Tema del canto La quiete dopo la tempesta

Tema del canto La quiete dopo la tempesta


di giacomo leopardi


Il tema della poesia.

Il tema della poesia è nascosto nel titolo; infatti “La quiete dopo la tempesta” fa pensare al sereno che segue il temporale e la prima strofa conferma questa impressione ed idea. Nella prima strofa, il Leopardi descrive il ritorno alle attività quotidiane interrotte per il temporale; i vari personaggi riprendono le azioni quotidiane: dalla gallinella che ripete il suo verso al viaggiatore che ripiglia il suo cammino. Il lettore pensa che il Leopardi dovrebbe sviluppare, e dare più valore, il sereno che segue ed irrompe dopo la tempesta; invece, il poeta insiste e sviluppa il fatto che il piacere che segue allo spavento della tempesta è così poco che diventa niente in confronto al dolore che domina nella natura. E allora il rapporto si inverte: ciò che più preme al Leopardi non è il poco piacere che segue la tempesta ma il dolore che domina e sconvolge gli uomini.
Nella poesia, il Leopardi sviluppa questa similitudine: come dopo la tempesta segue il sereno, così dopo il dolore segue il piacere, ma quel piacere è così breve che si riduce a niente. Questa accentuazione del pericolo della tempesta è evidenziata da questi versi: “onde si scosse/ e paventò la morte/ chi la vita abborria;/ onde in lungo tormento/ fredde, tacite, smorte,/ sudar le genti e palpitar, vedendo mossi alle nostre offese folgori, nembi e vento/” (versi 34 –36).
Questa descrizione ha lo scopo di aumentare, di molto, il dolore che la natura arreca negli uomini e ciò spiega la svolta della seconda e terza strofa, nelle quali si dà maggiore risalto al dolore e agli affanni che la natura procura agli uomini, rispetto alla prima strofa ricca di quiete. Il “brusco passaggio di tono”, come dice Fernando Bandini (Canti; Edizione Garzanti pagina 215), è dovuto, per l’appunto, a questo insistere che il Leopardi fa più sulla tempesta che sulla quiete. Per fortuna nella vita di tutti i giorni il rapporto normale è diverso: dura di più il sereno che la tempesta, dura di più la salute che la malattia, ad eccezione dei casi gravi e disgraziati che possono portare anche alla morte improvvisa e violenta. Invece, il Leopardi, accentua maggiormente i casi sfortunati e ingigantisce le intemperie del clima diminuendo il piacere che, per fortuna, c’è tra gli uomini, magari discontinuo, ma in misura maggiore di quello stimato dal poeta. In effetti il Leopardi, proprio in quegli anni, aveva cambiato la sua idea sul “concetto di piacere” e sull’idea di Natura che aveva avuto prima. Il Leopardi aveva già sviluppato molti anni prima la sua teoria del piacere che era molto diversa da quella maturata nella costrizione di stare a Recanati. Il Leopardi aveva scritto: <<L’anima umana desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perché è ingenita o congenita con l’esistenza, e perciò non può avere fine in questo o in quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina con la vita>> (citazione tratta da Leopardi – Zibaldone – I Mammut – Newton editore – Pag. 69 (pagina originale dello Zibaldone 165)). (E questa, secondo me, è la l’idea giusta che ogni uomo ha del piacere).
Ora invece il Leopardi, imprigionato a Recanati, e dopo tutte le disillusioni che aveva provato negli anni, cambia parere ed accentua gli aspetti distruttivi e mortiferi della natura; il poeta stava quindi cambiando il suo giudizio sulla natura, che da madre benigna, e “pietoso no, ma spettatrice almeno”, diventa “rea di ogni cosa”. Questa trasformazione è confermata dallo Zibaldone: <<La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine dei veri mali de’ viventi>> (Recanati, 2 gennaio 1829) (citazione tratta da Leopardi – Zibaldone – I Mammut – Newton editore – Pag. 931 (pagina originale dello Zibaldone 4428).

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