d’Italia presentavano livelli di sviluppo disomogenei. In politica estera l’Italia era debole e isolata, in aperta conflittualità nei confronti dell’Austria, in tensione con la Francia, priva di alleati che l’aiutassero a difendere i propri interessi.

Dopo l’unità l’Italia fu governata per 15 anni dalla destra storica, che tentò, con scarsi successi, di risolvere i problemi del nuovo stato italiano.

 

LA POLITICA DELLA DESTRA STORICA

Possiamo riassumere in 5 punti il programma che la Destra storica tento di attuare in Italia:

  • completare l’unificazione del territorio;
  • costruire nuove strade e ferrovie che facilitassero le comunicazioni all’interno del paese e favorissero i commerci. La ricucitura dello stivale, come si diceva allora, avvenne soprattutto attraverso la costruzione di nuove ferrovie.
  • imporre a tutta l’Italia lo statuto albertino e il modello amministrativo piemontese;
  • estendere a tutto il regno l’uso della lira piemontese;
  • applicazione di una politica economica liberista che facilitasse gli scambi con l’estero.

La realizzazione di questo programma era molto costoso. Per riuscire a finanziare l’unificazione gli uomini del governo chiesero prestiti alle altre nazioni ed imposero tasse pesantissime ai cittadini. La tassa più odiata fu la tassa sul macinato, che si pagava per poter macinare il grano. Tasse di questo genere colpivano i consumi fondamentali, come quello della farina, quindi opprimevano soprattutto i più poveri.

LA QUESTIONE MERIDIONALE

Subito dopo l’Unità i contadini, i borghesi, i baroni, il clero dell’Italia Meridionale cominciarono a vedere i Savoia e lo stato italiano come degli stranieri. Il Sud non ricevette alcun beneficio dall’Unità: le tasse aumentarono, il pane costava di più e i giovani erano costretti a prestare sette anni di leva obbligatoria. Inoltre il governo non appariva interessato a varare una riforma agraria che risolvesse il problema più grave del mezzogiorno: il latifond.

MAFIA E BRIGANTAGGIO

Si affermarono nel sud organizzazioni parallele allo stato basate su legami familiari e di parentela: la mafia in Sicilia e la Camorra a Napoli non solo continuarono un’antica tradizione, ma svilupparono nuovi contatti con i poteri locali, influenzando l’elezione dei candidati e controllando i flussi di denaro e gli investimenti. Inoltre migliaia di contadini, di ex ufficiali borbonici, e di legittimisti borbonici furono protagonisti di azioni violente contro i ceti possidenti. Il brigantaggio non era solo un fenomeno criminale, ma indicava il disagio e il diffuso malcontento del Sud Lo stati rispose occupando militarmente per cinque anni le regioni meridionali. La repressione del brigantaggio costò la vita a 116.000 uomini. Si trattò, di fatto, di una sorta di guerra coloniale.

LA TERZA GUERRA D’INDIPENDENZA

Per annettere il Veneto l’Italia aveva bisogno di un alleato. Questo alleato fu la Prussia dominata dal suo primo ministro Otto von Bismarck.  Sia la Prussia, sia l’Italia dovevano combattere contro l’Austria. L’Italia voleva la riconquista dei territori ancora sotto il dominio asburgico, la Prussia voleva l’unificazione degli stati tedeschi, di cui l’Austria presiedeva la confederazione.

Nel 1866 Prussia e Italia stipularono un’alleanza. L’Italia garantiva il proprio appoggio alla Prussia e in caso di vittoria avrebbe ottenuto in cambio il Veneto. L’esercito italiano si dimostrò debole e impreparato subendo numerose sconfitte; solo Garibaldi sconfisse gli Austriaci nel Trentino.

La Prussia sconfisse duramente l’Austria e la costrinse alla resa. Il Veneto fu ceduto all’Italia, ma Trento e Trieste rimasero in mano austriaca.

ROMA CAPITALE

Qualche anno più tardi trovò soluzione anche il problema di Roma, che dopo il 1860 era rimasta nelle mani del Papa e sotto la tutela dell’esercito Francese. Nel 1870 scoppiò tra Francia e Prussia una guerra che si concluse con la vittoria di quest’ultima, la nascita dell’Impero tedesco e la fine del regime di Napoleone III. Questo conflitto ebbe importanti conseguenze sulla storia italiana. La guarnigione francese stanziata a Roma in difesa di Pio IX fu richiamata in patria. Il 20 settembre 1870 l’esercito italiano superò la resistenza delle truppe pontificie, conquistò Roma che fu dichiarata capitale d’Italia. Pio IX si rinchiuse in Vaticano considerandosi ostaggio degli “usurpatori”. Pio IX promulgò quindi il celebre editto “Non espedit ” col quale proibiva ai cattolici di partecipare alla vita politica.

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