TEMA GIACOMO LEOPARDI

TEMA GIACOMO LEOPARDI


Il Leopardi fu essenzialmente un lirico, vale a dire un uomo incline a esplorare se stesso e a effondere la sua storia interiore, i “dolci e cari moti del cuor”, più che a inventare e a far parlare personaggi diversi da sé. Egli, anzi, fu tra i rappresentanti maggiori di quella fiorita di lirici che, nei primi decenni dell’800, in tutta Europa portarono agli estremi il processo, già iniziatosi nel Settecento, di interiorizzazione dell’arte, nel senso che questa non fu fatta consistere più, com’era stato per secoli, nell’adeguamento del sentimento individuale a moduli di sensibilità, di comportamento e di espressioni ritenuti socialmente validi e perciò prescritti universalmente, ma fu vista, invece, come un libero sfogo degli affetti nella loro irripetibile individualità, e da esprimersi perciò in modi del tutto individuali.
In Leopardi troviamo la storia di uno spirito che, partendo dalla riflessione su temi individuali riesce ad innalzarsi e a comprendere in sé un intero universo. Un universo che viene comunque visto alla luce di esperienze individuali, che è la risultante di una filosofia che non è propriamente filosofia, di una particolare visione della vita in cui l’uomo non riesce mai a portare all’esterno un solo aspetto di se stesso, ma è poeta mentre fa il pensatore ed è filologo mentre è poeta ed è tenacemente credente proprio nel momento in cui dichiara nulla ogni fede. È questione di grande sensibilità riuscire a decifrare la personalità del Leopardi e dire personalità equivale a dire poetica e quindi i motivi della sua poesia, ciò perché ciascuno di noi è portato a metterne in rilievo alcuni e a trascurarne altri.
La grande poesia leopardiana è tutta contenuta negli “idilli” della prima giovinezza, nei canti della maturità che la posterità chiamò “grandi idilli” perché trattavano e completavano i motivi dei primi idilli e considerando solo alcuni tratti nella Ginestra e nell’ultimo canto Il tramonto della luna.
I motivi fondamentali della grande poesia leopardiana sono tre: la nostalgia e il rimpianto della giovinezza perduta; il senso dell’infinito; l’invocazione dolorosa e pur rassegnata a tutte le cose perché spieghino la ragione, il fine di questo infinito e vano dramma di dolore che è la vita. La giovinezza è per il Leopardi “l’ora felice dell’esistenza nella quale le care e fervide illusioni ci tengono lontani dall’orrida realtà delle cose, e noi percorriamo, viandanti obliosi e fidenti, la vita con l’anima piena di arcane aspettazioni”. A questo bene perduto per sempre si rivolge la poesia del Leopardi con un accento di tenerezza struggente e insieme di dolente rassegnazione. La poesia del Leopardi non è imprecazione o grido di angoscia o di vendetta, ma una elegia soavissima sollevata ad una straordinaria purezza musicale e sentimentale. La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, La sera del dì di festa, Le ricordanze, Il passero solitario, A Silvia sono i capolavori di questo momento della ispirazione leopardiana, specialmente gli ultimi tre, canti nei quali la elegia autobiografica si solleva ad una purezza ineguagliabile.
Accanto al motivo della giovinezza e della pienezza di vita perdute, il motivo dell’infinito: meno siamo tuffati nel fiume del vivere, più avvertiamo la distesa paurosa dell’infinito, e non l’infinito che ci empie l’anima di arcana religiosità, ma l’infinito come orrida distesa di spazi interminati, come immensa solitudine e mistero. Il Leopardi avvertì profondamente il battito sconfinato e misterioso dell’infinito, ma sembrò trarne un soavissimo conforto: al cospetto di esso, l’anima del poeta si immedesima col battito vuoto e meccanico del tutto, perde il senso di sé, si fa cosa fra le cose, e si acqueta in un placamento in cui sembra ucciso ogni residuo di tristezza, o vibra remoto, come smarrito del tutto. Questo motivo si realizza nell’Infinito e in alcuni tratti di altri canti, particolarmente della Vita solitaria.
Talvolta infine, il poeta si volge alle cose e invoca una spiegazione dell’essere. Ma egli reca nell’interrogazione la coscienza che essa è vana: come egli ha la coscienza dell’impossibilità di un ristorarsi prodigioso del dono e dell’incanto della giovinezza, così egli sa che nessuno risponderà al suo interrogativo. Ma anche qui agisce la meravigliosa misuratezza della poesia leopardiana: egli non impreca e non maledice, ma si effonde in una tristezza desolata ed abbandonata. Non c’è ribellione contro le cose, né supina accettazione di esse: è come la rassegnazione in cui vibra purificato tutto il nostro dolore, quando è uscito dal suo immediato bruciore e noi lo collochiamo nel ritmo dell’infinito. Perciò quell’interrogare è un modo di piangere le cose: un piangere sommesso e cheto, un puro piangere, di qua da ogni ribellione. Questo motivo lo possiamo cogliere nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, in cui viene portato all’esasperazione il dolore del poeta, e al visione della vita.
Il pessimismo, quell’atteggiamento spi-rituale che col Leopardi nel tempo è divenuto sinonimo di rifiuto della vita, credo debba essere riguardato con occhio diverso. Pessimismo in Leopardi è accettazione eroica della vita, non è rifiuto di essa, ma altissimo sentimento morale che riesce a santificare tutta un’esistenza. Una visione della vita così desolante, così terribilmente tragica, un’esistenza così solitaria, così al di fuori di ogni schema ortodosso di vita comune, avrebbero generato un pazzoide, al massimo un genialissimo filosofo ma mai avrebbero generato una poesia così limpida, così pura, così universale; poesia che, pur nelle spietate analisi razionalistiche ed illuministiche, possiede il fascino delle immortali creazioni quando si fa voce pura del sentimento; e poesia di contraddizioni magnanime, come tutti i critici, a cominciare dal De Sanctis, ebbero a scrivere perché proprio dal grido di dolore disperato e privo di vita si eleva un incitamento ai valori più cari dell’esistenza e dell’umano operare.
Una lirica quella del Leopardi che celebra le bellezze incomparabili della natura, i giorni lieti della irripetibile giovinezza, il palpito segreto del cuore per cui essa è soprattutto il canto sublime di un uomo che volle essere anche un ragionatore mentre era essenzialmente un poeta.
A mio avviso è un vero miracolo l’esistenza della poesia del Leopardi, un miracolo che riesco a spiegarmi soltanto supponendo nel poeta un’energia morale incredibile, al di fuori di ogni norma. Si dice comunemente che la poesia del Leopardi è la contraddizione più evidente del suo pessimismo, secondo me la poesia del Leopardi è l’unico elemento che ci permette di capire chi fosse veramente l’uomo. Un uomo nel quale l’assiduità allo studio, la grandissima perizia tecnica non soffocano l’ispirazione, ma la affinano, le si mettono a completa disposizione piegandosi ad ogni sua esigenza; un uomo nel quale il mondo interiore, tutto il sistema di pensiero non vive distaccato dalla sensibilità, ma ne riceve anzi la sua ragione d’essere: avevo detto a proposito del suo pensiero: “una filosofia che non è filosofia” ebbene con ciò volevo intendere che essa non è mai qualcosa di astratto, ma va continuamente formandosi in un assiduo contatto con la vita.