UGO FOSCOLO VITA E BIOGRAFIA

UGO FOSCOLO VITA E BIOGRAFIA


Ugo Foscolo nacque a Zante, una delle isole jonie dipendenti dalla repubblica veneta, il 6 febbraio 1778. Il padre fu Andrea, medico in quella città: la madre, la bella e dolce Diamantina Spathis, già vedova di Giovanni Aquila Serra genovese. Ugo era il maggiore di parecchi fratelli: Rubina, Gian Dionisio, Costantino, Angelo, Giulio: che egli amò tutti paternamente, come teneramente adorò la madre.
Morto Nicolò, il nonno di Ugo, medico anch’esso e direttore dell’ospedale di Spalato, Andrea gli succedette in quell’ufficio. E della fanciullezza di Ugo, questi di Spalato furono gli anni più felici. Ma nel 1781 Andrea morì. La vedova Foscolo dovette spogliarsi d’ogni suo bene dotale, per soddisfare i creditori del marito. Quindi si recò a Venezia, dove il marito aveva lasciato in sospeso alcuni affari. Ugo e gli altri fratelli ve la raggiunsero verso il 1792. Si stabilirono in una povera casa del sestiere di Castello.
A Spalato aveva frequentato le scuole del Seminario. A Venezia fu posto alle scuole di S. Cipriano, di cui era provveditore Gaspare Gozzi. È probabile che fosse introdotto assai presto nel salotto della bellissima Isabella Teotochi Albrizzi, che forse il giovinetto amò. Colà conobbe i letterati più insigni che a quel tempo convenivano in Venezia: tra gli altri Ippolito Pindemonte e Melchiorre Cesarotti, che udì, per quanto saltuariamente, anche dalla sua cattedra di Padova. Ugo – che credeva più nel genio che nelle regole – dovette aver cari gli arditi concetti critici e linguistici del Cesarotti: benchè egli simpatizzasse con l’accademia dei Granelleschi, conservatrice della tradizione letteraria, e si dichiarasse obbligato al Dalmistro, uno dei più autorevoli fra quegli accademici. Ma del Cesarotti il malinconico e fantastico giovinetto lesse avidamente l’Ossian. Non però meno lo sedusse l’Alfieri. E una tragedia alla maniera alfieriana, il Tieste, rappresentò il 4 gennaio 1797 al teatro S. Angelo. Piacque tanto, che fu ripetuta per nove sere consecutive. E il giovanissimo autore – che fin allora si era provato in liriche passionali e filosofiche di assai scarso valore – divenne celebre.

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Ma Ugo credette di ritrovare se stesso, quando gli eserciti del Buonaparte proclamarono la libertà d’Italia e minacciarono di invadere l’antica repubblica. Democratico convinto, il Foscolo, sin dall’anno precedente, aveva scritto un fiero sonetto contro la neutralità di Venezia: e quindi (a scampare da possibili persecuzioni) si era rifugiato a Bologna nella Cispadana, arruolandosi volontario dei cacciatori a cavallo. A Bologna, nel ’97, scrisse la sua sonante ode Bonaparte liberatore, offrendola ai cittadini di Reggio, che, primi in Italia, avevano accolto la rivoluzione. Quando, abolito il governo della Serenissima, si fondò in Venezia una municipalità provvisoria, il Foscolo credette suo dovere di ritornare subitamente nella sua patria di elezione. E nei pochi mesi di vita che ebbe la costituzione repubblicana, egli militò costantemente nel partito più avanzato e più puritano e più ingenuo. Fu dei quattro secretari della municipalità, con incarico di redigere i verbali: ma più pienamente espose e difese il suo catechismo di libertà nella Società della pubblica istruzione, ove una volta biasimò come nemico della rivoluzione persino l’Alfieri. Ma spesso anche parlò contro i demagoghi e gli “ipocriti della libertà”, peggiori dei tiranni, e ne proponeva lo sterminio, non senza meraviglia del presidente, che non li credeva così terribili. In una delle ultime adunanze caldeggiò una milizia nazionale, con implicita riprovazione delle milizie francesi, spadroneggianti in Venezia. E con l’animo forse già dubitante dei sentimenti liberali del Buonaparte, scrisse l’Ode ai Repubblicani: che è un invito ai cittadini veri a cercare – se la patria sarà oppressa – la libertà nella morte.
Il trattato di Campoformio, onde Venezia era ceduta all’Austria, fu per il Foscolo, anche più che una delusione, una lezione: di quelle che insegnano molte cose e capitali. Di lì nacque in lui quella diffidenza, se non pur quell’odio, verso il Buonaparte e la democrazia francese, che non lo abbandonò mai più; di lì sgorgò, o trovò conferma, il suo desolato credo pessimistico: che il mondo è dei forti e degli astuti. Di lì sorse il concetto che l’Italia non deve attendere la sua risurrezione che da sè e dalle sue energie: e si iniziò il culto appassionato per le tradizioni della patria, violate tutte nel dispregio che il Bonaparte mostrava per la più antica delle nostre repubbliche.

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Ceduta Venezia all’Austria, pare che il Foscolo fosse di quelli che proponevano di dare il fuoco alla città, prima che lasciarla invadere dallo straniero. Certo uno spirito libero come il suo non poteva rimanere sotto il nuovo governo. Che se il governo francese aveva così oltraggiata la sua Venezia, la Francia significava pur sempre la libertà, e l’avvenire. Ugo venne a Milano, ove chiese ed ottenne la cittadinanza nella repubblica Cisalpina. Divenne redattore del Monitore italiano, col Custodi e col Gioia: specialmente doveva compilare le relazioni delle sedute del corpo legislativo e quelle del Consiglio dei Seniori, e soggiungervi le sue osservazioni: ufficio da censore più che da pubblicista. Non tacque dei soprusi delle soldatesche repubblicane: non delle pertinaci prepotenze del patriziato: come in una lettera al cittadino Soprausi ministro di polizia, ove deferisce un cocchiere che era per stritolare un vecchio e un bambino, e propone rigide pene, e contro i cocchieri protervi, e contro i padroni delle carrozze. Rivide a Milano il Monti, già conosciuto da lui a Bologna, e poi presentato a Venezia alla Società per l’istruzione pubblica. È probabile s’invaghisse della moglie del Monti, la bella Teresa Pickler. Comunque sia di ciò, al Monti si legò di viva amicizia. E perché il poeta era attaccato dai suoi nemici, che gli ricantavano l’accusa di aver lodato i vecchi governi, Ugo sorse coraggiosamente a difenderlo, nello Esame su l’accuse contro Vincenzo Monti. E da quella demagogia, che il Monti avrebbe poi flagellato nella Mascheroniana, il Foscolo si staccava violento. Né sopportava la mentalità tutta borghese dei nuovi legislatori francesizzanti: onde il magnanimo e italianissimo sonetto contro la soppressione nelle scuole della lingua latina, proposta dal gran Consiglio Cisalpino nel 1798. Il Foscolo era coi pochi, insigni per virtù propria, non per riflesso altrui: coi pochi, già liberi nell’animo, assai prima che la libertà fosse proclamata nelle assemblee. Tipo di questi pochi solitari il vecchio Parini, che il giovine scrittore del Monitore conobbe alla vigilia della morte e venerò; e ne fece l’apoteosi nell’Ortis e nei Sepolcri e nelle lezioni di eloquenza a Pavia.

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Nell’aprile del 1798 il Monitore, troppo libero e troppo italiano, fu soppresso: incarcerato il Custodi, perseguiti e vigilati il Gioia e il Foscolo: i quali fondarono un giornale anche più arditamente italiano, l’Italico: che il governo lasciò vivere soltanto pochi mesi.
Necessità di pane trassero allora il Foscolo a Bologna, ove ebbe un modesto impiego cancelleresco alla sezione criminale del Dipartimento del Reno. E a Bologna, dal Marsigli, fece stampare – senza però pubblicarla – la prima parte delle Lettere di Jacopo Ortis: molto diverse dalla edizione definitiva: ove protagonisti sono una vedova, Teresa, una sua figliuoletta, Giovannina, Odoardo, promesso sposo di Teresa, e Jacopo Ortis. Ma, alla notizia che gli Austro-russi invadevano l’Italia, il Foscolo riprese servizio come luogotenente della guardia nazionale di Bologna, che dava la caccia ai contadini insorti; si trovò alla ripresa di Cento, le cui mura scalò per primo, e fu ferito d’un colpo di baionetta in una coscia.
Intanto il Marsigli – che aveva fretta di terminare e pubblicare il romanzo – con una leggerezza forse unica nella storia degli editori – almeno degli editori di autori viventi — affidò la prosecuzione del romanzo a un Angelo Sassoli bolognese, dottore di leggi e giornalista, che continuò sguajatamente e secondo un piano suo l’Ortis. Così terminato, anzi deformato, il romanzo uscì, nei primi di giugno del ’99, con il titolo Ultime lettere di Iacopo Ortis MDCCXCVIII, anno VII. – (Era il titolo che il Foscolo aveva dato alla prima parte). – Ma come, il 30 giugno, gli eserciti austro-russi entrarono in Bologna, le copie già in vendita del libro furono ritirate; e dopo lievi modificazioni, perchè l’opera non avesse a incorrere nella censura della nuova polizia, il romanzo fu rimesso in vendita in due volumetti, col titolo Vera storia di due amanti infelici, ossia ultime lettere di Iacopo Ortis, 1799. E riapparve, nel 1801, al ritorno dei Francesi, nella forma e col semplice titolo primitivo.
Ma il Foscolo non pensava allora più a continuare l’Ortis: pensava a combattere. Al seguito del generale Macdonald fu alla Trebbia. Negli ultimi del giugno 1799, con le milizie Cisalpine e Francesi, fu a Firenze: e vi conobbe il Niccolini. Forse partecipò alla battaglia di Novi, del 15 agosto. Finalmente riparò in Genova, stretta d’assedio dagli Austro-russi padroni di tutta l’Italia settentrionale, e difesa dal generale Massena. In Genova pubblicò l’ardito Discorso sull’Italia al generale Championnet, pieno di idee che noi diremmo socialistiche: ristampò l’ode al Buonaparte, con una lettera, ove rimprovera all’eroe il traffico di Venezia, e l’ammonisce a non cedere alla tentazione di farsi tiranno. Corteggiò la marchesa Luisa Pallavicino, e scrisse un’ode famosa, quand’ella fu gettata da cavallo, in una sua passeggiata verso Sestri. Nel dicembre gli fu imposto di partir per la Francia: giunse a Nizza, e doveva proseguire per Dijon: ma preferì ed ottenne di ritornare a Genova, dove pure l’epidemia e la fame facevano strage. Fu aggregato al generale Fantuzzi. Si segnalò alla ripresa del forte dei Due fratelli: fu ferito al piede nel vano tentativo di riconquistar la Coronata: quando perì il generale Fantuzzi, nel quale il Foscolo vedeva raffigurato tutto il valore italiano; e ne fece poi eloquente ricordo nella orazione per i Comizii di Lione.
Arresosi, il 4 giugno, l’eroico presidio, i vinti, com’era nei patti, furono, su navi inglesi, sbarcati ad Antibo. Ma la vittoria di Marengo aveva riaperto loro l’Italia. Il Foscolo corse a Nizza di Monferrato, dov’era il quartiere generale: di lì a Milano: dove venne aggiunto allo stato maggiore del generale Pino. Fu in questi tempi, per ragioni del suo ufficio, in più luoghi: a Lugo, per esterminarvi i briganti: più volte a Bologna, nel novembre 1800 a Firenze. Quivi rivide il Niccolini: e conobbe la giovinetta Isabella Roncioni, destinata sposa ad un marchese Pietro Bartolomei fiorentino, che essa non amava. Era forse la prima volta che si presentava al Foscolo una bellezza pura e verginale. L’adorò. Sentì allora il bisogno di continuare l’Ortis, di trasformarlo. Gli venne alle mani la Vera istoria dei due amanti infelici metà sua, metà del Sassoli, anonima, ma col suo ritratto. Indignato dello strazio fatto dell’opera sua, pubblicò nella Gazzetta di Firenze del 3 gennaio 1801 e nel Monitore Bolognese del 4 un rifiuto di riconoscere per sue le tre edizioni da lui vedute dell’Ortis, “apocrife e adulterate dalla viltà e dalla fame”: le aggiunte del Sassoli, che passava per il raccoglitore delle lettere, proclamò un “centone di follie romanzesche, di frasi adulterate e di annotazioni vigliacche”. Riprese il romanzo. La Teresa, la vedova Teresa, che forse in origine era stata delineata col pensiero alla Monti o alla Isabella Albrizzi, diventò una giovinetta, che adombrò la Isabella Roncioni. La prima parte del romanzo, così rifatta, comparve con la indicazione Italia, 1801 (rarissima: se ne conserva un esemplare a Weimar, mandato dal Foscolo al Goethe, il cui Werther tanto influì sull’Ortis). Nell’ottobre del 1802 il romanzo fu pubblicato intiero a Milano, dal Genio tipografico: e fu dei più notevoli avvenimenti letterari dei primi anni dell’800.

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Due anni prima della pubblicazione del romanzo, il Foscolo era ritornato a Milano. Ma le ostilità, in alto, contro il poeta, che non aveva cantato Marengo, incominciarono. Non gli fu conceduto il brevetto di capitano. Non era pagato dei suoi stipendi, o solo in parte e a fatica. In una lettera nobilmente sdegnosa, egli domandò le sue dimissioni. Il Monti e altri amici si interposero. Gli fu concessa la paga di capitano aggiunto, ed affidatagli la compilazione di una parte del codice militare.
Ma si era fatto troppo mondano. E gli bisognavano danari molti. Giuocava, perdeva. Un amore malefico e reale contrastava in lui l’amore, fatto di fantasia e di memoria, per la Roncioni. Mentre scriveva il romanzo così appassionato e così puro, una donna milanese, famosa per bellezze e per licenza, traduceva per lui in italiano il Werther del Goethe: la contessa Antonietta Fagnani, moglie dei conte Marco Arese, figlia di una marchesa Fagnani, già fatta conoscere al mondo dall’amabile mordacità dello Sterne. Documento del violento amore del Foscolo, c’è tutto un epistolario. Egli, come sempre gli accadde, amò quella donna con serietà, con intensità. Ma la donna era infedele e raggiratrice. I rivali parecchi e indegni. Dopo due anni di passione esaltata, di rancori, di sospetti, di umiliazioni, Ugo si liberò da quella catena.
Ma il Foscolo non aveva soltanto fatto all’amore in quei due anni. Alle censure contro il Buonaparte, che si leggono nel romanzo, egli preparava gli Italiani con una Orazione a Bonaparte pel Congresso di Lione, pubblicata nel gennaio 1802. A Lione il primo console aveva convocato 450 Italiani, perchè deliberassero intorno alle sorti della Repubblica Cisalpina: che fu poi chiamata Italiana, ed ebbe presidente esso il Buonaparte, e vice-presidente il Melzi. Il governo commise al Foscolo l’orazione: il quale, se, con molto impeto declamatorio, esalta il Buonaparte come “liberatore di popoli” e “fondatore di repubblica”, con molto calor di eloquenza accusa i demagoghi, che in nome di lui e della libertà francese malversavano i popoli della Cisalpina. – Dopo l’Ortis, nel 1803, il Foscolo raccoglieva, dedicandoli al Niccolini, i suoi versi, rifiutando tutti gli altri divulgati innanzi, e segnatamente l’ode a Bonaparte liberatore (e probabilmente non per la sola inferiorità artistica) e il Tieste; e ne faceva tre edizioni, l’ultima, la più ricca, comprendente 12 sonetti, l’ode alla Pallavicini, e l’altra all’Amica risanata. Nella quale ode, la deificazione che il poeta fa della donna, la contessa Fagnani, ritornata gloriosamente e freddamente bella, non è senza richiamo alle idee sulla poesia, svolte nella Chioma di Berenice (pubblicata nel luglio del 1803), anch’essa dedicata al Niccolini: traduzione del carme di Callimaco, già voltato in latino da Catullo, accompagnata da un commento perpetuo e preceduta e seguita da considerazioni sulla indole e gli uffici della poesia e, forse con allusione agli adulatori napoleonici, sulle apoteosi, che i poeti sogliono fare dei principi e degli eroi. Opera scritta in meno di tre mesi, composta specialmente contro i pedanti e gli accademici, a dimostrare quanta era dottrina nell’autore o quanto gli era facile acquistarla; ma il pensatore rompe continuo di sotto l’erudito, come già negli scritti dell’abate padovano Angelo Conti, che il Foscolo stimò gran demente, e i cui Saggi qui pare tenesse a modello.

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Continuando nelle strettezze, il Foscolo pensò di abbandonare la milizia. Chiese di esser mandato segretario di legazione, o a Parigi, o in Toscana. Da Parigi si rispose che il Foscolo era “testa assai calda”: che il Console voleva riservata a sé la nomina dei ministri e dei segretari di legazione. E il Foscolo, che si teneva già sicuro di andare almeno in Toscana, non fu nominato: sgradito come pare che fosse al generale Murat, comandante supremo dell’esercito franco-italiano.
Domandò allora il poeta di prender parte alla spedizione, che il Bonaparte preparava, o mostrava di preparare, contro l’Inghilterra, radunando un esercito sulle coste della Piccardia e della Normandia, nel quale aveva piacere di arruolare Italiani, per “donner de l’orgueil et de la fierté nationale à la jeunesse italienne “, come diceva in una lettera al vice-presidente Melzi; e l’unico merito, rispetto all’Italia, che il Foscolo riconobbe in Napoleone fu appunto di aver data coscienza di sè e disciplina militare agli Italiani, imbelli e fiaccati da secoli di servitù. Non senza difficoltà fu accolta la domanda del poeta.
La divisione italiana si mosse nel novembre del 1803. Ma solo nell’aprile del 1804 il Foscolo, addetto allo stato maggiore del generale Pino, col grado di capitano, ebbe l’ordine di recarsi a Valenciennes. Partì, molestato dalla indigenza, e col rammarico di sapersi alienato l’animo del Melzi, presso cui, in una lunga lettera rimasta incompiuta, cercò di scolparsi. Confinato a Valenciennes, al comando delle reclute e degli invalidi, chiese il posto di capo-battaglione, che non gli fu conceduto nè allora nè più tardi: giacchè il Murat, divenuto governatore di Parigi, ” cuore di leone e testa d’asino”, come il Foscolo l’ebbe più tardi a chiamare, non gli volle perdonare la troppo franca italianità dell’orazione pei Comizii di Lione. Il Foscolo si discolpò al Murat per lettera, e gli mandò l’orazione: nessuna risposta: bensì, dall’alto, l’ammonimento a non mandar più lettere chiuse al governatore di Parigi.
Ogni speranza di avanzamento era finita. Il Foscolo si confortò come spesso, troppo spesso, nell’amore. Ammesso in una famiglia inglese prigioniera a Valenciènnes, vi conobbe la signorina Sofia o forse Fanny Emeryth: dalla quale apprese gli elementi della lingua inglese, e la lasciò con nel grembo una creatura sua, quella Floriana, che apparirà, poi, inaspettata, a confortare, o forse a turbare di rimorsi, gli ultimi anni del poeta.
Ma tenuto basso dai superiori, il Foscolo tanto più si affezionava agli inferiori. Fu patrocinatore dei rei nei tribunali di guerra; ed è a stampa la difesa che fece del sergente Armani; accusato di tentato assassinio del suo capitano. Finalmente fu mandato a Calais, ispettore delle truppe imbarcate. Di qui mandò al Monti la Epistola, commovente di nostalgia, amara di scetticismo. E quivi in quel facile mondo di ufficiali francesi ed italiani – corteggiò più d’una donna, e più puramente e lungamente delle altre la giovinetta figlia dell’intendente generale Claudio Pètiet.
Ma l’imperatore sospese l’impresa contro l’Inghilterra, volendo prepararsi alla campagna contro l’Austria, del 1805. Gran parte dell’esercito fu richiamato e il Foscolo fu destinato a Boulogne: ove ingannò l’ozio dell’attesa e sfogò il malumore, traducendo il Viaggio sentimentale dello Sterne, e riassumendo la sua vita, o meglio ritraendo il suo carattere e il suo credo filosofico e morale, nella Notizia di Didimo Chierico.
Nel gennaio 1806, poichè la spedizione contro d’Inghilterra pareva aggiornata a maggio, il Foscolo ottenne un permesso di quattro mesi, per ritornare a Venezia. Passando da Parigi, ebbe la debolezza di pregare – naturalmente invano – per ottenere le decorazioni della Legion d’onore e della Corona di ferro. Colà visitò anche il giovane Manzoni da lui conosciuto a Milano, e che tra breve avrebbe ricordato, con tanta lode, in una nota dei Sepolcri: e da lui, e più dalla madre contessa Beccaria, ebbe una accoglienza fredda, che lo amareggiò. Era a Milano nel marzo, donde partì per Venezia. Vi rivide la madre, la sorella, l’Isabella Albrizzi Teotochi, più che mai letterata e autorevole fra i belli ingegni letterati.
Passati i quattro mesi, ritornò, renitente, a Milano. A Padova visitò il Cesarotti, che tra qualche anno gli divenne nemico, quando il Foscolo fu sospettato autore di un mordacissimo epigramma contro la Pronea, poema che e tutto un’apoteosi di Napoleone. A Verona rivide il Pindemonte, che gli lesse saggi della versione dell’Odissea, e forse anche il primo canto di un suo poema sui Cimiteri, rimasto incompiuto dopo la comparsa dei Sepolcri: e potè essere eccitamento al carme foscoliano, se un poema, dove il Foscolo gittò tutto sè stesso, aveva bisogno di eccitamenti od occasioni esteriori.
A Milano era ministro della guerra il generale Caffarelli, che molto amò il Foscolo e comprese che egli aveva più diritti ad affermarsi come uomo di lettere che obblighi di mostrarsi ufficiale modello. Lo incaricò della traduzione dei Commentarj della battaglia di Marengo del generale Alessandro Berthier, e lo volle a Milano a sua disposizione, senza nessun obbligo di servizio militare.

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La libertà, almeno parziale, di cui venne a godere, la vicinanza del Monti che gli aveva letto l’Iliade e il Bardo (sul quale scrisse un articolo di molta lode), la oramai sicura coscienza delle proprie energie nella pienezza dell’ingegno e dell’età, rianimarono il Foscolo alla produzione poetica, oltrechè agli studi negli antichi: cose che in lui, il quale leggeva col cuore e trasferendo sempre sè nel passato e il passato nel presente, andavano di pari passo. Meditò molti Inni (uno sui cavalli): distese l’inno alla Nave delle Muse, che è frammento di un poema dal titolo Alceo: compose – ma restò incompiuto – un Sermone, oscurissimo, non meno contro i suoi nemici letterari che contro la strapotenza di Napoleone. Continuò la traduzione dell’Iliade, già incominciata in Francia. E credette giovare agli Italiani col diffondere quella educazione e quegli spiriti militari, che più in essi si desideravano. Onde imprese a illustrare le opere di un grande capitano italiano, Raimondo Montecuccoli, non conosciuto sino allora che in una pessima versione francese: e letto poi nella edizione del Grassi, assai migliore di quella del Foscolo.
Nel gennaio del 1807 si recò a Brescia, per intendersi col tipografo Bettoni; e a intervalli vi rimase fino al settembre, attratto dall’amenità del luogo, dalla cortesia degli amici e dalla simpatia per la contessa Maria Martinengo Cesaresco. Quivi pubblicò, nei primi d’aprile, coi tipi del Bettoni, i Sepolcri; e negli ultimi l’Esperimento di traduzione dell’Iliade: contenente una lettera dedicatoria al Monti, la versione letterale del primo libro fatta dal Cesarotti, la versione poetica sua, e di fronte quella del Monti: oltre alcune considerazioni del Cesarotti, del Monti e sue sulla difficoltà di tradurre alcuni singoli passi di Omero, come il cenno di Giove.
Specie tra i giovani, i Sepolcri destarono un’eco di universale ammirazione. Ma un Guillon, ex-prete francese, nel francesizzante Giornale italiano, del 22 gennaio 1807, si levò a deprezzare il carme, di cui non aveva sentita l’alta poesia, ma solo intuito gli spiriti profondamente italiani. E il Foscolo dette subito fuori, ex abundantia cordis una Lettera al Guillon su la sua incompetenza a giudicare i poeti italiani: un colpo di scudiscio o di scopa che fece tacere per sempre i! critico; ma altri, della stessa specie. avrebbero più tardi presa la rivincita.

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Nel maggio del 1808 uscì il primo volume del Montecuccoli. E la grave e nobile fatica era giovata non poco ad ottenere al Foscolo, in quell’anno, la cattedra di eloquenza all’università di Pavia; per la quale il governo gli conservava anche la metà dello stipendio di capitano: in tutto L. 6600: non poco per quei tempi, anche se poco alle voglie da grande signore del Foscolo, che a Pavia volle mettere su una casa in tutto punto. Vero è che egli sperava di rimanere sempre a Pavia, in un ufficio nel quale avrebbe potuto finalmente affermare tutto se stesso. Poichè l’insegnamento di eloquenza non voleva per lui essere precettistica pedantesca, ma una nuova revisione del prodotto letterario, ricondotto alla sua origine psicologica, alla sua ragione di essere politica e sociale. Ciò che si scorge dalla prolusione, detta il 22 gennaio 1809, Dell’origine e dell’uffizio della letteratura, davanti a un pubblico numerosissimo, presente il Monti, che quattro anni innanzi aveva pur parlato eloquentemente da quella cattedra.
Ma, prima ancora che il Foscolo pronunziasse quella prolusione, la cattedra, insieme con altre, fu soppressa: conservato ai professori lo stipendio per quell’anno: liberi di fare o no le loro lezioni. Il Foscolo fece le sue lezioni, che durarono fin al 6 di giugno; e molto si adoperò, forse sperò che la cattedra gli fosse conservata. Ma come si sarebbe fatta una eccezione per lui, che non aveva invitato alla prolusione i ministri, e si era rifiutato, nonostante le insistenze anche del Monti, di fare in essa il solito encomio a Napoleone e quello al principe Vicerè?
Con questo atto il Foscolo rivendicava la libertà delle lettere proclamata dal suo Alfieri e alla quale si mantenne fedele tutta la vita. Tanto più spiace che neppure in quegli anni il poeta sapesse imporsi una condotta più rigidamente morale. Pare che troppo approfittasse della onerosità di amici, come di Ugo Brunetti da Lodi ispettore nell’esercito, e di Paolo Montevecchi, marchigiano, studente di matematica e suo coinquilino a Pavia. Anche, amico di Paolo Bignami, banchiere a Milano, amò la moglie di lui Maddalena, che tentò di uccidersi. per salvarsi dai rimproveri del marito, finalmente indignato. E insieme alla Bignami, o forse subito dopo, amoreggiò con la Francesca Giovio, di Como, figlia del conte Gian Battista, un letterato e patrizio all’antica, che voleva un gran bene al Foscolo. Nell’agosto del 1809 il Foscolo però scriveva alla contessina, pregandola di dimenticarlo e di accettare il marito, che il padre le proponeva: un colonnello, il barone Vautrè.

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Ma, ridotto a vivere a Milano in due stanzucce, con un assegno annuo di 1000 lire, che egli mandava in gran parte a Venezia alla sua famigliuola, il Foscolo espiò duramente la vita spendereccia dell’anno precedente. Domandò, invano, un posto d’ispettore nella pubblica istruzione. Domandò invano la cattedra – allora istituita a Milano – di eloquenza forense, data a un poetastro nemico del Foscolo, Angelo Anelli. Ottenne l’umile ufficio di correttore delle traduzioni dei componimenti teatrali per la compagnia dei commedianti italiani al servizio di S. M. il Re d’Italia. In quella miseria, che troppo spesso lo metteva in contraddizione con i suoi principi d’indipendenza, lo colpirono i suoi nemici: tanto più fieri contro di lui, quando alcuni uomini del governo, come il ministro Vaccari, mostravano di proteggerlo. E gli aizzarono contro il Monti.
L’inimicizia dei due poeti era, in fondo, diversità di tempra morale: opposta concezione dell’ufficio e della dignità delle lettere. Le occasioni al dissidio furono parecchie. Il Monti dette una volta al Foscolo la Palingenesi, perchè leggesse, cioè lodasse: il Foscolo tacque. In un articolo pubblicato nel più serio periodico italiano del tempo, gli Annali di scienze e lettere, il Foscolo disse male dei versi dell’Arici in morte di Giuseppe Trento; e dell’Arici parlò poco favorevolmente anche in casa del ministro Venèri, presente il Monti: protettore dell’Arici. Il Foscolo scrisse al Monti una nobilissima lettera, per chiarire i malintesi. Forse non fu spedita. Ma nulla avrebbe impetrato dal troppo vanitoso avversario, che del Foscolo parla in qualche lettera di quei tempi con un linguaggio e in una maniera assolutamente indegna; e lanciò contro di lui un epigramma troppo più cattivo, che non quello notissimo attribuito al Foscolo.
Ma, ad irritar più universalmente i letterati di mestiere, apparve, negli Annali, un articolo del Foscolo, ove, riprendendo le mosse, o il pretesto, dalla traduzione pindemontiana dell’Odissea, egli entrò in campo contro il Salvini, il Baccelli, il Soave, il Ceruti, vecchi traduttori di Omero, e contro pedanti, e accademici, e ciarlatani. Il principe di quei ciarlatani, il pessimo Urbano Lampredi, nel Corriere milanese del 15 maggio 1810, stampò una Varietà, canzonando e malignando il Foscolo: e addosso al Foscolo si scagliarono, e allora e poi, parecchi, e oscuri e magnati delle lettere, e sin l’editore dei Sepolcri, il Bettoni. E il Foscolo si difese ancor negli Annali, pubblicando il Ragguaglio di un’adunanza dell’accademia dei Pitagorici, ove l’Araldo, che legge l’articolo del Lampredi, è interrotto di continuo dagli accademici, che conciano l’autore dell’articolo come meglio o come peggio non si potrebbe. E contro principalmente il Lampredi e il Monti il Foscolo componeva sin d’allora la violenta satira dell’Ipercalissi, che avrebbe lanciata al pubblico qualche anno dopo.
Questa volta il Foscolo fu ancora salvato e consolato dall’arte sua. Smesso il pensiero di una tragedia passionale – Bibli e Cauno -, forse perché seppe che la trattava l’amico suo Gasparinetti, riprese una tragedia già tramata sin dal dicembre del 1809: l’Ajace. E negli Annali, durante la composizione di essa, pubblicò un articolo su Gregorio VII, che parve la riabilitazione del pontificato e fu proibito. Verseggiò la tragedia, con impeto, durante il 1811. Alla Scala (tanta fu l’affluenza del pubblico, che non sarebbero bastati teatri minori) fu data il 9 dicembre di quell’anno. Grande l’aspettazione degli amici e dei nemici. Il Foscolo, che assisteva, uscì dopo il secondo atto. Il Lampredi, durante la rappresentazione, fece correre pel teatro un epigramma:

Qui estinto giace il furibondo Ajace,
Requiescat in pace.

All’atto quinto, il vocativo o Salamini, fece, si dice, nascere quel riso che uccide i drammi. In realtà il dramma cadde per manco di forza intrinseca. E il poeta sperò indarno in una rivincita a Venezia. Si videro allusioni a Napoleone. Il dramma fu proibito: i censori sospesi; benchè il ministro Vaccari stesso avesse mandato la copia ai censori con la sua autorizzazione. Il Foscolo scrisse al Vicerè una lettera molto remissiva, che in verità dice assai poco, anche più a scolpare i commedianti, che se stesso. E fu punito blandamente, con un congedo di otto mesi, per ragioni di salute e d’istruzione.

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Fu per qualche mese a Venezia, poi a Belgioioso, ospite di quel principe. Nell’agosto si avviò a Firenze. Si fermò prima alcuni giorni a Bologna, a visitarvi la contessa Cornelia Barbara Martinetti, nota alla corte del Beauharnais a Milano, a quella di Napoleone a Parigi, e il cui salotto vide i più celebri scrittori italiani e stranieri del tempo. Il Foscolo si accese anche di lei, e le profferse un amore che ella non accettò, e rimase una tenera amicizia.
A Firenze – la città d’Italia che a lui pareva la più italiana – il poeta abitò, dai primi d’aprile del 1813, a Bellosguardo. La Isabella Albrizzi l’aveva presentato per lettera alla contessa d’Albany – la donna amata dall’Alfieri, e non da lui solo -: e la contessa trattò con ogni cortesia il poeta, che continuava gli spiriti antifrancesi dell’Alfieri, e suoi. Nel salotto dell’Albany il Foscolo rivide la Isabella Roncioni, ora Bartolomei, corteggiata dal prefetto Strozzi: e parecchie donne anch’egli corteggiò, come la Eleonora Nencini. Ma quella che amò non certo più caldamente, ma nell’amicizia della quale trovò poi conforto nei momenti amarissimi, fu la sanese Quirina Mocenni, moglie ad un Ferdinando Maggiotti, demente e infermo, da lei piamente vigilato. Il Foscolo, nelle moltissime lettere che, anche nei più tardi anni, le scrisse, la chiamò costantemente la Donna gentile, non senza, credo, allusione al nome che Dante dette alla donna, che apparve a confortarlo dopo la morte di Beatrice. Il Foscolo conobbe la Quirina nell’agosto del 1812: prima trovò in lei l’amante; assai presto 1’amica, che lo sovvenne, sin d’allora, nei suoi bisogni, e sin d’allora gli perdonò, generosa, amori sempre più violenti, sempre meno degni, per altre donne.
Ma l’ambiente fiorentino fu favorevole quanto mai altro alla produzione del poeta. Riprese e rielaborò il Viaggio sentimentale dello Sterne, pubblicandone la versione a Pisa, nel 1813, con la notizia intorno a Didimo Chierico. Lavorò alla Ricciarda, tragedia tra amorosa e nazionale, che fu rappresentata a Bologna il 18 settembre 1813, con un esito che sarebbe stato assai più favorevole, se l’autore, “che fa lo scrittore e non il ciarlatano”, non si fosse rifiutato d’apparire al proscenio: modestia che parve superbia. Forse dopo la Ricciarda attese subito all’Edipo, di cui non si conosce che un abbozzo parziale in prosa. E a Firenze in gran parte verseggiò il Carme alle Grazie.
La rotta di Lipsia (1814) significava la dissoluzione di quel regno d’Italia, che al Foscolo pareva ormai regno italiano. Anche, al Vicerè Beauharnais e ai suoi ministri il Foscolo aveva troppi obblighi. Da Firenze ritornò dunque a Milano, fermo di combattere per la patria. E al Vicerè chiese di essere riammesso nel servizio attivo dell’esercito. Fu nominato capitano aggiunto di stato maggiore, al servizio del generale Fontanelli, ministro della guerra.
Dopo l’abdicazione dell’Imperatore, il Foscolo caldeggiò il partito che voleva l’indipendenza del Regno e il Beauharnais re d’Italia: e sostenne queste idee in un indirizzo al congresso di Parigi, disteso a nome dei comandanti della guardia civica. Vide e cercò d’impedire l’eccidio del ministro Prina, con che la plebaglia e il vecchio austriacante patriziato intesero dimostrare la loro ostilità allo stabilirsi della dinastia dei Beauharnais. Per l’energia spiegata in quei giorni, il Foscolo fu nominato capobattaglione.
Ma gli Austriaci ritornarono. Il Foscolo, rappresentato come eccitatore della pubblica tranquillità, si difese presso il Conte Verri, presidente della reggenza, e il maresciallo austriaco Bellegarde, che mostrò per lui la più grande cortesia. Egli, del resto, s’era tutto raccolto nella lettura dei poeti suoi e nella traduzione di Omero: convinto che l’Italia, inerme, non poteva più nulla e che non aveva bisogno che di pace: e con in fondo all’animo, se non già il proposito dell’esilio volontario, almeno il desiderio di rifugiarsi in una vita di raccoglimento e di studi, a Venezia, dove la madre e la sorella avevano già affittata per lui una nuova casetta.
In quello stato di perplessità e di apatia, lo vennero a cercare le seduzioni del governo austriaco, che sarebbe stato felice di trarre alla sua causa lo scrittore che, specie sulle nuove generazioni, esercitava un fascino potente, e che notariamente aveva avversato il predominio francese. Il Bellegarde gli propose l’idea di fondare e dirigere un periodico, che, naturalmente, avrebbe dovuto diffondere fra le classi colte la simpatia per l’Austria. La tentazione era grande: grande il pericolo di un rifiuto. Il poeta tergiversò; poi accettò di scrivere il disegno e il programma del periodico. Pareva che si fosse arreso. Aveva già fatto credere di essersi ordinata l’uniforme militare austriaca, pel giuramento solenne che doveva darsi il 1 aprile. Ma il cantore dei Sepolcri, il discepolo del Parini e dell’Alfieri, trovo finalmente la parte migliore di se stesso.
La sera del 30 marzo 1815 il Foscolo partiva nascostamente da Milano, per l’esilio, onde non sarebbe ritornato mai più. Rinunciava al benessere che finalmente e stabilmente avrebbe trovato. Egli, amante del lusso, affrontava, non più giovanissimo, disagi, umiliazioni, miserie; ma la sua dignità di uomo, di italiano, di scrittore era salva: la santità delle lettere era attestata col martirio. E pochi giorni dopo esponeva alla famigliuola sua i motivi ideali di quello che non era affatto un gesto di orgoglio, ma una necessità di coscienza squisita.

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Ramingo per la Svizzera: fu a Lugano, a Roveredo nei Grigioni, a Coira, a San Gallo, a Zurigo. Quivi conobbe il banchiere Pestalozzi, e amoreggiò con l’isterica moglie (di lui; ma quand’ella non volle più saperne della corte del poeta, il Foscolo commise un’azione troppo indegna di ogni galantuomo: rivelò al Pestalozzi la tresca di sua moglie con un Guido Sorelli, maestro d’italiano: Provò poi un disperato rimorso, che confidò alla Donna gentile.
Più lungamente dimorò a Hottingen, villaggio presso Zurigo, in casa di un pastore protestante. Conduceva una vita poverissima. Una volta andò attorno per quei villaggi, vendendo i suoi anelli e cercando di vendere anche l’orologio. Era estremamente avvilito. Ma vegliava su quel vinto la Donna gentile. Ella si offrì di fargli avere ogni tre mesi una somma, sino a che non potesse provvedere a sè più largamente. Acquistò i suoi libri lasciati a Milano, e gli fece dal Pellico mandare la somma, senza scoprire chi aveva comperato quei libri. Tremò di tutte le sofferenze fisiche e morali dell’amico, compatì a tutte le sue debolezze: contenta, come di un premio supremo, che il Foscolo le ottenesse, come fece, dall’Albany il suo ritratto dipinto dal Fabre, per farne tirare una copia. L’Albany naturalmente non amava più il Foscolo. La sua fuga gli era parsa un gesto di cattivo gusto.
Ma, in quei primi tempi dell’amarissimo esilio, l’anima del Foscolo s’inacerbì. Riprese e ampliò il Didimi clerici prophetae minimi Hypercalypseos liber singularis: una satira, o libello, in versetti biblici, sulla maniera dell’Apocalisse: divisa in diciannove capitoli: che sferzano il Lampredi (Jeromomo) e gli amici suoi, il Paradisi, il Lamberti, il Bettoni, l’Anelli, il pittore Bossi, l’amica e la protettrice di tutti costoro, la vecchia letterata Annetta Vadori. Anche il Monti vi è deprezzato come poeta, oltraggiato come marito. Nè mancano giudizii sulla decadenza irrimediabile dell’Italia, e su Parigi (Babilonia maxima) su Roma (Babilonia perpetua) su Milano (Babilonia minima). Il tutto sotto nomi così strani, e così oscuri velami, che l’autore aggiunse all’opuscolo una chiave, a spiegare le allusioni. L’Hypercalipsis fu stampata in pochissimi esemplari destinati agli amici. È l’unico scritto men che nobile pubblicato dal Foscolo.
Un’altra operetta, polemica – almeno nella mossa iniziale – pensò il Foscolo, contro un libello sulla rivoluzione di Milano del 20 aprile 1814, che accusava gli indipendenti alla maniera del poeta di essere stati la causa della rovina del regno d’Italia. Il Foscolo, per risposta tracciò un Discorso sulla rovina del regno d’Italia, che poi trovò uno sviluppo più adeguato in un Discorso proemiale e in tre Discorsi della servitù d’Italia, pubblicati però dopo la sua morte. In essi è tutta la professione politica del Foscolo e il suo pessimismo, saldamente radicato nella storia vecchia d’Italia e nella recente.
Anche pubblicò il Foscolo a Zurigo, il 1816, ma con la falsa data di Londra 1814, una nuova edizione dell’Ortis, con la lettera contro il Buonaparte, soppressa in tutte le precedenti edizioni meno che nella prima: e nel 15 l’operetta Vestigio della Storia del Sonetto italiano dall’anno 1200 al 1800, che mandava in dono alla Donna gentile, ultimo saluto a lei, prima di andare in Inghilterra.
Giacchè il Foscolo aveva deciso di tentare più sicura fortuna in Inghilterra, dove lo scrittore antinapoleonico non poteva non essere accolto onoratamente. La stessa Quirina lo incuorò al viaggio. Il Foscolo le offrì di sposarla: giacchè il marito di lei era morto. Ella conosceva troppo bene il poeta, per non intendere che egli domandava ad una donna tutto ciò che ella, non più giovane e non bella, non poteva dare. Lo amava troppo, per imporgli una catena. E non accettò.
Il Foscolo, per Basilea e Francoforte sul Meno, giunse il 7 settembre 1816 ad Ostenda: di dove si imbarcò per l’Inghilterra. L’11 settembre era a Londra.

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Grandi speranze, in principio; specie da poi che Giuseppe Binda, un gentiluomo lucchese che dimorava colà, l’ebbe presentato nella casa di Lord Holland, convegno dei più nobili spiriti. Ma i guai incominciarono assai presto: cioè le strettezze economiche.
Unica via di guadagno – se non di fortuna – il lavoro letterario, che al Foscolo pareva un delitto tradurre in industria, e pel quale mancavano a lui le virtù del metodo e della costanza: per non dire che, non abbastanza pratico di inglese, doveva prima scrivere in italiano, né sempre era agevole trovar traduttori della sua difficile prosa. Comunque, tentò presso editori. Ripubblicò, con poco o punto frutto, l’Ortis, dedicandolo al poeta Roger, che aveva conosciuto in casa Holland. Incominciò, per l’editore Murray, una serie di lettere sugli Usi, la letteratura e la storia politica dell’Inghilterra e dell’Italia: che furono poi i frammenti del Gazzettino del bel mondo, pubblicato postumo. Ma aveva bisogno di danaro subito. I debiti si succedevano ai debiti.
I1 24 maggio 1817 moriva sua madre. L’abbattimento del poeta crebbe a dismisura. Gli balenò l’idea di stabilirsi al Zante, per vigilare sui tenui interessi che erano già di competenza della morta. Nel viaggio si sarebbe recato a Firenze. Avrebbe viaggiato coi deputati delle isole Ionie, venuti a presentare al principe reggente la nuova costituzione. Ma non ne fece nulla, e raccomandò i suoi affari a quei deputati, tra i quali era un suo cugino, Dionisio Bulzo, che lo sovvenne con qualche larghezza.
Si ritirò a Kensington, avendo a sua disposizione la biblioteca dello Holland. Lavorò non più per editori, ma per periodici; il compenso poteva essere ben altro e ben più pronto. Scriveva in francese articoli tradotti subito in inglese. Il primo, sopra Dante, fu pubblicato nella Rivista di Edimburgo. Gli fu pagato 32 sterline per ogni foglio, invece delle 15 solite. Fu sollecitato a mandare altri articoli sulla letteratura italiana. Il Foscolo vide il benessere, e lo annunziò con gioia alla Donna gentile. Conto di dare annualmente alle Riviste otto articoli, e di guadagnare 400 lire sterline, quante gli bisognavano, per vivere in Londra tollerabilmente. Ma in quell’accensione subita di grandi speranze, pensò ad un’opera gigantesca, a cui non sarebbe bastata la vita di un uomo, sia pur dell’attività (intermittente, ma intensissima) del Foscolo: pubblicare in 36 volumi i classici italiani, con biografia, introduzione sui tempi dell’autore, collezione dei testi, e tutto insomma quell’apparato storico e filologico che doveva illustrare l’autore, collocandolo nella sua età: secondo la maniera generosa di critica, che il Foscolo voleva appunto iniziare. Fra pochi anni si riprometteva un capitale di 10.000 lire sterline. Bastava trovare 560 associati. Qui era appunto il difficile. Ma pieno di questa futura ricchezza, e persuaso che in Inghilterra non merita nessuna fiducia il letterato che è – o apparisce – povero, il Foscolo incominciò a sfoggiare. Affittò una villa a Mouisey, la montò riccamente, volle carrozza e cocchiere.

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Iohn Cam Hobhouse, uomo di stato, amico del Byron, volendo, a commento del canto quarto del Giovane Aroldo, dare un brevissimo saggio della letteratura italiana contemporanea, si rivolse al Foscolo, che aveva conosciuto nel principio del 1818. Comparve il Saggio sulla letteratura italiana piena di aneddoti irriverenti e di notizie inesatte su scrittori italiani del tempo; ma grandi lodi erano fatte al Foscolo. Lo scandalo in Italia fu grande.
L’Hobhouse ammise, a sua discolpa, che il saggio era del Foscolo. Il Foscolo negò recisamente, segnatamente in una lettera del 30 settembre 1818 al Pellico. E davvero pare impossibile sia cosa di lui, anche se è probabile che egli abbia dato all’Hobhouse notizie e materiale. Così egli si ruppe con l’amico; perdendo le 50 sterline al mese da lui promessegli, a patto di preparare i documenti sulle ultime rivoluzioni italiane. E intanto il Foscolo aveva trascurato di scrivere altri articoli per le riviste, interrotta, appena sul principio, la sua edizione dei classici: e ripiombava nella temuta povertà; anzi, non ne usciva affatto.
E tuttavia continuava, come poteva, a pagare la casa in campagna, e anche aveva un appartamento in città; come Leopoldo Cicognara, recatosi a Londra, scriveva alla Donna gentile. Vero è che in città era ritornato, a causa dell’ultimo e più ardente forse dei suoi amori. Intimo della famiglia Russell, si innamorò della giovinetta Carolina, a cui parlava di lettere italiane e di preferenza commentava il Petrarca. Quando, con la famiglia, la signorina si recò in Isvizzera e rimase lungamente a Losanna presso una sorella ammalata, il Foscolo le scrisse lettere piene di passione. Ma la Carolina non potè mai offrire al poeta più che dell’amicizia, né sempre calda. E nel principio del ’20 la relazione, durata quasi due anni, si troncò.
Rimasero, documento delle letture e conversazioni petrarchesche con la giovinetta indarno amata, i Saggi sul Petrarca, composti già nel 20, pubblicati nel 21, in una edizione di gran lusso in soli 12 esemplari. Su quello che ritenne per sè e su quello destinato a Carolina, il Foscolo scrisse l’ode in inglese a Calliroe, con innanzi l’epigrafe miltoniana. “La sua forma era velata. Ma all’estatico mio sguardo Amore, Dolcezza, Bontà splendevano nella sua persona. Ahimè! Mi svegliai”!

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Si svegliò, nella prosa di una vita vuota oramai di ogni lusinga. Si buttò al lavoro. Pubblico dal Murray la Ricciarda, sperando in un guadagno che si tradusse in un debito. Continuò nella versione di Omero, e il terzo libro mandò a Gino Capponi, che lo pubblicò nella Antologia di Firenze. Scrisse – e talvolta tirò giù – molti articoli letterari e storici per periodici inglesi. Dai quali lavori ingrati e non tutti da lui, si ritraeva a comporre un’opera di più solidità, di più eloquenza, di più nobiltà: la storia degli eventi riguardanti la cessione di Parga ai Turchi, che voleva essere una apologia di quel piccolo ed eroico popolo tradito, e un atto di accusa contro il governo britannico, che aveva sopportato la iniquità.
Annunziato già nel 20, dall’editore Murray, come di prossima pubblicazione, il libro non comparve poi più, e uscì solo molti anni dopo la morte del poeta, tradotto in italiano da Scipione Emiliani Giudici. Corse, in Italia, la voce calunniosa che il Foscolo si fosse fatto pagare dal governo inglese il suo silenzio. Egli affermò che non volle pubblicare il libro, per non comprometter gli amici, che gli avevano comunicati i documenti. Forse, depresso più che mai dal lavoro ingrato e dalle angustie economiche, non trovò più il coraggio di affrontar le ire del Governo (che già contro il breve saggio foscoliano su Parga pubblicato nella Edimburgh Review, faceva inserire, nella Quarterly, una diatriba minacciosa) e di esulare anche da quella terra, che pur l’aveva sì generosamente accolto.

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Ma nel 1822 Ugo ritrovò la sua figliuola naturale, natagli in Fiandra: la madre era passata a nozze: e la piccola affidata ad una sua nonna, che ora, morendo, le lasciava in legato circa 3000 lire sterline, investite in terreni e in tre villette.
Si chiamava Floriana: aveva diciassette anni: era bella: mitissima. Il padre, che forse appena sapeva della sua esistenza, dovette essere anche più esaltato che commosso. Sognò un suo vecchio sogno e che questa volta pareva realtà: una vita serena, un tramonto sereno, da artista e da studioso, in una casa propria. E subito si dette – sulla dote della figliuola – a costruire una villa, cui pose nome Digamma-Cottage (dal titolo di un suo lunghissimo e travagliosissimo saggio sul Digamma Eolico, che l’inglese Bentley aveva mostrato quanto importasse alla ricostruzione della metrica del testo omerico). L’ammobiliò ed arredò signorilmente: volle uomini e donne al suo servizio: e per cagione d’una di esse ebbe un duello alla pistola con un certo Graham, traduttore dei suoi articoli.
Ma i debiti erano cresciuti a dismisura nella fabbrica e nell’arredamento del Digamma-Cottage. Il Foscolo non si era ancora installato che già, in mezzo al lusso apparente, si sentiva circondato e strozzato dalla miseria. S’affrettò a pubblicare, nel 1823, dal Murray i Saggi sul Petrarca (in un’edizione più completa della precedente), con l’intento di inserire poi su tutte le gazzette di Londra che l’autore di quei saggi era disposto a dar lezioni di lingua e letteratura italiana, in casa di chiunque lo volesse chiamare.
Lady Dacre, a cui il poeta faceva questa desolante confidenza, lo sovvenne, facendogli tenere un corso di letteratura italiana a pagamento per sottoscrizione. Al Foscolo parve umiliazione intollerabile quel parlare ad un pubblico, che veniva a udire, o a vedere l’uomo celebre ridotto alla povertà, non già ad ascoltare la parola del pensatore. Pure accettò; e i sottoscrittori furono molti. Ma il provento non bastò a nulla. Nuove angosce, nuovi tormenti. Nell’ottobre di quell’anno, 1823, Ugo scriveva alla sorella Rubina di esser costretto a lavorare sino a quattordici ore al giorno, e a nutrirsi di solo riso. Lady Dacre lo scongiurava alle economie. All’economia lo scongiurava il generale Santorre Santarosa, che dimorava da più tempo esule in Londra. Quando egli, il 2 marzo del 24, si reco per salutarlo l’ultima volta, trovò sua figlia; non lui. Egli si era nascosto; poichè i creditori avevano fatto spiccar contro di lui un mandato d’arresto. La villa e i mobili furono messi all’asta.

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Il 24 novembre del 1824 il Foscolo fu, pare, arrestato. Da allora la sua vita fu tutta una lotta per isfuggire ai creditori, o per calmarli in parte, e un lavoro disperato, in cui impiegava tutte le ore del giorno; riservandosi la notte a scorrere i libri da consultare. Ruppe ogni legame cogli amici inglesi e più cogli Italiani, anche più maligni che curiosi. Mutò nome; e perchè non si sapesse che il miserabile randagio era Ugo Foscolo, e perchè bisognava sfuggire ai creditori, alle calcagna sempre. Si fece chiamare prima Mr. Merriat; poi, facendo suo il cognome della figliuola tapinante con lui, Mr. Emerith. Cambiò domicilio, spessissimo. Ora fu in campagna, a Totteridge Hertz; ora di nuovo in Londra, d’uno in altro dei quartieri più poveri. Dette lezioni private a condizioni le più modeste; e nei giorni più duri andò persino attorno vendendo ad uno ad uno i suoi libri, eccettuati Dante ed Omero; e una volta fu preso per uno spacciatore di libri rubati.
Eppure, in quelle strettezze estreme, il Foscolo condusse avanti il più meraviglioso, per densità di pensiero, per dovizia di dottrina, per originalità di vedute, dei suoi lavori critici: il Discorso sul testo della Divina Commedia (1825), cioè il primo volume dei quattro, in cui 1’editore Pickering avrebbe pubblicato Dante: compenso alla pubblicazione totale 1200 sterline, ipotecate senza più ai creditori: 4 sterline ogni settimana durante il lavoro. Il Pickering venne meno ai patti: e il Foscolo negò il manoscritto degli altri volumi, anche perchè si lusingava di poter rifare tutto secondo il disegno suo primitivo, molto più ampio; essendo suo ardente desiderio, come si esprimeva in una lettera al Capponi del 26 settembre 1826, che gli Italiani vedessero finalmente quanto egli aveva sentito addentro nel maggior loro poeta.
Nè le sventure fiaccarono l’uomo. Rari i lamenti nelle lettere di questi miserrimi anni; alta, virile più che mai la filosofia, che pervade gli scritti letterari. Si direbbe che in quella durissima vita il Foscolo provi come una gioia di espiazione. E in quella solitudine gli sovvenne più che mai l’amicizia dei buoni. Se un esule come lui, Giovanni Berra, suo copista, rivelò per danaro il suo domicilio, un altro esule, Fortunato Prandi, gli faceva da intermediario con editori e direttori di periodici: Francesco Manni, già profugo in Francia e ora, a 66 anni, in Inghilterra, maestro di lingue, gli offrì tutti i suoi servigi, in compenso dell’avergli il Foscolo, in tempi più lieti, trovate delle lezioni. E molto si affezionò al poeta, in quegli anni, il gentiluomo Hudson Gurney, a cui il Foscolo dedicò, grato, il discorso dantesco. A lui dovette, se potè abbandonare l’orrendo quartiere di S. Giles e trasferirsi in Henriette Street, ottenendo, pel cambiamento d’aria, una qualche tregua alla febbre biliosa, che lo travagliava da più tempo.

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Pensò un’ultima volta di ritornare al Zante. Lì avrebbe tenuto volentieri, perchè compreso ed amato, quelle lezioni di letteratura, che in Inghilterra faceva suo malgrado. Avrebbe condotto a fine i suoi lavori, che poi in Inghilterra gli sarebbero stati pagati convenientemente. E già pregava il cugino Bulzo di fermargli una casa colà. Sarebbe partito, appena avesse i danari.
In realtà quella sete di riposo ultimo e di pace era stanchezza estrema. Il Foscolo non poteva oramai lavorare più. E la infiammazione del fegato e degli intestini incrudiva. Oramai non si sentiva in grado che di dar lezioni ai giovanetti: di greco, di latino, di italiano. Ma anche questo umile lavoro mancava. Forse l’unico guadagno nell’ultimo anno della sua vita gli venne dal Pickering, che, riaccordatosi con lui, ottenne i rimanenti volumi danteschi e gli pagò lire sterline 167. Ma sin dal dicembre 1826, o per nascondersi o per riprender salute, il Foscolo si era stabilito nel villaggio di Turnham Green, a Bohemian House: frequentatovi da pochissimi, il Manni, il dottor Negri, Giulio Rossi, il canonico Miguel Riego. I suoi ammiratori, fra i quali il poeta Campbell, si adoperarono, perché ottenesse in Londra una cattedra universitaria di letteratura italiana. Ma il Foscolo rimaneva indifferente: e compilava, con l’amico Giulio Rossi, una Antologia inglese dei poeti italiani.
Nell’agosto del 1827, lord Hudson Gurney seppe della abitazione del poeta e si recò a visitarlo. Lo trovò a letto, enfiato dall’idropisia, e stoicamente forte contro il male. Altri amici inglesi accorsero, benefici: lord Russell fra gli altri. L’infermo fu operato due volte. La seconda, la molta acqua levatagli lo prostrò talmente, che rimase senza coscienza, o quasi: né potè riconoscere il Conte Capo d’Istria, che egli aveva desiderato di rivedere, per raccomandargli forse i suoi tenui interessi al Zante.
Morì la sera del 10 settembre 1827. Un biglietto tracciato per la figlia mostra che, anche presso l’agonia, lo stringeva la preoccupazione economica, ed era lieto (pare) di aver soddisfatto i suoi debiti. I1 18 settembre fu sepolto nel cimitero di Chiswick: cinque soli amici ve l’accompagnarono: il Riego, il Manni, il Negri, il generale Demuster, Edward Roscoe. Fu aperta, dalla Litterary Chronicle, una sottoscrizione per la tomba del poeta; ma non fruttò molto. Il Gurney fece porre lui, più tardi, sulla fossa una lapide, con le indicazioni del giorno di morte e del numero degli anni. E poi sostituì la lapide, con una piccola tomba in forma di altare. Nel 1871 le reliquie del poeta furono trasferite a Firenze, nel tempio delle glorie italiane, da lui esaltato con versi immortali: in Santa Croce.
Floriana fu affidata alla tutela del canonico Riego; sovvenuta dal Gurney e da altri. Morì di mal di petto, quando non si sa, ma pochi anni dopo il padre. Ella lasciò tutti i manoscritti paterni al Riego, che li vendette nel 1835 al Capponi, a Enrico Mayer e a Pietro Bastogi. Nel 1844 passarono alla biblioteca Labronica a Livorno (1).

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Il Foscolo fu uomo di “vizii ricco e di virtù”, come si definì egli stesso. Le virtù erano nel suo profondo, i vizii apparivano nella sua vita esteriore, agli occhi di tutti: e chi si fermò a questa deplorò e detestò l’uomo, che destò invece indomiti e tenaci amori in chi visse vicino all’anima sua. – Il Foscolo fu nel medesimo tempo: violento e tenerissimo: facile agli amori non tutti nobili, e pur cultore e ammiratore della verecondia; pronto alla collera, ma anche più pronto a dimenticare e a disprezzare; e professò che la pietà è la più umana e più sociale delle virtù.
Certo, noi vorremmo che alcune macchie non apparissero nella storia di quell’uomo. Amò troppe donne, anche se nell’amore egli cercava l’esaltazione dello spirito, assai più e meglio che l’appagamento dei sensi. Fu dedito al giuoco. Contrasse debiti molti. Piatì troppo spesso per aumenti di paghe. Fece spese troppo superiori alle entrate. Ma egli, come tanti poeti moderni, come il Byron, il Lamartine, il Chateaubriand e qualche famoso contemporaneo, provò forse quell’invincibile bisogno della ricchezza e dello splendore, senza di che può apparire inanimata la stessa bellezza. E bisogna infine collocare il poeta nell’età sua, per intenderne, cioè per valutarne anche la figura morale. Ogni individuo volle vivere ed affermarsi negli anni della Rivoluzione e dell’Impero. L’adattamento alla mediocrità della vita e alla necessità delle cose sarebbe venuta poi. E il Foscolo fu un prepotente individuo, che volle vivere sino al punto culminante la sua vita, anzi le sue molte vite. Il giovinetto tribuno, che a Venezia declamava i suoi versi rivoluzionarj avvolto in un mantello logoro e stinto, sarebbe stato l’ufficiale che in Genova, durante l’assedio, si nutriva di pane nero e dormiva sulla paglia, come i suoi soldati. Ma anche sarebbe stato l’ufficiale elegante e mondano, che faceva all’amore colle più belle donne, anche se mogli de’ suoi superiori: e il professore di eloquenza, che credeva giusto che anche gli uomini della cattedra avessero una bella e comoda casa, da quanto i negozianti e i proprietari: e lo scrittore, credeva diritto e dovere di essere ricco anche lui, o almeno di apparirlo. L’intemperanza è perciò la caratteristica del Foscolo: un Foscolo senza quella intemperanza non sarebbe più lui. Era la caratteristica anche del suo Alfieri, né gli sarebbe rimproverata, se avesse goduto le rendite dell’Alfieri. Del quale egli serbò intatto, con eroicità di sacrificio l’alto concetto della indipendenza delle lettere e dello scrittore: sia dall’impero della folla rivoluzionaria, come dal cenno di Napoleone e dalle insidie dell’Austria. Il Foscolo non scrisse forse mai una sola pagina, di cui avesse ad arrossire o a pentirsi poi: non una sola pagina sacrificò al suo convincimento, alla sua coscienza. Dissimulare dovette qualche volta, simulare non volle mai.
Perciò il Foscolo vero è tutto nel Foscolo scrittore. E la grandezza e l’austerità dello scrittore è tanta, da far dimenticare le debolezze dell’uomo.

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(1) I dati di fatto sulla vita del Foscolo ho preso in piccola parte dalla vecchia vita del Foscolo, che il CARRER premise all’edizione delle opere foscoliane, di Venezia, del 1842, e in parte assai maggiore dalla diligentissima vita, che del Foscolo scrisse G. CHIARINI (Firenze, Barbera, 1910). Non però condivido sempre i giudizii che dell’uomo recano questi due biografi, l’uno troppo facile panegirista, l’altro troppo rigido censore. Molto utilmente è stata ristampata da P. Tommasini-Mattiucci (Città di Castello, 1915) la più vecchia delle vite del Foscolo, quella scritta il 1830 da Giuseppe Pecchio, che conobbe il poeta, qua e là ostile; ma, negli spiriti dello scrittore, il Pecchio penetra molto bene talvolta, e molto bene rappresenta il mondo ideale e reale, in cui il poeta si mosse.