TORQUATO TASSO  J Wolfgang Goethe

TORQUATO TASSO  J Wolfgang Goethe

TORQUATO TASSO  J Wolfgang Goethe


TRAMA – Nel trentennio che precede la fine del secolo 1500, lo scrittore cortigiano Torquato Tasso inizia ad avere problemi con il suo animo e la società in cui vive. Infatti egli già aveva manifestato stati di turbe mentali durante la composizione del poema Gerusalemme liberata, revisionata varie volte, sebbene il Tribunale del Sant’Uffizio gli avesse fornito il permesso di pubblicare l’opera. Da tempo Tasso è alla corte del duca Alfonso II d’Este, di cui ha una relazione segreta con la sorella Eleonora. Tuttavia i suoi problemi e il turbamento interiore, che lo portano ad odiare ed accettare la sua condizione di cortigiano servitore di nobili mediocri in letteratura, costringeranno Tasso a vedere andare in fumo tutti i suoi sogni. Dopo l’ennesimo episodio in cui Tasso manifesta segni di pazzia, è costretto ad abbandonare la corte dov’è ospite e ad essere internato in un manicomio.

Torquato Tasso (1544-1595) visse da cortigiano spesso servile, senza alcun serio impegno etico. E tuttavia, nel sogno, nella fantasia, nella sensualità del suo verso, si ritrova l’immagine dell’uomo libero e autonomo nata dall’arte e dalla cultura del ‘400 e del ‘500.

La crisi che la Corte signorile subisce nel corso del secolo XVI ha la sua prima radice nella decadenza economica della borghesia italiana.
A ciò s’aggiunge la prevalenza politica, la minaccia , la pressione dei grandi stati stranieri. Se l’una mina il benessere delle signorie italiane, l’altra ne compromette l’indipendenza e lo stato pacifico di equilibrio. E finalmente un veleno sottile penetra la cultura e la civiltà italiana e paralizza il principio stesso della vita cortese rinascimentale: il senso attuale della autonomia dell’uomo. La Controriforma cattolica, se, per la sua immediata occasione storica, è reazione alla Riforma protestante, sviluppa e conduce a maturazione un processo ormai secolare, per cui la Chiesa, di fronte a un mondo laicale, che in varie forme e secondo diversi fini e principi, tende ad affermare e realizzare la propria indipendenza, respingendo quella verso una mera funzione spirituale, organizza in forma sempre più saldamente e unitariamente gerarchica la propria struttura, concentra le proprie energie, disperse in rapporti di compromesso, per il dominio nel mondo, elabora e fissa definitivamente le formule del suo diritto di assoluto magistero in tutti i campi della cultura.
Così, mentre viene a mancare al principato la sua base stessa sociale, la sua indipendenza e sicurezza politica, la sua funzione di garanzia dei nuovi valori e delle nuove forze di civiltà e di cultura, la Corte ove si esprimeva, in forma idealizzata tale potenza e tale funzione come certezza di libera umanità, si corrompe. Sottomessa al capriccio del Principe, incalzato da minacce esteriori che sempre più gli rendono difficile una continuità di linea politica, staccata dalla massa cittadina e popolare da un vallo che il lusso e lo sfarzo accentua e non più sa colmare, centro di privilegi e perciò d’intrighi e di corruzione, traduce la cortesia in etichetta, la cavalleria nell’orgoglio formale, la cultura in un decoro galante ed encomiastico, in un servizio artificioso e splendido.
Questa vita di cotte, su cui ancora è il riflesso dell’ideale immagine del conte Baldassarre Castiglione (1478-1529), ma in se stessa svuotata di realtà storica ed etica, decadente e corrotta, è il mondo che s’apre ancor nella prima gioventù al Tasso, come sola certezza per la sua vita sradicata, per le sue inquiete passioni, per l’ambizione confusa e sconfinata, in cui la stessa intimità d’affetto per il padre lo travolge. “Piacere ed onore” egli vi cerca, come scrive in una sua lettera, e nel sogno inebriante d’avventura non penetra neppure una parvenza d’impegno etico.
Questa mancanza d’impegno etico – così viva, al contrario, in senso positivo, nell’adesione alla funzione cortigiana nel Castiglione, e, in senso negativo, nelle umanissime concrete reazioni ad essa dell’Ariosto, è il motivo fondamentale della tragedia della vita del Tasso. Egli affronta in un ingenuo egoismo la vita di corte e perciò è il meno adatto a riconoscerne le strutture, gli uomini, e i problemi. E’ perciò immediata vittima delle gelosie, delle invidie, degli intrighi, vittima ancor più della sua inesperienza e del suo inconscio porsi sulla via dei potenti.
La mania di persecuzione si alimenta di questa condizione e l’aggrava, giacché nessuna energia morale le resiste.
Così le lettere scritte da S. Anna non sai se ti destino maggior pietà per le reali sofferenze dei prigioniero o per la miseria di quel suo instancabile adulare cortigiano, e invocar perdono, compassione, e sospirar donativi. E quando la segregazione si attenua, e gli interventi autorevoli fanno sperare prossima la liberazione, tu cerchi invano – a differenza con il Galilei – nella rinnovata prospettiva di quest’avvenire, l’affermazione di un diritto a continuare, per il suo umano valore, l’opera creativa, e l’appello vigoroso agli amici per una salda collaborazione.
E’ stata più volte osservata la mancanza di ogni consistenza etica dei personaggi della Gerusalemme, che sembra contrastare con la serietà eroica che loro attribuisce il Poeta. Il trionfo della fede e delle armi cristiane che dovrebbe animare di sé tutto il grande quadro barocco, non è che la cornice, e il personaggio che vi corrisponde, il pio Goffredo, è il più inconsistente. Gli altri tutti, Tancredi, Rinaldo, Argante, Solimano, Clorinda, Erminia, Armida, sono, per così dire, racchiusi in se stessi, isolati dal decoro scenico ove il Poeta li evoca, tanto che il loro dramma non riesce a realizzarsi come universale e umanamente efficace, ma si dissolve in atteggiamento retorico o in intimità sentimentale.
La verità è che essi sono personaggi non d’un mondo etico, tragicamente umano, ma di un mondo d’evasione poetica. Ed esso è il mondo a cui dalla realtà della vita di Corte, pur senza sottrarsi ad essa, anzi ubbidendo alle sue suggestioni, si rifugiò il Tasso. Un mondo, si può dire a tre dimensioni, in ciascuna delle quali si esprime un aspetto di quell’umanità autonoma che nella vita cortigiana aveva la prima organica manifestazione, così da dettar legge a tutta l’Europa.
La prima dimensione è quella della cortesia, che è vita divenuta gioco, senza meta e senza errore, paga della sua grazia, incantata dal suo riso. Le dà il ritmo l’amore, che è qui, come sempre, libertà dei richiami del mondo, vita a sé libera e immune.
La seconda dimensione è la cavalleria. La materia cavalleresca aveva offerto già da più di tre secoli le forme letterarie in cui potessero esprimersi con sensi diversi, gli aspetti della vita contemporanea. Ma nel Tasso essa è un piano di idealizzazione evasiva di ciò che ormai nelle corti è costume formale e retorico. Per ciò le virtù cavalleresche, il coraggio, lo sprezzo del pericolo, la fedeltà all’onore, la generosità si riassumono e si risolvono nell’ideale fiera indipendenza del cavaliere nel sito distacco dal volgo, nel suo disimpegno da ogni compito concreto, nel suo gioco cavalleresco, elevato ad eroismo disinteressato ed assurdo che in sé celebra e sublima l’arte del duellare. Non è l’avventura che distrae i cavalieri dal loro compito, ma la volontà d’esser solo se stessi e di far della propria vita l’espressione più che di un proprio destino, di un proprio temperamento.
E la terza dimensione è finalmente l’idillio georgico. Anche esso sviluppa non solo un tema letterario tradizionale, ma un motivo, della vita di Corte. Il regime signorile concilia la città e la campagna, non solo in quanto introduce in questa gli elementi della civiltà cittadina, bonificandola, ma in quanto assorbe nella vita cortigiana l’aspetto della rusticità campagnola. Solo più tardi l’incanto sarà rotto: il copernicanesimo ridarà alla natura la dignità della sua infinita autonomia; il senso tragico della vita individuale e sociale, fuori delle forme tradizionali, scatenerà nel dramma shakespeariano la natura, il cui spirito giocherà con gli uomini nella “tempesta”, e la pittura barocca si compiacerà del selvaggio naturale dove la umanità si sperde e si sgretolano le rovine della sua civiltà. Ma nel Tasso la natura è idillica ancora e l’evasione è solo la soavità dell’idillio e la libertà del sentimento. Idillica è la natura delle rime che celebrano la dimora in villa della Duchessa… “Selva lieta e superba”, “e fiumi e rivi e fonti”, “nubi lucide e lievi”, “venti, benigni venti”, “accese fiamme e voi baleni e lampi”, “tu, bianca e vaga luna”, “voi montagne frondose”, sono immagini vive e intense, fuor d’ogni stilizzazione formale.
Idillica è la natura degli “alberghi solitari dei pastori”, ove conduce Erminia la fuga. E idillica è la natura dell’Aminta e il suo gioco d’amore ch’essa vi raccoglie. Tuttavia qui più intenso appare un motivo che sorge stillo sfondo dell’idillio georgico del Tasso e che ne è l’ultimo termine…, la libertà non dalle passioni, ma delle passioni, la libertà d’amore fuor d’ogni vincolo.
Così il mondo poetico del Tasso, dove egli più si esprime e si ritrova, mondo di libertà, di amore, di voluttà, in cui s’idealizzano, fuor delle miserie e dei contrasti, alcuni motivi della vita cortigiana, è mondo di evasione da ogni impegno etico, d’ogni affrontamento della realtà, in una pura sfera di fantasia e di passione.
Quanto alla religione nel Tasso, essa non è che il Cattolicesimo della Controriforma, assunto bensì come motivo d’unità poetica e civile dell’opera, ma solo nella sua esteriorità, nella sua pompa rinnovata, nel suo decoro di cerimonie e funzioni liturgiche, nel suo tono predicatorio, nel suo astratto e gelido fanatismo, e perciò disadatto a unificare sostanzialmente la multiforme realtà poetica e ad imprimerle un organico senso di eticità.
Il Tasso è il tipico rappresentante del Cattolicesimo della Controriforma negli ambienti laici colti italiani. La religione, nelle sue forme positive di culto, è costume e costume rafforzato dalla potenza mondana della Chiesa, dalla sua efficacia pratica su una società in crisi. E gli scrupoli conformisti, non sono scrupoli di fede o di ragione. E neppure nascono da positive minacce di persecuzione inquisitoriale. Nascono piuttosto, e ciò le rende più angosciose, più pietose e più misere insieme, dall’ambiziosa, disperata sete d’esser l’aulico poeta di quella potenza e del mondo che vi obbedisce, e da quella Corte universale trarre “il piacere e l’onore” che gli erano sfuggiti nella Corte ferrarese. Nascono da quel veleno più sottile che corrompe la cultura e ogni uomo di cultura ove una potenza estranea o contrastar al progresso umano seduce sua ambizione e il suo interesse, là dove l’ossequio diviene infelice, inquieta servilità.
E’ invero l’umiltà di una servitù resa per ambizione che guida negli ultimi anni il Tasso fuori dal suo mondo poetico, quella poesia retorica e celebrativa di contenuto ecclesiastico più che religioso, che si ritrova nella “Vita di Sisto V”, nella canzone per il “Presepio”, nelle “Lacrime di Maria”, nel “Pianto di Gesù”, nel primo canto del “Monte Oliveto”.
Poesia o meglio declamatoria esornativa; priva d’interna passione, dove la realtà della stessa vita religiosa, sua umana potenza, sembra ignorata, anche se si celebri grandi santi o grandi pontefici, ove 1’aneddotico e il sentimentale soffocano la visione e sentimento, ove un solo motivo sincero è dato avvertire, che mal si confonde con la pietà, una sempre più dolorosa inquietudine, un sempre più profondo disperare, un senso di vanità d’ogni sforzo, che pur ritorna in dolore e in una nuova ansa verso una mondanità che egli ha testé rinnegato. Non è religiosità, per quanto commovente, quest’intensa desolata rinuncia. Più vasto tentativo, ed estremo in un campo ove tace la sua ispirazione poetica, ma da cui egli si aspetta onori e gloria è il poema del “Mondo Creato”. Esso vuol essere non più la celebrazione di aspetti della vita o della liturgia ecclesiastica, ma la visione controriformata del mondo, sotto l’impero divino.
Un’ispirazione etica unitaria mancò, dunque, come alla vita così all’opera del Tasso. E, se spinto non da rinnovata fede, ma da ambizione di successo e sogno di gloria, si studiò di introdurvela nella forma della celebrazione della Chiesa del Controriforma e del suo magistero, essa o rimase vuota cornice, o scompose e dissolse la stessa visione poetica. Questa risiede piuttosto per il Tasso nel mondo d’evasione cortese, cavalleresca e idillica, che la stessa vita cortigiana gli offriva: mondo di disimpegno etico, di abbandonata fantasia e sentimento, percorso tuttavia da un’ansia di libertà, da un sogno di perduta soave voluttà.
In questa atmosfera, su questa corrente fiorisce la poesia tassesca, limpida e sincera, così che nell’artificio in cui si sostiene, è schietta, nella sensualità di cui palpita è innocente. Poesia di un’umanità che ha perduto in una profonda crisi la sua struttura etica e s’abbandona ai suoi sogni, alla sua sensibilità e ne adorna il suo mondo reso immune dagli urti del reale. Tutti i difetti della poesia tassesca, la frammentarietà, l’artificio, l’indifferenza alla coerenza obiettiva, derivano da questa sua natura e s’accrescono ed altri se ne sviluppano di pomposità, di vanità ornamentale, allora che egli tenta di contaminarla con una più vasta sublime inquadratura. Ma da quella natura deriva anche, là ove essa è pura, la sua estrema eleganza e la molle grazia musicale e la fantasia pittorica e il pathos profondo di soave passione e dolce tristezza che l’ispira. E’ il canto dell’ultimo poeta del Rinascimento, che salva l’immagine dell’uomo libero ed autonomo solo nel sogno, nella fantasia e nell’intima sciolta sensualità, in cui riconcilia sé a se stesso e a se stesso il mondo.
Ed è proprio questo motivo ciò che ancora oggi mi commuove e mi incanta, nonostante le contaminazioni pseudo-religiose a cui lo sottomette il poeta e nonostante le cornici barocche e i falsi, retorici motivi che egli vi introduce.

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