L’ANTICA ROMA
L’ANTICA ROMA
L’ANTICA ROMA
Nella mitologia romana, fondatore e primo re di Roma. Con il fratello gemello, Remo, era figlio di Marte, dio della guerra, e di Rea Silvia, detta anche Ilia, una delle vestali. Rea Silvia, figlia del deposto re di Alba Longa Numitore, era stata ordinata sacerdotessa per volere dell’usurpatore Amulio, affinché non avesse figli che potessero ambire al trono; Amulio, alla nascita dei due gemelli, li chiuse in una cesta che affidò al Tevere, ma essi vennero tratti in salvo e allevati da una lupa sulle pendici del colle Palatino; in seguito furono trovati dal pastore Faustolo e cresciuti da sua moglie, Acca Larenzia. Divenuti adulti, i fratelli detronizzarono Amulio e restituirono il trono al nonno Numitore. I due gemelli decisero allora di costruire una città. Dopo una lunga discussione sulla scelta del sito, Romolo optò per il Palatino: quando scavò il solco sul quale sarebbe stato eretto il recinto delle mura della città, Remo, che aveva invece scelto l’Aventino, si ribellò e Romolo lo uccise. Divenuto re della nuova città, che fu chiamata Roma, Romolo decise di popolarla costruendo un rifugio sul Campidoglio dove potessero trovare alloggio i banditi, gli schiavi fuggitivi e gli assassini; in seguito, affinché essi avessero mogli, rapì le donne dei suoi vicini, i sabini. Ciò provocò una serie di guerre, al termine delle quali i romani giunsero a una riconciliazione con i sabini e Romolo fu riconosciuto re di entrambe le popolazioni. Secondo un’altra leggenda, Romolo fu condotto nei cieli dal padre, e poi venerato come il dio Quirino.
Roma antica (età monarchica) Periodo della storia di Roma antica compreso fra il 753 e il 510 a.C., in cui si sarebbero avvicendati al trono sette sovrani, probabilmente protagonisti eponimi di varie fasi dello sviluppo della città e dello stato romano.
La fondazione di Roma
Secondo la tradizione, Roma venne fondata il 21 aprile del 753 a.C. da Romolo e Remo, figli gemelli della vergine vestale Rea Silvia e del dio Marte, e nipoti di Numitore, re di Alba Longa, una città dell’antico Lazio; la tradizione ricorda anche il fratricidio compiuto da Romolo nei confronti del fratello, indocile alla sua autorità: delitto che peserà, secondo molti autori latini, come una sorta di “peccato originale” del popolo romano, e che sarà creduto fonte delle ricorrenti guerre civili. Le altre storie mitiche sul regno di Romolo, e in particolare quelle relative al ratto delle sabine e alla guerra contro i sabini guidati da Tito Tazio, indicano una precoce fusione tra i latini e le altre popolazioni laziali. Nella tradizione vulgata, la menzione delle tre tribù gentilizie (Ramnenses, Titienses e Luceres) come parti di una nuova comunità, suggerisce l’ipotesi che Roma sia sorta dall’integrazione di tre popoli: i latini, i sabini e gli etruschi.
I sette re di Roma tra storia e leggenda
Secondo la tradizione, i sovrani di Roma furono i seguenti:
Romolo (753-715 a.C.), la cui storicità è forse da rifiutare poiché sarebbe, secondo alcuni, solo il fittizio eroe eponimo della città di Roma; non manca però chi, anche recentemente, sulla scorta degli scavi archeologici sul colle Palatino – ove la città romulea sarebbe sorta – ne ripropone una possibile dimensione storica. Numa Pompilio (715-676/672 a.C.), al quale è attribuita l’istituzione di numerosi sacerdozi e pratiche religiose, che gli sarebbero state ispirate dalla ninfa Egeria; anche per lui, come per il suo predecessore, la sovrapposizione storia-mito appare evidente: dopo Romolo, re latino, feroce difensore della città da lui fondata, la tradizione ha voluto porre un re sabino, pio, che avrebbe incivilito la tempra guerriera del popolo romano. Tullo Ostilio (673-641 a.C.), re bellicoso, che distrusse Alba Longa e combatté contro i sabini.
Anco Marzio (641-616 ca. a.C.), noto per aver fatto costruire il porto di Ostia (che però l’archeologia sembrerebbe datare in epoca successiva) e aver conquistato numerose città latine, i cui abitanti vennero trasferiti a Roma. Lucio Tarquinio Prisco (616-578 a.C.), di origini etrusche (fu forse un lucumone originario di Tarquinia), famoso per i suoi successi militari contro le popolazioni confinanti, e per aver fatto costruire numerosi edifici pubblici; con lui ebbe inizio la dominazione etrusca di Roma. Servio Tullio (578-534 a.C.), che eresse e poi ampliò le mura della città e introdusse, secondo la tradizione, una riforma militare; rappresenta, forse, una temporanea interruzione della dominazione etrusca, anche se c’è chi ha visto in lui la figura del condottiero Mastarna (corrispondente al latino magister, cioè “capo”) propria della tradizione etrusca. Tarquinio il Superbo (534-510 a.C.), che la tradizione dipinge come un tiranno; la sua cacciata coincise con la fine della dominazione etrusca e con l’inizio dell’età repubblicana. Sebbene i nomi, le date e gli eventi del periodo monarchico appartengano in larga parte alla sfera del mito, esistono precise testimonianze del fatto che la prima forma di governo a Roma fu di tipo monarchico: lo provano le fonti antiche (celebre la narrazione dell’età arcaica fatta dallo storico Tito Livio), ma lo ribadiscono anche alcuni aspetti della religiosità romana d’epoca successiva. Ad esempio, la figura del rex sacrorum, officiante dei sacrifici in epoca repubblicana, attesta la presenza nella tradizione latina della parola rex, cioè “re”; inoltre, tutti gli anni i romani festeggiavano proprio la festività del regifugium, ovvero della “fuga del re”, che ricorda la cacciata di Tarquinio il Superbo da Roma e la fine dell’età regia. E anche nel rigoroso rispetto della collegialità nelle magistrature d’epoca repubblicana si è voluta vedere una sorta di reazione alla natura autocratica del potere monarchico, considerato un “capitolo chiuso” nella storia del popolo romano. Esistono pure testimonianze del fatto che la fondazione originaria abbia acquisito sempre maggior potere, inglobando in sé i villaggi limitrofi. Da un lato, infatti, è di supporto a questo riguardo la documentazione archeologica; dall’altro la persistenza della festività annuale del septimontium, che ricordava ai romani delle età successive la federazione di sette villaggi primitivi conseguita alla fondazione romulea sul Palatino. La tradizione, in realtà, ne menziona addirittura otto (Palatino, Velia, Fagutale, Subura, Germalo, Oppio, Celio, Cispio): che la loro unione sia stata una lenta e progressiva aggregazione al nucleo originario o una forma di sinecismo imposta da un’autorità politica (gli etruschi?) è difficile dire. È inoltre provata la conquista di Roma da parte degli etruschi, con la conseguente affermazione di una dinastia di origine etrusca, i Tarquini, la cui cacciata, come già si è detto, corrispose alla fine della monarchia. Le tracce della dominazione etrusca sono molteplici, a cominciare dagli attributi esteriori del potere politico (toghe, fasci, anelli, seggi), che – di sicura origine etrusca – accompagnarono tutta la storia romana; notevoli anche gli influssi etruschi sulla religione di Roma (si pensi soprattutto alle pratiche divinatorie), che si fusero e integrarono con la religiosità delle popolazioni indoeuropee che concorsero a formare la civiltà romana. E anche sull’architettura sacra non mancarono influenze etrusche, se è vero che sotto il regno di Servio Tullio sarebbe sorto sul colle capitolino un tempio di tipo etrusco, in mattoni, dedicato a Giove, Giunone e Minerva: la prima fondazione, cioè, del tempio della cosiddetta “triade capitolina”, la cui esistenza si identificherà poi con l’esistenza stessa della città di Roma.
Le istituzioni politiche e sociali dell’età regia
Lo studio delle condizioni sociali e politiche di Roma in età monarchica ha messo in luce la suddivisione in due classi della popolazione urbana: da un lato vi erano i patrizi, che godevano di diritti politici e costituivano il populus, dotato di diritti civili; dall’altro c’era la plebe, la quale non godeva di alcun diritto politico. Non è facile cogliere la vera origine di queste distinzioni, anche perché le risposte date finora dagli studiosi sono state estremamente diverse; certo è che patrizi e plebei, se ebbero senz’altro profonde differenze di carattere economico, sociale e religioso (professavano infatti culti diversi) dovettero inizialmente distinguersi soprattutto per motivi etnici. C’è chi ha voluto vedere, ad esempio, nei patrizi i latini che si imposero sull’etnia sabina, cioè i plebei; oppure individuare nei patrizi gli etruschi conquistatori che sottomisero la componente etnica latino-sabina, riducendola a plebe; e non mancano teorie innovative, che tendono a ridimensionare di molto il ruolo del patriziato in epoca arcaica. Venendo più specificamente alla figura del re (rex), egli veniva scelto tra i patrizi dal senato (senatus), il concilio degli anziani (patres), e rimaneva in carica per tutta la vita. A lui spettava la chiamata del popolo alla guerra, così come il comando in battaglia; era cioè depositario dell’imperium, la forza congiunta degli dei e del popolo romano, che per tutta la storia romana si identificherà con il potere militare. Nelle processioni, al sovrano veniva aperta la strada dai dignitari (denominati littori), che portavano i fasci, simboli del potere e della legge. Il re era anche il giudice supremo in tutte le cause, sia civili sia penali. Il senato poteva dare consigli solo se consultato dal sovrano, sebbene i suoi membri possedessero grande autorità morale. Inizialmente, solo i patrizi potevano imbracciare le armi in difesa dello stato, reclutati dalle trenta curiae in cui erano divise le tribù dei Ramnes, dei Tities e dei Luceres (cento uomini per curia, più cento cavalieri per tribù, per un totale di 3300 soldati, numero che sarà alla base della legione d’età repubblicana); la situazione poi si modificò, in seguito all’introduzione di un’importante riforma militare, nota come “riforma serviana”, in quanto si ritiene che sia stata elaborata da Servio Tullio nel VI secolo a.C. Da allora anche i plebei poterono acquisire proprietà e, secondo la riforma, tutti coloro che avevano possedimenti erano obbligati a prestare servizio nell’esercito, con un rango corrispondente alla loro ricchezza. Si trattava della cosiddetta “riforma centuriata”, che distingueva il popolo romano in cinque fasce censitarie, a loro volta globalmente suddivise in 193 centuriae, costituite da cento uomini ciascuna; esse erano dunque la base della nuova leva militare, ma l’ordinamento centuriato funse anche da struttura portante della nuova assemblea popolare – i comitia centuriata –, che si identificava quindi con il popolo in armi: popolo che combatte e popolo che vota e decide non avrebbero dovuto avere dunque alcuna differenza strutturale. La nuova organizzazione, privilegiando il censo sull’elemento strettamente nobiliare, preparò il terreno al conflitto tra patrizi e plebei, che si sarebbe aperto nei primi secoli dell’età repubblicana. Non è forse errato pensare che sia la riforma stessa da far slittare in epoca repubblicana, poiché essa sembrerebbe presupporre una leva militare numericamente assai più numerosa di quanto non potesse essere quella d’epoca serviana; inoltre, tale complessità nel computo del censo, per l’esatta ripartizione nelle classi sociali, parrebbe anacronistica in un periodo tanto arcaico.
Roma antica (età repubblicana) Periodo della storia di Roma antica compreso fra il 510 e il 27 a.C., che seguì la caduta della monarchia.
Le magistrature repubblicane e la conquista dell’Italia (510-264 a.C.)
Mentre nell’età monarchica il potere era attribuito unicamente al re, in età repubblicana venne affidato a due magistrati eletti annualmente dall’intera cittadinanza, riunita nei comizi centuriati, dapprima chiamati pretori e in seguito consoli. Il popolo romano, infatti, trasferiva loro l’imperium (la forza congiunta di dei e popolo di Roma), attributo necessario per comandare l’esercito. La collegialità e l’annualità di queste magistrature debbono intendersi in aperto contrasto con la natura monarchica del potere, che il popolo romano non voleva che fosse ripristinata; dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo per opera dei nobili Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino – considerati i primi magistrati della Roma repubblicana – il nome di re divenne infatti sinonimo di sopruso, e accuratamente evitato: l’unico suo relitto linguistico fu nella funzione sacerdotale di rex sacrorum, officiante dei pubblici sacrifici. La composizione del senato, la più autorevole assemblea decisionale dello stato romano, venne progressivamente trasformata grazie all’inserimento di membri di estrazione plebea, chiamati conscripti (da cui la successiva denominazione dei senatori come patres conscripti): ciò venne decretato in seguito a un aspro conflitto tra patrizi e plebei. Non è facile cogliere la vera origine di questi distinti ordines, anche perché le risposte date finora dagli studiosi sono state estremamente diverse; patrizi e plebei, se ebbero tra loro profonde differenze di carattere economico, sociale e religioso (professavano infatti culti diversi) dovettero inizialmente (nel periodo monarchico) distinguersi soprattutto per motivi etnici. C’è chi ha voluto vedere, ad esempio, nei patrizi i latini che si imposero sull’etnia sabina, cioè i plebei; oppure individuare nei patrizi gli etruschi conquistatori (etruschi erano i re Tarquinio Prisco e Tarquinio il Superbo) che sottomisero la componente etnica latino-sabina, riducendola a plebe; e non mancano teorie innovative, che tendono a ridimensionare di molto il ruolo del patriziato in epoca arcaica. Certo è che la lotta che si sviluppò tra patrizi e plebei nelle prime fasi dell’età repubblicana, portò alla progressiva abolizione di numerosi privilegi politico-sociali del patriziato. Nel 494 a.C. la secessione della plebe guidata da Menenio Agrippa diede luogo all’elezione dei tribuni della plebe (tribuni plebis). Eletti annualmente, godevano dell’inviolabilità personale (sacrosanctitas) e del diritto di veto sulle deliberazioni dei magistrati patrizi (intercessio) e rappresentavano per i plebei il punto di riferimento politico nei conflitti con il patriziato: avevano cioè ufficialmente il diritto di soccorrere la plebe (ius auxilii ferendi plebi). Oltre ai tribuni, vennero concessi l’istituzione di edili plebei addetti ai loro templi, nonché il diritto di riunirsi in assemblea nel concilium plebis. Nel 451 a.C. fu nominata una commissione composta da dieci uomini (decemviri legibus scribundis), prima tutti patrizi e poi metà patrizi e metà plebei, allo scopo di fissare il primo codice di leggi della storia romana (legge delle Dodici Tavole), ove furono raccolti i principi del diritto romano arcaico. Con la legge Canuleia, del 445 a.C., fu legalizzato il matrimonio fra patrizi e plebei, mentre le leggi Liciniae-Sextiae, del 367 a.C., stabilirono che uno dei due consoli eletti doveva essere plebeo. Queste ultime leggi sancirono la legalizzazione di una diffusa prassi, che aveva visto già dal 444 a.C. la frequente sostituzione del consolato con un tribunato militare “dalla potestà consolare”, carica cui era consentito l’accesso ai plebei. Progressivamente, anche l’accesso alle altre magistrature fu aperto ai plebei: la dittatura, nominata nei momenti di grave pericolo esterno per lo stato romano (356 a.C.); la censura (350 a.C.); la pretura (337 a.C.); le magistrature connesse ai collegi pontificali e augurali (300 a.C.). Questi cambiamenti politici segnarono la nascita di una nuova aristocrazia. Il senato, che originariamente possedeva solo una serie di limitate prerogative amministrative, divenne il fulcro del governo della repubblica, poiché a esso spettava ogni decisione in materia di pace e di guerra, nella scelta delle alleanze e delle colonie da fondare, nel controllo delle finanze statali. Sebbene l’emergere di questa nuova nobilitas patrizio-plebea avesse posto fine alle lotte fra i due ordini, la situazione delle famiglie plebee più povere non subì alcun miglioramento. La politica estera di Roma, in questa fase della sua storia, fu caratterizzata da una serie di guerre di conquista che diedero luogo a una notevole espansione territoriale. Con la grande vittoria ottenuta presso il lago Regillo nel 497 o 496 a.C. contro latini e volsci alleati, Roma divenne la città egemone della Lega latina (l’antica confederazione che univa tra loro le città del Lazio), imponendo nel 493 a.C. il celebre trattato detto foedus Cassianum; condusse poi una serie di altre guerre contro etruschi, volsci ed equi: guerre nelle quali si affermò, tra gli altri, Lucio Quinzio Cincinnato, dittatore nel 458 a.C. Tra il 449 e il 390 a.C. la politica espansionistica di Roma divenne particolarmente aggressiva: con la presa di Veio (396 a.C.) da parte di Marco Furio Camillo, l’Etruria iniziò a perdere la propria indipendenza. Intorno alla metà del IV secolo a.C., nell’Etruria meridionale vennero stanziate alcune guarnigioni romane. Le vittorie su volsci, latini ed ernici assegnarono a Roma il controllo dell’Italia centrale, facendola nel contempo entrare in contatto con i sanniti, stanziati più a sud, che vennero affrontati e vinti nel corso di tre durissime guerre (guerre sannitiche), tra il 343 e il 290 a.C. Stroncata una rivolta di latini e volsci, nel 338 a.C., la Lega latina fu sciolta; due potenti coalizioni si formarono allora per cercare di contrastare l’ascesa di Roma: etruschi, umbri e galli (che già avevano attaccato i romani saccheggiando l’Urbe nel 390 a.C.) a nord; lucani, bruzi e sanniti nel sud, che riuscirono a contrastare l’espansionismo romano fino al 283 a.C. Nel 281 a.C. la colonia greca di Tarentum (l’odierna Taranto) chiese aiuto contro la minaccia costituita da Roma, della quale si temevano le mire espansionistiche in Magna Grecia, a Pirro, re dell’Epiro; dal 280 al 276 a.C. egli condusse la guerra in Italia meridionale e in Sicilia infruttuosamente – nonostante potesse contare sull’utilizzo bellico degli elefanti, sconosciuti ai romani – e dovette fare ritorno in Grecia. Durante i dieci anni successivi i romani completarono la sottomissione dell’Italia meridionale, riuscendo dunque a controllare l’intera penisola, dallo “stivale” fino ai fiumi Arno e Rubicone.
Le guerre puniche e macedoniche (264-133 a.C.)
Nel 264 a.C. Roma entrò in guerra con Cartagine per il controllo del Mediterraneo: la città punica rappresentava in quel momento la più forte potenza marittima dell’Occidente, capace di controllare pressoché totalmente il settore centrale e occidentale del bacino del Mediterraneo, mentre Roma rimaneva ancora padrona del solo territorio italiano. La prima delle tre guerre puniche scoppiò per la crescente rivalità politica ed economica tra Roma e Cartagine. Dopo le guerre tarantine, infatti, Roma aveva posto sotto la propria diretta influenza le città della Magna Grecia, minacciando in questo modo la supremazia cartaginese nel Mediterraneo meridionale, che poteva contare sui vasti possedimenti punici in Sicilia. L’occasione fu data dai mercenari campani mamertini, assediati a Messana (Messina), che chiesero aiuto a entrambe le città contro Gerone II di Siracusa. Cartagine, come si è detto, controllava già parte della Sicilia e i romani accolsero la richiesta con l’intenzione di cacciare i cartaginesi dall’isola. Approntata la loro prima grande flotta, i romani dichiararono guerra e sconfissero i cartaginesi nella battaglia di Milazzo (260 a.C.), sotto la guida del console Caio Duilio. Nonostante altre vittorie, nelle acque di Tindari e al largo del promontorio Ecnomo (presso Licata), essi non riuscirono però a impadronirsi della Sicilia. Nel 256 a.C. un’armata romana guidata dal console Marco Attilio Regolo stabilì una base in Nord Africa, ma l’anno seguente i cartaginesi la costrinsero a ritirarsi, dopo averla duramente sconfitta presso Tunisi: Regolo stesso fu fatto prigioniero e molti dei soldati romani superstiti morirono travolti da una tempesta l’anno successivo. La guerra continuò a lungo, combattuta in gran parte attorno alla Sicilia, e si concluse dopo alterne vicende solo nel 241 a.C. con una battaglia navale presso le isole Egadi, vinta dai romani guidati dal console Caio Lutazio Catulo; essa fruttò a Roma il controllo della Sicilia (prima regione a essere organizzata in provincia romana) e nel 237 a.C. la conquista della Sardegna e della Corsica, a loro volta costituite in provincia. Le condizioni di pace imposte ai cartaginesi dai vincitori furono durissime: oltre alle perdite territoriali e all’impegno di non belligeranza, essi dovevano restituire senza riscatto i prigionieri romani e impegnarsi a pagare una forte indennità di guerra. Ora che Roma era in grado di competere sui mari, Cartagine cominciò a organizzarsi per una ripresa delle ostilità, attraverso l’acquisizione di una serie di punti d’appoggio in Spagna, dove volutamente i cartaginesi provocarono i romani attaccando la città di Sagunto, loro alleata. La seconda guerra punica prese avvio nel 218 a.C. con la spedizione di Annibale in Italia, dalle basi spagnole attraverso le Alpi. Dopo aver vinto i romani presso i fiumi Ticino e Trebbia, egli si spinse verso sud ottenendo successivamente due importanti vittorie, al lago Trasimeno (217 a.C.) e a Canne (216 a.C.). I condottieri romani di maggior spicco in questa prima parte della guerra furono il dittatore Quinto Fabio Massimo, detto “il Temporeggiatore” poiché dopo la sconfitta romana del Trasimeno cercò di tenere a distanza il nemico e di logorarlo con una tattica attendista, e il console Caio Terenzio Varrone, sfortunato comandante dell’esercito romano a Canne. La guerra proseguì ancora a lungo, e vide da un lato una progressiva riconquista da parte dei romani del terreno perduto in Italia meridionale (presa di Siracusa, 212 a.C. e di Capua, 211 a.C.), dall’altro frequenti saccheggi e devastazioni da parte di Annibale, che depauperarono severamente l’agricoltura italica. Dopo circa quindici anni il conflitto si spostò in Africa, dove Annibale fu chiamato per affrontare nel 202 il giovane generale romano Scipione Africano, che puntava su Cartagine. Annibale venne sconfitto in maniera definitiva nella battaglia di Zama (202 a.C.), in conseguenza della quale Cartagine fu costretta a consegnare la sua flotta, a cedere la Spagna e i suoi possedimenti insulari nel Mediterraneo, oltre a pagare una nuova indennità di guerra. Roma rimase così la sola dominatrice del Mediterraneo occidentale e ampliò il suo dominio verso nord. Fra il 201 e il 196 a.C. le popolazioni galliche della Pianura Padana furono soggiogate e il loro territorio venne progressivamente romanizzato. La Spagna fu mantenuta in regime di occupazione militare, e successivamente costituita in provincia. La terza guerra punica, originata dal timore che la potenza cartaginese potesse tornare a prosperare, in virtù di una fiorente economia, fu condotta rapidamente a termine fra il 149 e il 146 a.C. da Scipione Emiliano, che conquistò e distrusse Cartagine dopo tre anni di assedio, trasformandone il territorio circostante nella provincia d’Africa.
Nel corso del III e del II secolo a.C. Roma fu anche impegnata in un lungo conflitto con la Macedonia per il dominio del settore orientale del Mediterraneo, che si svolse nel corso di tre guerre; nelle prime due le forze macedoni combatterono sotto il comando di Filippo V, sconfitto nel 197 a.C. a Cinoscefale. Nel frattempo, con l’aiuto degli stati della Grecia meridionale, suoi alleati, Roma combatté contro Antioco III di Siria, che fu vinto nella battaglia di Magnesia (189 a.C.) e obbligato a cedere i suoi possedimenti in Europa e in Asia. Il figlio di Filippo V, Perseo, continuò la resistenza contro Roma, provocando lo scoppio della terza guerra macedonica; nel 168 a.C. il suo esercito fu sgominato a Pidna dal generale Lucio Emilio Paolo: la Macedonia divenne provincia romana nel 146 a.C. In quello stesso anno l’ultima rivolta della Lega achea contro Roma si concluse con la presa e la distruzione della città di Corinto: da quel momento la libertà della Grecia ebbe fine. In poco più di un secolo, Roma divenne un impero che dominava il bacino del Mediterraneo dalla Siria alla Spagna. Conseguenza di tali imprese furono i contatti con la cultura greca, di cui Roma poté apprezzare le arti e le lettere, la filosofia e i culti religiosi. Non a caso la letteratura latina ebbe un grande impulso a partire dalla seconda metà del III secolo a.C., con la traduzione di opere dell’epica greca e lo sviluppo di un teatro che su quello greco era modellato; nel secolo successivo queste tendenze si enfatizzarono, e si diffusero a Roma le prime scuole filosofiche greche. Se è vero che questa ellenizzazione della cultura romana dispiacque ai più conservatori, come al vecchio Catone il Censore, il filoellenismo divenne invece uno dei tratti distintivi dell’autorevole famiglia degli Scipioni.
La lotta politica a Roma dal 133 al 27 a.C.
Dai Gracchi a Silla
Nello stesso periodo in cui Roma stava creando un impero di vasta portata, si accrebbe il livello dello scontro politico al suo interno. L’accordo tra le più ricche famiglie plebee e le antiche gentes patrizie diede luogo alla conquista delle più alte magistrature e al controllo totale dell’accesso al senato; inoltre, la graduale estinzione dei piccoli proprietari terrieri, dovuta a uno sviluppo – ancorché parziale – del latifondo e alle devastazioni delle guerre (soprattutto di quella annibalica), provocò la formazione di un proletariato, in larga parte inurbato, il cui malcontento era incapace di tradursi in organizzazione politica. Divenne così inevitabile lo scoppio di un duro conflitto tra l’aristocrazia più conservatrice, organizzata nella fazione degli optimates, e uomini politici con maggiore attenzione verso le fasce più basse della società, organizzati nella fazione dei populares: tra questi ultimi, i fratelli Tiberio Sempronio Gracco e Caio Sempronio Gracco, tribuni della plebe rispettivamente nel 133 e 123 a.C., che promossero riforme agrarie che non sopravvissero però alla morte violenta dei loro fautori. Si stava inoltre sviluppando, all’interno della società romana, un nuovo soggetto sociale: l’ordine equestre. I cavalieri, infatti, avevano approfittato delle nuove conquiste in Oriente – che avevano ampliato l’orizzonte mercantile di Roma – per imporsi come ceto imprenditoriale e commerciale; inoltre, in molte nelle nuove province, l’esazione degli appalti fu appannaggio di società di cavalieri, detti pubblicani, che con questa attività si arricchirono moltissimo. Nonostante un’evidente promozione dal punto di vista economico, gli esponenti dell’ordine equestre restarono però esclusi dalle funzioni di governo dello stato, eccezion fatta per qualche isolato cavaliere che accedeva all’ordine senatorio, detto in tal caso homo novus. La lotta più dura che combatterono i cavalieri fu quella – iniziata nella seconda metà del II secolo d.C., e caratterizzata da fasi alterne – per accedere alla quaestio de pecuniis repetundis, commissione di controllo sull’operato dei governatori e amministratori delle province; se non potevano essere ceto di governo gli equites pretendevano almeno una funzione di controllo su chi governava, a tutela dei propri crescenti interessi economici. Le comunità italiche alleate di Roma, che stavano perdendo progressivamente peso politico e privilegi, chiedevano il riconoscimento del loro decisivo contributo alle guerre di conquista. In questa situazione, il tribuno Marco Livio Druso propose leggi agrarie e distribuzioni di grano per le classi meno agiate, e promise la cittadinanza romana agli italici. Ma, quando anche Druso venne ucciso (nel 91 a.C.), gli italici insorsero, creando un proprio esercito e un proprio stato, che ebbe la sua capitale provvisoria nella città di Corfinium, nel territorio dei marsi. Il conflitto che ne seguì (90-88 a.C.) fu detto guerra sociale, cioè “guerra degli alleati” (in latino socii), e si concluse con la sconfitta degli italici, ai quali venne però concessa la cittadinanza romana. Nell’89 a.C., inoltre, il console Pompeo Strabone concesse la cittadinanza agli abitanti della Pianura Padana, regione da tempo in bilico tra la condizione di provincia e quella di appendice dell’Italia. Nel frattempo, gravi problemi continuavano a caratterizzare la politica interna di Roma. Durante la prima guerra combattuta contro Mitridate VI, re del Ponto, scoppiò un violento conflitto tra Caio Mario, rappresentante della fazione dei populares, e Lucio Cornelio Silla, il capo della fazione aristocratica degli optimates, per il comando delle forze di spedizione; entrambi valenti militari, avevano già dato prova delle loro capacità belliche. Mario aveva infatti già ricoperto per cinque volte il consolato, e si era distinto per le vittorie contro i teutoni nel 102 a.C. (ad Aquae Sextiae) e i cimbri nel 101 a.C. (ai Campi Raudii); aveva inoltre promosso una riforma che, favorendo gli arruolamenti volontari – anche tra i proletari – trasformava l’esercito in un corpo professionale, fedele più al generale che l’aveva reclutato che alla causa dello stato romano. Silla, console nell’88 a.C., aveva avuto un ruolo fondamentale nella guerra sociale, e proprio alla testa delle legioni che aveva guidato nel corso di quel conflitto marciò su Roma. La fuga di Caio Mario gli lasciò libero il campo: Silla fu rieletto console e partì per la guerra contro Mitridate nell’87 a.C. Durante la sua assenza, però, Caio Mario e Lucio Cornelio Cinna, rivestendo nuovamente il consolato, si reimpadronirono del potere, finché morirono, Mario nell’86 a.C. e Cinna nell’84 a.C. Quando Silla, nell’83 a.C., di ritorno dall’Asia Minore, marciò di nuovo su Roma, stroncò la resistenza dei suoi avversari e instaurò un regime senza precedenti nella repubblica romana. Nominato dittatore, egli eliminò i suoi nemici mediante proscrizioni, e le terre appartenenti agli oppositori politici furono confiscate e distribuite ai veterani delle sue legioni; emanò poi numerose leggi (leges Corneliae) che restituivano all’aristocrazia senatoria il pieno controllo della vita politica dello stato, limitando non poco le prerogative dell’ordine equestre, cui Mario aveva concesso alcuni privilegi. Silla si ritirò dalla politica nel 79 a.C., lasciando un pericoloso esempio alle generazioni immediatamente successive: quello, cioè, di un potere che – pur nell’ambito di una struttura costituzionale repubblicana – aveva i caratteri autocratici della monarchia.
Dall’ascesa di Cesare alla fine della repubblica
Nel 67 a.C. Pompeo Magno, uomo politico e generale che aveva combattuto i seguaci di Mario in Africa, in Sicilia e in Spagna, liberò il Mediterraneo dai pirati e fu incaricato di condurre una nuova guerra contro Mitridate. Nel frattempo il suo rivale, Caio Giulio Cesare, acquistò progressivamente una notevole ingerenza politica come capo della fazione dei populares, e si alleò con il ricchissimo Marco Licinio Crasso. Pompeo, tornato vittorioso dall’Oriente, chiese al senato di ratificare le misure da lui prese in Asia Minore e distribuì le terre ai suoi veterani. Le sue richieste si scontrarono con una serie di veti da parte del senato, fino a che Cesare, presentandosi come amico, formò con lui e con Crasso il primo triumvirato, nel 59 a.C.: si trattava non già di una magistratura, ma di un patto privato tra i più potenti uomini politici del tempo, ciascuno dei quali aveva propri interessi da proteggere e promuovere. Il grande oratore Marco Tullio Cicerone, di tendenze politiche conservatrici, si era accorto della sua pericolosità e lo avversò fieramente: il processo di “personalizzazione” della vita politica romana, che aveva avuto nelle figure di Mario e Silla i più illustri precedenti, stava per assumere così una strada senza ritorno, che avrebbe minato la natura stessa della repubblica; quella stessa repubblica che solo pochi anni prima (63 a.C.) aveva anche dovuto fronteggiare, sotto il consolato di Cicerone, un tentativo di colpo di stato di natura demagogica capeggiato da Lucio Sergio Catilina. L’accordo triumvirale consentì a Cesare di ottenere il consolato e a Pompeo di far accettare le proprie richieste. Gli interessi dei cavalieri – sul cui appoggio Cesare contava – vennero soddisfatti, garantendo ai pubblicani condizioni vantaggiose negli appalti per la riscossione dei tributi nelle province orientali; fu inoltre introdotta una legge agraria per consentire a Pompeo di ricompensare adeguatamente le sue truppe con donativi di terre. Il coronamento dei successi di Cesare fu il comando militare ottenuto in Gallia cisalpina, in Illiria e più tardi anche nei possedimenti romani nella Gallia d’oltralpe; di qui mosse alla conquista, per mezzo delle lunghe e faticose guerre galliche, di tutta la Gallia transalpina, che ebbe termine nel 52 a.C. Nel 55 a.C. i triumviri rinnovarono la loro alleanza, e mentre a Cesare venne prorogato il comando della Gallia ancora per cinque anni, Pompeo e Crasso furono eletti consoli: al primo venne affidato il controllo di Spagna e Africa, mentre Crasso ricevette la Siria; ma la morte di quest’ultimo, nel 53 a.C., sconfitto a Carre, presso l’Eufrate, mentre combatteva contro i parti, pose Pompeo in aperto conflitto con Cesare. Mancando un governo efficiente, a Roma scoppiarono violenti tumulti: il senato persuase Pompeo a restare in Italia, affidando le sue province a legati, e lo elesse unico console nel 52 a.C. decidendo di sostenerlo contro Cesare, a cui venne imposto di rinunciare al comando militare (per impedire la sua elezione a console). Cesare rifiutò e, nel 49 a.C., dalla Gallia cisalpina scese verso sud attraversando in armi il fiume Rubicone, confine del pomerium sillano; presa Roma, obbligò Pompeo e i membri più in vista dell’aristocrazia a ritirarsi in Grecia. Continuò quindi la guerra contro i pompeiani, sbaragliandoli prima in Spagna e passando poi in Grecia, dove vinse la battaglia di Farsalo (48 a.C.). Pompeo fu ucciso poco dopo in Egitto, ma la guerra contro i suoi partigiani continuò finché questi non vennero sconfitti duramente nella battaglia di Tapso (46 a.C.) e definitivamente in quella di Munda (45 a.C.). Cesare, dopo avere progressivamente accentrato nella sua persona numerosi poteri e funzioni (la ripetuta assunzione della dittatura e del consolato; l’attribuzione di alcune prerogative dei tribuni della plebe; la praefectura morum, che sostituì la censura) si proclamò dittatore a vita: l’eccezionalità della sua posizione politica venne ribadita da forme di culto della personalità del tutto estranee alle consuetudini della repubblica romana. Il nuovo “leader” della politica romana aveva però sottovalutato il peso delle tradizioni repubblicane e si creò numerosi nemici nell’ambito dell’aristocrazia dell’Urbe: il 15 marzo del 44 a.C. venne quindi assassinato a seguito di una congiura, proprio mentre stava ideando una spedizione militare in Oriente che avrebbe eguagliato il suo prestigio militare a quello di Alessandro Magno. Cicerone cercò di restaurare la vecchia costituzione repubblicana, ma Marco Antonio, già luogotenente di Cesare, unì le proprie forze a quelle di Marco Emilio Lepido e del pronipote e figlio adottivo di Cesare, Ottaviano (il futuro imperatore Augusto), per formare il secondo triumvirato, che questa volta fu una vera e propria magistratura straordinaria dello stato. Fra le prime scelte dei triumviri vi furono le proscrizioni e l’eliminazione degli oppositori, fra cui Cicerone. Nel 42 a.C. Ottaviano e Antonio sconfissero gli assassini di Cesare, Marco Giunio Bruto e Caio Cassio Longino a Filippi, nella Grecia settentrionale, dopodiché i triumviri si divisero il controllo dei domini romani: Ottaviano ebbe l’Italia e l’Occidente, Antonio l’Oriente e Lepido l’Africa. Ottaviano cercò l’aiuto di quest’ultimo nella guerra contro Sesto Pompeo (il figlio di Pompeo Magno), ma Lepido cercò di accaparrarsi la Sicilia, con il risultato di venire privato della sua provincia e del suo ruolo all’interno del triumvirato (36 a.C.). Alla morte di Sesto Pompeo il possesso del Mediterraneo rimase una questione privata fra Ottaviano – che aveva nel frattempo rafforzato notevolmente la sua posizione in Occidente – e Antonio, ormai suo unico rivale; quest’ultimo, infatti, viveva ormai in Egitto alla corte della regina Cleopatra, mirando a trasformare l’insieme dei domini romani in una monarchia, su modello dei regni ellenistici. Con la battaglia di Azio (che vinse nel 31 a.C.), e il suicidio di Antonio, Ottaviano estese il suo dominio anche in Oriente (29 a.C.), divenendo in tal modo il solo padrone di tutti i territori di Roma. Sia lo storico greco Polibio che l’oratore latino Cicerone avevano definito la repubblica romana il sistema politico migliore, poiché armonizzava in sé caratteristiche proprie della monarchia (il potere esecutivo e militare dei consoli), dell’oligarchia (il potere consultivo del senato) e della democrazia (il potere legislativo e la funzione elettorale dei comizi). Ma già con Silla, poi con Cesare, e ancor più con Ottaviano, era però chiaro che il primo dei tre poteri stava prendendo il sopravvento, e quando, nel 27 a.C., il senato tributò a Ottaviano il titolo di augusto (dalla radice di auctoritas, cioè “autorità morale”), la repubblica romana – che di nome continuava a esistere – si poteva dire finita. In tale titolo, accompagnato alle altre prerogative e funzioni che egli assunse, era infatti insita l’idea di un potere che non scaturisse dalla delega dell’imperium da parte del popolo romano, ma che fosse prerogativa individuale, personale, in alcun modo limitabile dalle annualità e collegialità tipiche delle magistrature repubblicane; che fosse, insomma, un potere di tipo monarchico.
Società ed economia della Roma repubblicana
Non è semplice fare un quadro complessivo della società e dell’economia della Roma repubblicana, non solo perché questa fase comprende cinque secoli di storia, ma anche perché durante questo periodo Roma si trasformò da piccolo centro del Lazio, abitato da pastori, agricoltori e modesti mercanti di sale, a potenza politica ed economica egemone nel Mediterraneo. Sulla distinzione arcaica tra patrizi e plebei e sulla successiva nascita di un’aristocrazia senatoria, che si opponeva ad associare al potere politico l’emergente ordine equestre, già si è detto; nulla si è però anticipato su un’altra fondamentale componente della società romana, la schiavitù. Il numero degli schiavi, soggetti cioè senza alcuna personalità giuridica e vero e proprio “possesso” dei loro padroni, e che solo col loro permesso potevano emanciparsi diventando liberti, fu inizialmente limitato. I prigionieri di guerra catturati nel III e nel II secolo a.C. andarono però ad accrescere notevolmente questo numero, se è vero che intorno alla metà del I secolo a.C. dovevano esistere in Italia oltre un milione di schiavi, su un totale di cinque-sei milioni di abitanti (si tratta comunque di cifre ipotetiche e opinabili, anche se tendenzialmente accettabili). L’economia romana, che nel II secolo a.C. si sviluppò sensibilmente, non poteva fare a meno di loro: erano infatti schiavi i lavoratori agricoli dei possedimenti terrieri dei membri dell’aristocrazia senatoria, ove si producevano vino e olio; e spesso schiavi erano anche i lavoranti delle botteghe artigiane di proprietà dei cavalieri, o i marinai che portavano oltremare le loro merci; ma nondimeno schiavi erano talora i dotti precettori greci o orientali che curavano l’educazione dei giovani aristocratici. Non è dunque scorretto parlare, a proposito dell’economia romana, di un’economia schiavistica. Ciò ebbe come conseguenza una progressiva proletarizzazione dei cittadini romani delle classi inferiori, che vedevano così ridursi le loro opportunità lavorative; e le riforme di Mario, che trasformarono l’esercito romano in un corpo professionale, avevano anche il fine di arruolare questi soggetti sociali e limitarne il malcontento. Dovendo dunque sintetizzare il quadro socio-economico dell’età repubblicana, si ebbero un’attività agricola – nelle mani dell’aristocrazia senatoria – e una serie di attività imprenditoriali, gestite dai membri dell’ordine equestre: in entrambi i casi ci si avvalse preferibilmente di manodopera schiava, mentre i ceti inferiori andarono sempre più a rimpolpare i ranghi dell’esercito. Dal punto di vista degli istituti sociali, comune a tutti gli ordini e le classi (ma particolarmente sentito negli ambiti aristocratici) fu il rispetto della famiglia, che nella scala gerarchica dei valori imposta dal mos maiorum (l’insieme di leggi non scritte tramandate oralmente di padre in figlio, patrimonio comune del popolo romano) era seconda solo allo stato. In origine la famiglia romana era una specie di “monarchia privata” di natura patriarcale; tutti i poteri erano infatti nelle mani del marito-padre detto pater familias, cui erano ugualmente sottomessi la moglie e i figli. Già il rito del matrimonio faceva capire che concezione ci fosse alla sua base; infatti, dopo una cerimonia di tipo rituale (confarreatio) che consisteva nel cibarsi, da parte dei due sposi, di una focaccia di farro, la donna, attraverso il rito della coemptio (che significa “acquisto”) veniva praticamente “comprata” dal futuro marito, insieme con i beni che portava in dote: da questo momento cessava di essere proprietà della famiglia d’origine per diventarlo del marito. La sua persona fisica, i suoi beni, come pure le persone fisiche e i beni dei figli che fossero nati dal matrimonio, erano sotto l’assoluto arbitrio del pater familias. La donna che avesse tradito il marito poteva essere da lui uccisa; colpe meno gravi come, ad esempio, la sottrazione all’uomo delle chiavi della cantina (alle donne era proibito bere vino) potevano portare invece al ripudio, mentre era impossibile che fosse la donna a chiedere il divorzio. Non meno forte era l’autorità che il padre aveva sui figli che, anche se maggiorenni o addirittura divenuti magistrati, dovevano – se in casa del padre – obbedirgli e portargli rispetto; e in caso di morte o lontananza del padre la funzione di tutela sui figli veniva affidata allo zio paterno, cioè al fratello più anziano del padre stesso. I figli disobbedienti potevano persino essere venduti come schiavi o venire condannati a morte. Terribile invece era la pena che la legge romana sanciva per i figli che avessero ucciso il padre: i parricidi venivano infatti chiusi dentro un grande sacco di tela e buttati in mare, non essendo ritenuti degni di sepoltura. È però necessario dire che questi poteri del padre-marito non venivano quasi mai, nonostante la legge lo consentisse, esercitati davvero: erano più che altro una minaccia che pesava su moglie e figli, e, ovviamente, sugli schiavi, anch’essi considerati parte della familia sulla quale il pater aveva autorità. Oltre al ruolo di vero monarca, egli aveva però l’importantissimo compito di ricordare a figli e nipoti le imprese politiche o militari degli antenati illustri, far sì che le loro tombe fossero venerate e le loro statue – gelosamente custodite in casa – oggetto di sacrifici e preghiere, tanto che al culto religioso ufficiale e pubblico, se ne affiancava uno familiare e privato: ciascuno doveva cioè essere orgoglioso di appartenere a una determinata gens, tanto più se i suoi avi si erano distinti per imprese valorose delle quali il pater familias rappresentava la memoria storica.
Si può dividere la storia dell’antica Roma in tre periodi: Roma antica (età imperiale) Periodo della storia di Roma antica compreso tra il 27 a.C. (proclamazione di Ottaviano come augusto) e il 476 d.C. (deposizione di Romolo Augustolo e fine dell’impero romano d’Occidente), durante il quale si costituì e si affermò l’impero romano.
Augusto e la natura del potere imperiale
L’età imperiale, successiva al periodo della repubblica, iniziò con Augusto, considerato il primo imperatore di Roma, anche se già con Giulio Cesare e – se pur parzialmente – ancor prima con Silla, si era affermata una gestione di natura monarchica delle istituzioni repubblicane. Ottaviano, dopo aver sconfitto Marco Antonio nella battaglia di Azio (31 a.C.), assunse un controllo pressoché assoluto sulla vita politica romana. Nel 27 a.C. il senato gli attribuì il titolo onorifico di “augusto” (che significa “colui che ha l’autorità morale”), in seguito divenuto sinonimo di imperatore. Fu proprio attraverso la propria autorità morale (auctoritas) che egli accentrò nella propria persona titoli e poteri un tempo attribuiti esclusivamente ai magistrati repubblicani, senza giungere mai a una formale modifica di carattere costituzionale; assunse anzi il ruolo di difensore delle istituzioni repubblicane, dando vita così a una vera e propria finzione, poiché di nome continuava a esistere la repubblica, mentre di fatto vi era una gestione del potere di tipo monarchico. Nel 23 a.C. Augusto ricevette la tribunicia potestas, cioè l’insieme dei poteri dei tribuni della plebe, che comportava l’inviolabilità personale (sacrosanctitas) e il possibile diritto di veto nei confronti di provvedimenti legislativi (intercessio); tale era l’importanza di questa funzione, che egli si premurò che fosse costantemente rinnovata. Il senato lo investì a vita anche della dignità proconsolare, conferendogli poteri superiori (il cosiddetto imperium maius) a quelli degli altri proconsoli. L’insieme di queste prerogative, sommate alla carica di console che assunse ben tredici volte, conferì ad Augusto un potere che non poteva più avere alcun elemento di “bilanciamento” nella vita dello stato: un potere che faceva di lui il princeps – come amava essere definito – e cioè “il primo” dei cittadini di Roma. Oltre all’auctoritas, di cui si è detto, deteneva infatti la potestas (cioè l’autorità civile), conseguita proprio attraverso l’assunzione della tribunicia potestas, e l’imperium (cioè il potere di comandare gli eserciti), implicito nelle funzioni consolari e proconsolari. Si fece dunque chiamare Imperator (“colui che ha l’imperium”), Caesar (“il successore di Giulio Cesare”, divenuto cesare lui stesso), Divi Caesaris filius (“il figlio del divo Cesare”), Octavianus (quel che restava del suo vero nome), Augustus (“colui che ha l’autorità morale”), ideando uno schema di titolatura che sarà fatta propria dai suoi successori. Nel 12 a.C. venne inoltre proclamato pontefice massimo (pontifex maximus), la più alta carica sacerdotale dello stato, controllando così anche la sfera religiosa; e nel 2 a.C. assunse quel titolo di “padre della patria” (pater patriae) che la tradizione aveva fino ad allora assegnato solo a Romolo e a Marco Furio Camillo.
Il senato conservò un controllo sempre più formale su Roma, sull’Italia e sulle province, escluse quelle di frontiera, in cui era necessario stanziare le legioni: tali province erano governate da legati nominati e controllati dall’imperatore stesso. Augusto promosse numerose riforme allo scopo di restaurare l’ordine sociale, e impose l’osservanza delle tradizioni morali, religiose e del costume romano (il mos maiorum); creò inoltre una solida ed efficiente burocrazia imperiale e abbellì Roma con templi, basiliche e portici, trasformandola – come lui stesso dichiarò – da una città di mattoni in una città di marmo. Il periodo augusteo rappresentò il momento di massimo splendore della letteratura latina, con l’opera poetica di Virgilio, Orazio e Ovidio, e la prosa della monumentale Storia di Roma di Tito Livio. Il vero nodo da risolvere del principato augusteo era però quello della successione. Non solo decidere “chi” dovesse assumere su di sé una tale quantità di poteri alla morte di Augusto – problema già esso non semplice, dato che il princeps non ebbe figli maschi, e i generi e nipoti su cui aveva puntato gli premorirono –, ma, soprattutto, legittimare il fatto che una situazione apparentemente straordinaria, dovuta alla presenza di un uomo investito per consenso generale di un’unica e irripetibile autorità morale, dovesse perpetuarsi dinasticamente.
Gli imperatori Giulio-Claudi (27 a.C. – 68 d.C.)
La soluzione insita nell’adozione e nella candidatura alla sua successione del figliastro Tiberio, che sua moglie Livia Drusilla aveva generato in prime nozze da Tiberio Claudio Nerone (di qui la denominazione di dinastia giulio-claudia), fu in un certo senso obbligata: Augusto cercò così di conferire una parvenza di ereditarietà alla successione. Tiberio, divenendo figlio – pur se adottivo – di un uomo dai poteri straordinari, assumeva anch’egli quell’alone di auctoritas che gli permetteva di governare, togliendo così ai cittadini romani le residue speranze che la repubblica potesse essere restaurata: bastava solo che Tiberio, perpetuando la finzione paterna, si facesse assegnare da un senato ormai prono la summa dei poteri repubblicani, e così avrebbero dovuto fare i suoi successori. Con il consolidarsi del sistema di governo imperiale, la storia di Roma si identificò dunque con quella dei regni dei singoli imperatori. Tiberio, che succedette al patrigno Augusto nel 14 d.C., era un amministratore capace, ma fu oggetto di generale antipatia e sospetto, soprattutto da parte dell’aristocrazia senatoria. Egli si accattivò i corpi scelti dell’esercito, secondo un costume che nei secoli fu tipico di molti imperatori, e tenne di stanza a Roma la guardia pretoriana. Il prefetto del pretorio Elio Seiano – durante i frequenti soggiorni dell’imperatore nella sua villa di Capri – si comportava di fatto nell’Urbe come se fosse detentore di un potere assoluto, quasi monarchico; ciò fu inizialmente tollerato, o addirittura incoraggiato da Tiberio, che dovette però infine eliminare Seiano a causa dell’eccessiva spirale di violenza che aveva innescato. A Tiberio successe Caligola (nipote di suo fratello Druso Maggiore), ritenuto dalla tradizione senatoria mentalmente instabile e tirannico, e che invece più probabilmente dovette assumere atteggiamenti, a livello sia personale che politico, propri della tradizione dei regni ellenistici, del tutto estranei alla cultura romana. Caligola regnò dal 37 al 41 d.C., allorché venne ucciso dai pretoriani che acclamarono imperatore suo zio Claudio, durante il cui regno (41-54 d.C.) fu condotta a termine la conquista della Britannia. Claudio proseguì l’opera di formazione di una solida burocrazia statale, iniziata da Augusto e Tiberio; la tradizione, però, ha consegnato di questo imperatore un’immagine piuttosto negativa, enfatizzando l’influsso che su di lui avrebbero avuto le mogli Messalina e Agrippina Minore e alcuni potenti liberti di corte. Claudio morì nel 54 d.C., forse avvelenato da Agrippina che voleva imporre sul trono il figlio di primo letto Nerone. Costui iniziò a governare sotto la saggia guida e i consigli del filosofo Seneca e di Sesto Afranio Burro, prefetto della guardia pretoriana, ma i suoi successivi comportamenti sregolati e tirannici, improntati a una concezione assolutistica del potere ispirata al modello ellenistico orientale, portarono nel 65 d.C. alla congiura senatoria ispirata da Caio Calpurnio Pisone (poi repressa nel sangue) e alla sollevazione militare guidata da Galba: Nerone si suicidò nel 68 d.C., segnando così la fine della dinastia degli imperatori Giulio-Claudi.
I Flavi (69-96 d.C.)
I brevi regni di Galba, Otone e Vitellio, tra il 68 e il 69 d.C. (l'”anno dei quattro imperatori”), furono seguiti da quello del valente generale Tito Flavio Vespasiano e dei suoi figli, Tito e Domiziano, che diedero vita alla dinastia dei Flavi. Il regno dei Flavi fu caratterizzato dal consolidamento dell’economia e dell’amministrazione imperiale, oltre che dal principio dinastico “diretto” (implicante cioè motivi “di sangue”) nella successione al potere, e – soprattutto – dall’inizio di una nuova concezione del potere imperiale stesso. Vespasiano, infatti, promulgando nel 69 d.C. la lex de imperio Vespasiani tolse all’istituto del principato le caratteristiche di finta eccezionalità e precarietà costituzionale che aveva avuto fino ad allora, trasformandolo in una vera e propria magistratura suprema costituzionalmente accettata; in questa legge, infatti, si stabilivano tutte le funzioni e facoltà spettanti all’imperatore, nel rispetto di quelle – pur esigue – destinate al senato. D’altra parte Vespasiano non discendeva né per sangue né per adozione dagli eredi di Giulio Cesare e Augusto, e doveva dunque sgombrare il campo da qualunque incertezza: avrebbe governato non in nome di una generica auctoritas, ma di precisi poteri civili e militari, ai quali aveva diritto in quanto vincitore della cruenta guerra civile dell’anno 69 d.C. Sotto il regno di Vespasiano (69-79 d.C.) Roma conseguì numerosi successi militari: anzitutto quello, clamoroso, nella guerra giudaica – condotta dall’imperatore insieme al figlio Tito – che portò nel 70 d.C. alla presa di Gerusalemme; inoltre, altri riportati in varie campagne in Oriente (che permisero l’annessione di nuovi regni), in Britannia, nelle regioni danubiane. Durante il regno di Tito (79-81 d.C.), principe ricordato con l’epiteto di “amore e delizia del genere umano” a causa dei suoi atteggiamenti clementi e conciliatori, un’eruzione del Vesuvio (79 d.C.) distrusse le città di Ercolano e Pompei. Il regno di Domiziano (81-96 d.C.) si contraddistinse inizialmente per alcune spedizioni germaniche che consentirono di rafforzare il limes germanico-retico; in politica interna, però, il governo dell’imperatore si trasformò progressivamente in un’odiata tirannide, teso com’era a sottrarre ancor più prestigio al senato: per assumere un maggiore controllo su questa istituzione Domiziano si fece addirittura nominare censore a vita.
Gli Antonini (96-192 d.C.)
All’anziano Marco Cocceio Nerva (che regnò con equilibrio e moderazione dal 96 al 98 d.C.), imposto dal senato dopo che Domiziano venne ucciso in una congiura, succedettero nel corso del II secolo d.C. Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio e Lucio Vero. Ciascun imperatore fu scelto e adottato legalmente dal suo predecessore per le proprie capacità e onestà (secondo il criterio della “scelta del migliore”), ignorando i vincoli di sangue; e, anche se in realtà solo gli ultimi tre ebbero la determinazione onomastica di “Antonino”, tutti quanti vengono – un po’ impropriamente – accomunati nella definizione di “Antonini”.Traiano (98-117 d.C.), nativo della Spagna meridionale, fu il primo provinciale ad ascendere al principato; egli condusse campagne contro i daci, gli armeni e i parti, e il suo regno fu ricordato per l’eccellente amministrazione, l’accorta politica sociale e per i rapporti distesi tra princeps e senato: Traiano si meritò infatti l’appellativo pubblico di optimus, fino ad allora proprio solo di Giove Capitolino. Sotto il suo regno l’impero raggiunse la massima estensione territoriale della sua storia; lo scrittore di satire Giovenale, l’oratore Plinio il Giovane, grande amico personale dell’imperatore, e lo storico Cornelio Tacito vissero in età traianea.I ventun anni del successivo regno di Adriano (117-138 d.C.) furono un periodo di pace e prosperità. Adriano infatti consolidò e rese più sicuri i confini dell’impero, anche con numerosi soggiorni fuori Roma, e addirittura risiedendo per più anni ad Atene. Egli non solo viaggiò in tutti i domini romani per coordinare personalmente operazioni militari o amministrative, ma anche per mostrare a tutti la sua presenza fisica, diminuendo così la distanza tra il principe e i provinciali: non ancora, questi ultimi, cittadini romani a tutti gli effetti, ma neppure più semplici sudditi da sfruttare. Anche il regno del suo successore, Antonino Pio (138-161 d.C.), fu ordinato e pacifico; nel 147 d.C. – sotto gli auspici di questo imperatore – vennero celebrati con grande fasto e solennità i novecento anni dalla fondazione di Roma. Il principato del filosofo stoico Marco Aurelio (161-180 d.C.), che governò insieme al fratello adottivo Lucio Aurelio Vero fino alla morte di quest’ultimo (169 d.C.), fu turbato dalle incursioni di popolazioni germaniche (quadi e marcomanni), che migravano premendo sui confini dell’impero, nonché da una grave pestilenza portata in Italia dai militari di ritorno dall’Oriente a partire dal 166 d.C. A Marco Aurelio succedette – con palese rottura del criterio dell’adozione come “scelta del migliore” – il figlio Marco Aurelio Commodo (180-192 d.C.), forse uno dei tiranni più sanguinari e dissoluti della storia romana; questi assunse infatti atteggiamenti veementemente antisenatori e sempre più apertamente teocratici (si omologò a Giove e assunse addirittura il titolo di “Ercole Romano”) finché non venne assassinato nel 192 d.C.Il II secolo d.C. mostrò, soprattutto nell’ultima fase, evidenti indizi di una crisi dei valori tradizionali del popolo romano. Infatti il mos maiorum, l’insieme di modelli comportamentali per il cittadino di età repubblicana che si basava sull’importanza della partecipazione – a vari livelli (politico, militare, religioso, culturale) – alla vita pubblica, era ormai un punto di riferimento inadeguato per una generazione che della respublica aveva perso ogni ricordo ed era ormai assuefatta a un potere di tipo monarchico, o addirittura tirannico o teocratico. Quando avvennero le prime pericolose incursioni dei quadi e dei marcomanni, vacillò anche l’unico grande valore che era stato patrimonio dei romani d’epoca imperiale, e che li aveva persuasi di essere comunque i protagonisti della storia dell’umanità: l’espansione e la difesa dei domini imperiali come garanzia dell’eternità di Roma e del suo popolo. Gli dei capitolini tradizionali erano inoltre inadeguati a soddisfare la religiosità di genti culturalmente ed etnicamente così diverse, accomunate solo dall’essere soggette a Roma. Fu così che nei territori dell’impero, a partire soprattutto dalle truppe di stanza in Oriente, si affermarono sempre più i culti misterici e le religioni orientali legate a Mitra, a Iside e alla Grande Madre, e, benché ripetutamente perseguitata, il cristianesimo faceva sempre più proseliti nel mondo romano. Nel secolo successivo, a questa crisi di valori si aggiunsero gravi fattori di instabilità politica e sociale che accelerarono il declino dell’impero.
Declino e caduta dell’impero (193-476) I Severi (193-235)
I brevi regni di Pertinace e di Didio Giuliano (193 d.C.) furono seguiti da quello di Lucio Settimio Severo (193-211 d.C.) – capostipite della dinastia dei Severi – che dovette però contrastare nei primi anni di regno ben due usurpatori del potere imperiale: Pescennio Nigro in Oriente e Clodio Albino in Britannia. Questo fatto dava la misura della difficoltà nel governare un impero tanto militarizzato, ove le legioni di stanza nelle diverse province tentavano sempre più spesso di acclamare imperatore il proprio comandante, sperando in future agevolazioni e vantaggi. Alla dinastia severiana, di breve durata, appartennero gli imperatori Caracalla, Eliogabalo e Alessandro Severo. Di Settimio Severo si debbono ricordare le numerose vittorie militari in Oriente, che salvaguardarono i confini dell’impero e contribuirono da un lato ad accentuare ancora di più l’importanza dell’esercito nella società romana e dall’altro a dissanguare le finanze pubbliche. Il figlio Caracalla (211-217) fu ricordato dalla tradizione senatoria per la sua brutalità, giacché iniziò il suo principato facendo uccidere il fratello Geta; motivi d’ordine politico, dovuti alla necessità di accrescere il proprio consenso, ma anche d’ordine economico, al fine di “creare” nuovi cittadini da sottoporre a pesante pressione fiscale, lo spinsero nel 212 a concedere la cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi dell’impero attraverso la Constitutio antoniniana. Alla sua morte ci fu l’acclamazione imperiale del prefetto del pretorio Marco Opellio Macrino (217-218), che venne però l’anno successivo spodestato a vantaggio di Eliogabalo (218-222), giovanissimo nipote di Settimio Severo e sacerdote del dio solare Elagabal (da cui il suo soprannome, poiché il suo nome originario era Vario Avito). Avveniva così un fatto che testimoniava più di ogni altro la crisi dei valori della religione tradizionale, e cioè la creazione di un principe quattordicenne, sacerdote di un culto orientale tradizionalmente estraneo alla religiosità romana. A Eliogabalo successe Alessandro Severo (222-235), che dovette far fronte a numerose situazioni critiche dal punto di vista militare, specialmente nell’area mesopotamica e sul limes renano, ove venne ucciso da un’insurrezione di truppe romane; fu quindi imposto sul trono il rozzo generale Massimino, di origine tracia, e venne così messo fine alla dinastia dei Severi.
Dall’anarchia militare all’avvento di Diocleziano (235-284)
Il periodo successivo alla morte di Alessandro Severo corrispose a una fase estremamente confusa nella storia dell’impero. Quasi tutti gli imperatori che regnarono negli anni seguenti morirono di morte violenta, spesso per mano degli stessi soldati che li avevano posti sul trono. Essi furono, dopo Massimino, gli africani Gordiano I e Gordiano II (238); gli anziani senatori Pupieno e Balbino (238); il giovanissimo Gordiano III (238-244); l’ex prefetto del pretorio Filippo l’Arabo (244-249); il generale Decio (249-251), feroce persecutore dei cristiani; Treboniano Gallo (251-253); Emiliano (253); Valeriano (253-260), che regnò col figlio Gallieno (253-268), che gli sopravvisse e fu fautore di una politica di stampo orientalizzante, in una fase in cui gravissimi problemi militari ed economici angustiavano l’impero. Tutto ciò senza contare i numerosi usurpatori (tra i quali Postumo, Ingenuo, Regaliano, Macriano, Quieto, Aureolo, Vittorino), che periodicamente venivano acclamati principi in varie località dell’impero.Con gli imperatori illirici, originari dell’area oggi conosciuta come Dalmazia, vi fu una fase di ripresa del prestigio di Roma: Claudio II, soprannominato il Gotico (268-270), ricacciò i goti oltre i confini, mentre Aureliano, che regnò tra il 270 e il 275 (dopo il regno di Quintillo, durato solo pochi giorni) sconfisse i goti, i germani e Zenobia, regina di Palmira, che aveva occupato parte dell’Egitto e dell’Asia Minore costituendovi un regno autonomo. Aureliano promosse anche numerose riforme in ambito economico (con una pesante svalutazione della moneta), sociale (riorganizzando le associazioni professionali) e religioso (trasformando il culto solare nel culto supremo ufficiale dello stato). Il regno di Aureliano fu seguito da una rapida successione di imperatori di durata relativamente breve – Claudio Tacito (275-276), Floriano (276), Probo (276-282), Caro (282-283), Carino (283-285) e Numeriano (283-285) – che dovettero difendere i confini dell’impero da numerose incursioni nemiche e allo stesso tempo lottare contro gli ormai consueti usurpatori, particolarmente frequenti nella regione gallica (tra i quali Tetrico, Vaballato, Proculo, Bonoso): tutto ciò fino all’ascesa al trono nel 284 di Diocleziano, anch’egli di origine illirica e di estrazione militare.
Dalla tetrarchia alla morte di Teodosio (284-395)
Diocleziano (284-305), dopo la proclamazione imperiale, introdusse numerose riforme che diedero all’impero un volto decisamente nuovo. Per realizzare un’amministrazione unitaria dell’impero, egli provvide a una sua divisione politico-amministrativa e associò anzitutto al principato Massimiano che ricevette il titolo di augusto, anche se l’epiteto “Giovio” (connesso con Giove) di Diocleziano rispetto a quello di “Erculeo” (connesso con Ercole) tributato a Massimiano poneva quest’ultimo in una posizione lievemente subordinata. I loro poteri furono rafforzati dalla nomina di due collaboratori (e futuri successori) cui fu concesso il titolo di cesare: Galerio e Costanzo Cloro. Alla coppia Diocleziano-Galerio, le cui corti risiedettero rispettivamente a Nicomedia (in Bitinia) e a Sirmio (nell’Illirico), venne affidata la gestione delle province orientali; Massimiano e Costanzo Cloro governarono invece l’Occidente e l’Africa, risiedendo rispettivamente a Milano (in Italia) e a Treviri (in Germania). Tutto ciò fu fatto nel tentativo di razionalizzare la struttura stessa dell’impero – suddiviso allora in cento province, raggruppate in dodici diocesi dipendenti da vicari del prefetto del pretorio – e di esautorare così il senato da qualunque compito di controllo sui domini imperiali. Questo sistema, conosciuto come tetrarchia (cioè “governo dei quattro”), se creò un apparato amministrativo più forte accrebbe però la già pesante burocrazia del governo imperiale, le cui quattro corti e i rispettivi funzionari esercitavano un peso finanziario insostenibile sulle risorse economiche dell’impero. A questo proposito, Diocleziano e i suoi coreggenti cercarono di frenare l’inflazione crescente controllando i prezzi dei generi alimentari e il salario massimo dei lavoratori (edictum de maximis pretiis rerum venalium, del 301), e inasprirono la pressione fiscale anche a danno dell’Italia, omologata ormai a una qualsiasi provincia; inoltre, nella convinzione che il cristianesimo minasse la struttura dell’impero, nel 303 scatenarono contro i cristiani una violenta persecuzione. Diocleziano e Massimiano abdicarono nel 305, lasciando i nuovi augusti e i nuovi cesari alle prese con un conflitto di successione sfociato in una lunga guerra civile, che ebbe termine soltanto con l’ascesa al trono di Costantino (306-337). Dimostrazione, questa, che qualunque riforma era insufficiente a rianimare completamente un’istituzione, quella imperiale, che se si era retta per secoli sulle armate legionarie, trovava ora nella discordia tra queste un elemento costante di destabilizzazione (anche durante il regno dei tetrarchi non erano mancati due usurpatori: Carausio e Alletto). Riassumendo brevemente la contesa per la successione, si può ricordare che vi furono coinvolti i due ex cesari e nuovi augusti Galerio e Costanzo Cloro, i loro cesari Massimino Daia e Flavio Valerio Severo, nonché il figlio di Massimiano (Massenzio), il figlio di Costanzo Cloro (Costantino), e Licinio, già amico e compagno d’armi di Galerio. Costantino, acclamato augusto dall’esercito in Britannia, prevalse sui suoi rivali riuscendo a unificare l’impero d’Occidente sotto la sua guida nel 312, lasciando l’Oriente a Licinio; ma, dopo avere sconfitto anche quest’ultimo, nel 324 restò solo a governare l’impero. Con lui la monarchia completava quel carattere autocratico e sacrale che già Diocleziano aveva fortemente accentuato e che culminò nel 330 quando Costantino spostò la capitale a Bisanzio, che ribattezzò con il nome di Costantinopoli (l’odierna Istanbul), e cioè “città di Costantino”. L’imperatore si ornò del diadema e introdusse un complesso cerimoniale di corte, luogo ove si convocava il consiglio dei suoi collaboratori detto concistoro (consistorium), divenuto ormai il massimo organo dello stato, essendo il senato ridotto da tempo a una funzione puramente decorativa. Particolarmente importante fu il ruolo che Costantino ebbe in campo religioso. Non è chiaro se egli divenne davvero cristiano, come vuole una parte della tradizione; sappiamo però che nel 313 emanò a Milano un editto che consentiva libertà religiosa nell’impero, e che, proclamatosi in gioventù protetto dal dio Sole-Apollo-Mitra, giocò poi sulla possibile identificazione di questa entità con il dio cristiano, cercando di non dispiacere né ai pagani né ai cristiani. E quando nel 325 convocò egli stesso il concilio di Nicea per dirimere complesse dispute teologiche in seno alla Chiesa cristiana, mostrò la nuova interpretazione data al ruolo, da lui ricoperto, di pontefice massimo: quella di supremo e attento controllore di tutti i culti praticati nell’impero, consapevole delle enormi conseguenze politiche che questi potevano avere. La morte di Costantino, nel 337, segnò l’inizio della guerra per la successione tra i suoi figli Costantino II, Costante e Costanzo II, finché quest’ultimo non riunì l’impero sotto di sé nel 353. Gli succedette nel 361 il dottissimo genero Giuliano l’Apostata (361-363), che ripudiò il trionfante cristianesimo per ripristinare gli antichi culti pagani e che morì combattendo contro i parti; dopo di lui, Flavio Gioviano regnò dal 363 al 364. Fece seguito il regno di Valentiniano I (364-375), che associò al potere il fratello Valente (364-378), lasciandogli il governo dell’Oriente; terribile sorte toccò a quest’ultimo, sconfitto e ucciso dai goti nella battaglia di Adrianopoli, uno dei segnali più chiari delle difficoltà dei romani a difendere i confini dell’impero – già minato nel suo interno dalla presenza di nuovi usurpatori – dalle incursioni delle popolazioni germaniche. Regnarono poi sull’Occidente i figli di Valentiniano I, Flavio Graziano (375-383) e Valentiniano II (375-392), che dovettero contrastare gli usurpatori Magno Massimo e Flavio Eugenio, e sull’Oriente Teodosio I (379-395), già luogotenente di Graziano, che alla morte di Valentiniano II riunificò brevemente l’impero sotto la sua autorità. Con Teodosio, nel 380, il cristianesimo divenne l’unica religione dello stato e iniziarono quindi le persecuzioni antipagane. Quando egli morì, l’impero fu stabilmente diviso in due parti, affidate allora ai suoi due figli, Arcadio, imperatore d’Oriente (che regnò dal 395 al 408), e Onorio, imperatore d’Occidente, che governò dal 395 al 423 e che nel 404 trasferì la capitale a Ravenna.
Il declino finale e il crollo dell’impero d’Occidente (395-476)
Nel corso del V secolo le province dell’impero d’Occidente vennero impoverite dalle tasse imposte per mantenere l’esercito e l’apparato burocratico, oltre che dai saccheggi dovuti a guerre interne e alle invasioni barbariche. Inizialmente, l’idea di conciliarsi gli invasori attribuendo loro cariche militari e amministrative nel quadro dell’esercito e del governo romano ebbe qualche successo. Ma, gradualmente, i popoli che premevano da Oriente cominciarono a mirare alla conquista dei territori d’Occidente e alla fine del IV secolo Alarico I, re dei visigoti, occupò l’Illiria e devastò la Grecia. Nel 410 egli conquistò e mise al sacco Roma, ma morì poco dopo. Il suo successore, Ataulfo (410-415), guidò i visigoti in Gallia e nel 419 il re visigoto Vallia ricevette dall’imperatore Onorio la concessione formale di stabilirsi nella Gallia sudoccidentale dove fondò, a Tolosa, una dinastia visigota. Già a questa data tuttavia la Spagna era di fatto sotto il controllo dei vandali, degli svevi e degli alani, tanto che Onorio fu costretto a riconoscere loro l’autorità su quella regione. Durante il regno del successore di Onorio, Valentiniano III (425-455), Cartagine fu conquistata dai vandali guidati dal re Genserico, mentre la Gallia e l’Italia furono invase da Attila, alla testa degli unni, una popolazione di stirpe mongolica. Attila marciò dapprima sulla Gallia, ma i visigoti, convertitisi al cristianesimo e ormai pressoché romanizzati, gli si opposero, e nel 451 gli unni furono sconfitti ai Campi Catalaunici (presso l’odierna Châlons-sur-Marne) dal generale romano Flavio Ezio. Successivamente Attila invase la Pianura Padana, ma, secondo la tradizione, venne dissuaso a marciare verso Roma da papa Leone Magno; morì poi nel 453. Nel 455 Valentiniano III, ultimo rappresentante della dinastia teodosiana in Occidente, fu assassinato, lo stesso anno in cui fu effettuato un secondo gravissimo sacco di Roma, ad opera dei vandali di Genserico. Tra questa data e il 476 il governo d’Occidente fu affidato a numerosi imperatori “fantoccio”, in balia dei barbari invasori, nessuno dei quali seppe in alcun modo contrastare il disfacimento dell’istituzione imperiale. Essi furono: Petronio (455), Avito (455-456), Maggioriano (457-461), Libio Severo (461-465), Antemio Procopio (467-472), Olibrio (472), Glicerio (473-474), Giulio Nepote (474-475), Romolo Augustolo (475-476). L’ultimo imperatore romano d’Occidente, Romolo Augustolo, fu deposto da Odoacre, capo dei mercenari eruli, che governò l’Italia col semplice titolo di “patrizio” finché non venne sconfitto e ucciso nel 493 dagli ostrogoti di Teodorico, che assunsero il controllo della penisola. Nel resto dell’impero, le popolazioni germaniche andavano costituendo della nuove entità geopolitiche nei territori da loro invasi, che genericamente chiamiamo regni romano-barbarici. Il rifiuto da parte di Odoacre delle titolature ufficiali, che da Augusto in poi avevano rappresentato la composita natura del potere imperiale, era il segno del loro anacronistica vacuità; dal 476 in poi, infatti, l’unica istituzione legittimamente erede del nome romano fu l’impero romano d’Oriente, o impero bizantino, che durò fino al 1453, anno della caduta di Costantinopoli per mano dell’ottomano Maometto II il Conquistatore. Alle cause del crollo dell’impero romano d’Occidente concorse senza dubbio la fine dei valori tradizionali della cultura, della civiltà, della religione romana, soppiantati da altri valori emergenti, primi fra tutti quelli del cristianesimo; a ciò si aggiunse un generale impoverimento di uno stato spossato dalla necessità ormai plurisecolare di difendere militarmente i propri estesi confini. L’Italia, già cuore pulsante dell’impero, aveva progressivamente perso gran parte del proprio patrimonio umano ed economico, complice la durissima politica fiscale del governo centrale, dovuta alle impellenti necessità belliche: le manifestazioni più evidenti di questa condizione furono la crisi demografica, la diffusione del latifondo, la disgregazione delle città. Un terzo importantissimo fattore furono le invasioni barbariche, cui già si è fatto riferimento, che trovarono sovente sul trono imperiale sovrani inadeguati alla gravità del momento. Infine, si può ben dire che il mondo antico, che per convenzione scolastica nel 476 cede il passo al Medioevo, pagò allora il prezzo di aver voluto mantenere a tutti i costi l’intero mondo mediterraneo in un’unica organizzazione unitaria, a garanzia di un lungo periodo di pace, della prosperità economica, della vivacità culturale.
L’eredità di Roma
Numerose generazioni successive hanno coltivato l’idea che la civiltà romana e il suo impero ecumenico siano state un momento fondamentale nella storia dell’umanità, e sono effettivamente moltissimi i debiti verso Roma del mondo medievale, moderno e persino contemporaneo. Va ricordato anzitutto l’ambito politico, poiché il massimo tentativo successivo di ricostituzione di un impero fu il Sacro romano impero, che proprio a quello romano faceva riferimento; e all’antica Roma e ai suoi fasti imperiali si ispirò pure, tra gli altri, Napoleone I Bonaparte. Secondariamente quello giuridico, giacché Roma elaborò un diritto (il diritto romano) divenuto patrimonio di tutto il mondo mediterraneo, medievale e moderno. Quindi quello linguistico, poiché il latino – diffusosi in tutta Europa con l’affermarsi dell’impero – ha originato le moderne lingue romanze. E nondimeno quello artistico e culturale in senso lato, poiché l’arte e la letteratura di Roma furono oggetto di ispirazione per numerosi artisti e letterati di varie epoche, appartenenti a determinati movimenti culturali (ad esempio l’Umanesimo, il Rinascimento, il Neoclassicismo). E addirittura quello religioso, se è vero che la Chiesa cattolica, che pure soffrì numerose persecuzioni da parte delle istituzioni romane imperiali, si giovò della dimensione ecumenica dell’impero nella diffusione del proprio messaggio quando il cristianesimo divenne la religione ufficiale dello stato.