MICHELANGELO BUONARROTI RICERCA
MICHELANGELO BUONARROTI RICERCA
-MICHELANGELO BUONARROTI RIASSUNTO-
Figlio di Ludovico Buonarroti Simoni e Francesca di Neri, Michelangelo nasce il 6 marzo del 1475 a Caprese, in provincia d’Arezzo. La famiglia Buonarroti si trova a Caprese a causa dell’impegno come magistrato podestarile di Ludovico. Pochi mesi dopo la sua nascita, la famiglia rientra a Settignano, sui colli fiorentini. Fin dalla tenera età Michelangelo dimostra presto inclinazione per l’arte, stringe amicizia con Francesco Granacci e, nonostante la contrarietà paterna, entra nella scuola del Ghirlandaio a Firenze.
Michelangelo Buonarroti Simoni, pittore, scultore, architetto e poeta (1475-1564). Nato da genitori fiorentini, a 13 anni fu a Firenze nella bottega del Ghirlandaio, poi nella scuola di S. Marco con Bertoldo, l’allievo di Donatello. Prima dei vent’anni sperimentò nel marmo ogni tecnica antica e contemporanea. In due opere giovanili, la “Madonna della Scala” e la “Lotta dei Centauri coi Lapiti” (Galleria Buonarroti, Firenze), manifestò già i caratteri del suo stile: il creare nel marmo -per via di levare-, il concepire in grande, il contrapporre a masse in ombra altre in vivida luce.
Dopo aver visto opere di J. della Quercia a Bologna, scolpisce a Roma, nel 1497, la “Pietà”. Con il “David”, il tondo del Bargello e il “S. Matteo” (1504), di cui -il non finito- accresce la suggestività, termina il periodo giovanile. A 30 anni Giulio II lo incaricò del suo Mausoleo in S. Pietro. Quest’opera, che gli era carissima e che mai ebbe modo di realizzare, costituì un motivo di tormento per tutta la vita di Michelangelo.
I contrasti con i Della Rovere ebbero termine soltanto con Paolo III, quando si collocò la tomba in S. Pietro in Vincoli, con una sola statua realizzata dall’artista: il “Mosè”. Gli “Schiavi”, le cariatidi realizzate per il Mausoleo, sono ora al Louvre e a Firenze. Riconciliatosi con Papa Giulio, a Michelangelo, che poco aveva operato nella pittura (“Madonna Doni”, cartoni per la Battaglia di Cascina) fu richiesto di dipingere in affresco la volta della Cappella Sistina. Si accinse all’opera di mala voglia, e in 4 anni (1508-12) realizzò questo capolavoro composto da 9 riquadri (dal “Caos” alla “Creazione dell’uomo”, dal “Peccato” al “Diluvio” e al “Noè ebbro”) e da 8 timpani posti tra le 12 nicchie monumentali, con le figure dei Profeti e delle Sibille, dei Pargoli e degli Ignudi.
Dopo questa grande fatica, un insieme di eventi (la tomba di Giulio, mai fatta; la facciata di S. Lorenzo in Firenze, mai posta in opera, l’incomprensione di Leone X, le mura apprestate per la difesa di Firenze, rese vane dal tradimento) incupì l’animo dell’artista. Ne sono visibili testimonianze le statue de “L’Aurora” e del “Crepuscolo” (1525), del “Giorno” e della “Notte” (1526) poste sulle arche di Giuliano e Lorenzo de’ Medici. Tali statue, risolte nell’architettura della Sacrestia Nuova di S. Lorenzo da M. stesso attuata per volere di Clemente VII, mostrano l’apice raggiunto nella espressione plastica, e la sfiducia nell’umano operare.
Finì con lo scolpire soltanto per sé. Le tre “Pietà”, quella di Palestrina (Palazzo Strozzi, Firenze), di Firenze (Duomo) e Rondanini (Milano, Castello), realizzate per la sua tomba, nel silenzio della casa a Macel de’ Corvi presso la colonna Traiana, quelle “Pietà” che non lo accontentarono mai, sulle quali lavorò sino a poco prima di morire, dimostrano quanto la sua scultura maturasse e cambiasse insieme a lui, con gli eventi della vita, con il passare degli anni. Solo nella “Madonna dei Medici” il reclinarsi e il risolversi di ogni atto della mesta Madre per la vita del Pargolo, di un gagliardo freschissimo modellato, ci riporta alla speranza.
Nel 1534, esule volontario dalla patria asservita, Michelangelo si stabilisce a Roma e vi rimane fino alla morte (1564). Nell’ “Epistolario” si rammarica continuamente di così lunga vita, ma quello che fa e dice è un preludio all’arte del domani, in una essenzialità romantica che ritroviamo nelle fabbriche del Borromini, nelle sculture di A. Rodin e, prosegue quella pittoricità plastica di cui si sostanziano il cielo e il suolo di Roma, dalle Fondamenta alla Cupola di S. Pietro, dal cornicione del Palazzo Farnese alla Piazza del Campidoglio, da S. Maria degli Angeli a Porta Pia.
Il Maderno, il Bernini e particolarmente il Borromini s’ispireranno alla sua opera per legarvi il meglio del barocco. Anche nella poesia, quando l’istinto lo libera di forza dal petrarchismo, il suo verso si fa di plastico vigore, si sostanzia di sillabe che dicono oltre il cantato e il disporre metrico. Oggi si parla di Michelangelo come del maggior poeta lirico del Cinquecento. Si spense a 89 anni, all’Avemaria del 18 febbraio 1564. Un mese dopo, la salma, rapita dai concittadini, come avveniva nel Medioevo per le reliquie dei santi, entrava a Firenze e con solenni esequie la si poneva in Santa Croce.
I recenti restauri della volta della Sistina (1989-91) e del “Giudizio Universale” (1990-94), hanno fatto emergere nuovi ed inaspettati elementi che hanno posto in una luce totalmente diversa la pittura michelangiolesca. Se la plasticità dei corpi, così simili a figure scolpite più che dipinte, è stata ulteriormente evidenziata dall’opera di pulitura, la rimozione dello strato secolare che ricopriva l’affresco, (polvere, condensazione del fumo delle candele, e, soprattutto, le diverse mani di colla che sono state stese nel tempo per ravvivare i colori ma che, col cromatismo inaspettati e del tutto differenti da quelli da sempre attribuiti al maestro fiorentino.
Il tripudio di colori acidi e chiari, la drastica rimozione delle ombre, hanno infatti avvicinato la pittura di M. a quella manierista, facendo così dell’artista, a dispetto della tradizione, il primo di quei pittori -di maniera- che, negli anni immediatamente successivi, avrebbero dato vita al fenomeno del Manierismo.
Analisi di un’opera:
Analisi dello schema compositivo utilizzato da Michelangelo nella disposizione dei gruppi di figure che appaiono nell’immenso affresco del Giudizio universale (1536-1541), sito sulla parete di fondo della Cappella sistina in Vaticano.
Nella panoramica generale, i numerosi “Giudizi finali” legati alla cultura figurativa italiana tendono a collocare l’inferno a sinistra del Cristo giudice (e quindi a destra di chi guarda), a porre gli strumenti della Passione (la croce, i chiodi, la colonna, ove compaia) al di sotto del Salvatore e a posizionare gli angeli tubicini (quelli che suonano) al di sopra di Nostro Signore che occupa comunque una posizione centrale.
Naturalmente non si tratta di uno schema rigido, anche se le varianti sono di poco conto, come si vede per esempio nel Giudizio del Beato Angelico che colloca gli angeli con le trombe sotto la figura di Cristo mentre lascia invariate le altre collocazioni.
La tradizione figurativa dell’Europa settentrionale, al contrario, pone gli strumenti del martirio di Gesù nella parte alta della composizione, il Cristo al centro, gli angeli tubicini immediatamente al di sotto e l’inferno nella zona più bassa dello schema. Il Giudizio di Michelangelo riflette fedelmente questo disegno, così da essere compositivamente vicino a celebri Giudizi come quelli dipinti da altrettanto famosi artisti fiamminghi del Quattrocento, per esempio Rogier van der Weyden (la grande tavola conservata a Beaune, in Borgogna) o Hans Memling, probabilmente tedesco ma di cultura figurativa fiamminga, che dipinse la grande tavola di Danzica (Muzeum Pomorskie) per il fiorentino Angelo Tani, agente dei Medici a Bruges. Ora, Michelangelo opera delle importanti forzature rispetto al tipo di composizione accreditata dalla cultura figurativa nordica.
Struttura Antropomorfa
Osservando l’intera superficie dell’affresco, infatti, non sarà difficile notare che gli angeli con gli strumenti del martirio costituiscono due epicentri compositivi distinti posti simmetricamente ai lati dell’asse centrale occupato dalla presenza del Cristo giudice e della Vergine. Più in basso troviamo poi la grossa nuvola con gli angeli tubicini e al di sotto la lunga linea orizzontale del paesaggio infernale. Uno schema così concepito, ovverosia basato sulla presenza di due elementi distanti e simmetrici collocati al di sopra e ai lati di un asse verticale, al di sotto del quale troviamo un elemento orizzontale, non può non ricordare quello di un volto umano. L’impressione antropomorfica si rafforza se riduciamo l’intera composizione a due soli elementi di contrasto: il cielo e le masse umane con le nuvole da considerare come un tutto unico. In questo modo si disegneranno subito le regioni oculari, palpebrali in particolare, definite nella parte inferiore dall’andamento sinuoso della striscia di cielo che ripete quasi specularmente il profilo curvilineo delle lunette; nonché i solchi lacrimali che scendono dall’angolo mediale degli occhi. Al centro di questo spazio, poi, l’alone di cielo che circonda le figure della Vergine e di Cristo giudice, con l’ampio triangolo azzurro in basso a sinistra, designa il naso. Sotto si apre l’ampio spacco della cavità orale segnato decisamente da un’altra fetta di cielo azzurro. In basso al centro, il gruppo degli angeli tubicini segna il mento, mentre l’altra area celeste segna il margine inferiore della mandibola, corrispondente all’inferno. Naturalmente il volto composto da tutte le figure che compaiono nell’affresco, altro non sarebbe che quello di Dio.
Il problema, però, è quello di riuscire a capire se l’impressione che suscita l’insieme debba considerarsi casuale, oppure se Michelangelo volle realmente forzare lo schema che gli derivava dalla conoscenza della cultura figurativa nordeuropea per raffigurare il volto di Dio. La prima obiezione, infatti, potrebbe derivare dall’osservazione che un simile effetto debba imputarsi al profilo arcuato delle lunette che definiscono il margine superiore della parete. In realtà, è noto che Michelangelo abbia cercato questa forma estendendo la superficie pittorica fino al limite dei pennacchi, chiudendo addirittura le due bifore e distruggendo le figure di Fares, Essren, Aram, Abramo, Isacco, Giacobbe e Giuda che lui stesso aveva dipinto quando aveva realizzato il ciclo pittorico della volta. Dunque, Michelangelo aveva necessità di occupare con il nuovo affresco l’intera parete e, a questo punto, risulta più difficile considerare casuale l’andamento di quella striscia di cielo che riproduce quasi specularmente il motivo delle lunette trasformandole in due elementi “a forma di occhi”. Inutile dire che infinite sarebbero potute essere le soluzioni alternative. Allo stesso modo, sembra difficile considerare casuale il triangolo di cielo dipinto al di sotto della nuvola su cui si erge il Cristo giudice (che costituirebbe l’ombra del naso) e l’ampia fetta di cielo orizzontale immediatamente sottostante (che rappresenterebbe la bocca).
Ed è proprio tutta l’esperienza del cosiddetto “non-finito” che testimonia della capacità di Michelangelo di sintetizzare in forma compendiaria, basandosi proprio sui contrasti ombra-luce, la plastica del volto umano. Basta ricordare il volto del piccolo cherubino che corona la Madonna Pitti, oppure il viso del San Matteo, o ancora lo Schiavo Atlante per rendersi agevolmente conto del fatto che un sistema consimile è stato utilizzato dall’artista per organizzare le figure che compaiono nel grande affresco sistino dove il cielo ha la funzione di “segnare” le ombre o i vuoti del macroscopico volto; mentre nubi e masse umane hanno il ruolo di luci e volumi.
Per quel che riguarda la conoscenza da parte di Michelangelo degli accorgimenti anamorfici, essi sono facilmente riscontrabili nell’assetto urbanistico di piazza del Campidoglio (dove i due edifici sono orientati in modo da rendere più regolare il profilo della piazza) e nello stesso Giudizio, dove le figure sono diversamente dimensionate secondo la maggiore o minore distanza dall’osservatore.
Nel caso specifico, però, è chiaro che la problematica è diversa perché implica il rapporto con l’immagine del volto umano che, peraltro, è un classico degli effetti anamorfici. Michelangelo doveva saperlo perché in uno dei disegni di Casa Buonarroti a Firenze, quello relativo alle modanature delle basi per i pilastri della Sagrestia nuova, forza gli elementi che le compongono, ovverosia il toro, la scozia e il plinto, fino a ricavarne un profilo umano che l’artista di Caprese rende ancora più esplicito segnandolo con un occhio.
D’altra parte, anche i mascheroni che compaiono nel fregio che corre lungo le strutture architettoniche che ospitano le tombe dei Medici, dal momento che sostituiscono i classici ovuli della decorazione a ovuli e lancette, possono considerarsi uno scherzo anamorfico. Così come appare anamorfico il profilo dell’albero che Michelangelo ha disegnato sullo sfondo del carboncino che rappresenta il gigante Tizio incatenato. Non è infatti difficile constatare che il tronco ha un’anomala sporgenza che altro non è se non la testa di un grifone.
Del resto, l’idea che una forma finisca in un’altra è ben presente nella mente di Michelangelo quando in un disegno conservato a Londra (British Museum), seguendo da vicino il testo delle Metamofosi di Ovidio, disegna sotto Fetonte che cade, le sorelle che stanno trasformandosi in alberi. Un tema familiare a Michelangelo, non fosse altro che per il corrispettivo dantesco della selva infernale dei suicidi trasformati in alberi come Pier delle Vigne.
L’influenza Dantesca
E’ noto quanto fosse approfondita la conoscenza della Divina commedia da parte di Michelangelo. Ne è testimonianza, oltretutto, lo stesso Giudizio che rispecchia, soprattutto nella zona inferiore dedicata all’inferno, personaggi e concezioni presenti nel poema dell’Alighieri. Non solo, ma è ben noto un sonetto, scritto fra il 1545 e il 1546, in cui l’artista dichiara tutta la sua sviscerata ammirazione per il poeta fiorentino (14). Per questo, non è improbabile che l’idea di combinare insieme delle figure per dare origine a un’immagine più grande, come quella del macroscopico volto che campeggia sulla parete di fondo della Sistina, sia venuta in mente a Michelangelo proprio pensando ai versi di Dante che descrivono la paradisiaca aquila imperiale formata da innumerevoli anime scintillanti (le “innumerabili faville”). D’altra parte, lo stesso Michelangelo, nei sonetti, più volte pone in versi il concetto che l’immagine di Dio si specchia nella bellezza degli uomini. Riflettendo sul fatto che gli angeli con gli strumenti del martirio di Cristo occupano la zona degli occhi e perciò costituiscono l’evidenza di verità del credo cristiano, se pensiamo che il Cristo giudice occupa l’area del naso, a distinguere la grazia dal peccato, e se infine consideriamo che gli angeli tubicini sono stati sistemati in corrispondenza della bocca che annuncia il trionfo della Giustizia (cibo spirituale), non sarà difficile constatare singolari corrispondenze con il testo pseudo-dionisiano. Del resto, per Michelangelo non doveva essere così difficile accedere al pensiero dello Pseudo-Dionigi, non soltanto perché doveva essergli noto attraverso Dante e perché si trattava di un testo ormai ampiamente tradotto, ma perché l’artista, attraverso Vittoria Colonna e Antonio Lo Duca, era in contatto con la confraternita dei Sette angeli, voluta dallo stesso Lo Duca.
Di questo sacerdote palermitano, promotore del restauro della chiesa di Santa Maria degli Angeli realizzato poi da Michelangelo, l’artista toscano dovette essere amico fin dal 1535, anche perché i due abitavano a pochi metri di distanza, nei pressi di Santa Maria di Loreto. La confraternita e lo stesso Lo Duca intendevano promuovere il culto dei Sette arcangeli, che sfociò addirittura nella redazione di un apposito ufficio per celebrare le sette potenze celesti paragonate alle sette luci del candelabro ebraico. Va da sé che qualsiasi angelologo, quale era Lo Duca, non avrebbe potuto prescindere dagli scritti pseudo-dionisiani.
Ma la scelta di prendere in considerazione il volto umano come schema di riferimento per organizzare l’intera scena doveva esser stata dettata a Michelangelo da un avvenimento che, a suo tempo, aveva fatto notevole scalpore. Durante i giorni del sacco di Roma del 1527, infatti, i romani temettero per la soprawivenza delle reliquie che non era stato possibile porre al riparo dalla furia dei lanzichenecchi. Fra queste si temette soprattutto per il santo velo della Veronica che riproduceva i tratti del volto di Cristo (conservata già allora in San Pietro) e per il ritratto di Cristo che si credeva eseguito per intercessione di san Luca e che era conservato nel Sancta sanctorum di San Giovanni in Laterano.
A quest’ultimo Michelangelo si riferisce con religiosa devozione, ma anche perché lo considerava come adeguato riferimento iconografico per realizzare correttamente il volto di Cristo. Ora, se è vero che del Santo Volto (o Veronica) conservato nel pilastro della Veronica di San Pietro non rimane pressoché nulla, se non una copia secentesca conservata nella chiesa del Gesù, e che la cosiddetta “acheropita” (il Volto di Cristo e seguito per intercessione di san Luca) è in realtà un dipinto medievale, è altrettanto vero che l’artista toscano potrebbe essersi ispirato a entrambi, ben sapendo che le due reliquie venivano considerate «il vero “palladium” della Città santa». Oltretutto, va notato che caratteristica dell’acheropita (letteralmente, “non dipinta da mano umana”) sono gli enormi occhi e che la copia del Santo Volto nella chiesa romana del Gesù (come ho potuto riscontrare) mostra, in corrispondenza dei solchi lacrimali, tracce di liquido che potrebbero aver suggerito a Michelangelo quelle “scolature” di cielo che compaiono anche nell’affresco.