PIRANDELLO LA VISIONE DEL MONDO E LA POETICA
PIRANDELLO LA VISIONE DEL MONDO E LA POETICA
Alla base della visione del mondo pirandelliana vi è una concezione vitalistica che è affine a quella di varie filosofie contemporanee (in particolare quella di Henri Bergson teorico dello “slancio vitale” e quella di Georg Rimmel) : la realtà è tutta “vita”, “perpetuo movimento vitale” inteso come eterno divenire, incessante trasformazione da uno stato all’altro, “flusso” continuo, incandescente, indistinto”, come lo scorrere di un magma vulcanico. Tutto ciò che si stacca da questo “flusso” e assume “forma” distinta e individuale, secondo Pirandello comincia a “morire”.
Così avviene dell’identità personale dell’uomo. In realtà noi non siamo che parte indistinta nell’ “universale eterno fluire” della “vita”. Ma tendiamo a cristallizzarci in forme individuali, a fissarci in una realtà che noi stessi ci diamo, in una personalità che vogliamo coerente e unitaria. In realtà questa personalità è un’illusione e scaturisce solo dal sentimento soggettivo che noi abbiamo del mondo.
Non solo noi stessi, però ci fissiamo in una “forma”, anche gli altri con cui viviamo in società, vedendoci ciascuno secondo la sua prospettiva particolare, ci danno determinate “forme”. Noi crediamo di essere “uno” per noi stessi e per gli altri, mentre siamo tanti individui diversi a seconda della visione di chi ci guarda. Ciascuna di queste “forme” è una costruzione fittizia, una “maschera” che noi stessi ci imponiamo e che ci impone il contesto sociale.
Sotto questa maschera non c’è un volto definito, immutabile, non c’è “nessuno” o meglio vi è un fluire indistinto e incoerente di stati in perenne trasformazione, per cui un istante più tardi non siamo più quelli che eravamo prima. Pirandello fu influenzato dalle teorie dello psicologo Alfred Binet sulle alterazioni della personalità, ed era convinto che nell’uomo coesistano più persone, ignote a lui stesso, che possono emergere inaspettatamente.
Questa frantumazione dell’ “io” in un’insieme infinito e indefinito di stati incoerenti in continua trasformazione, senza un vero centro e senza un punto di riferimento fisso è conforme a quella crisi nella società novecentesca dell’idea di realtà oggettiva, organica, definita, che in ambito psicologico posa le fondamenta sulle nuove teorie dell’inconscio elaborate da Sigmund Freud.
Le modificazioni della società come l’espansione frenetica dell’industria e delle macchine, lo svilupparsi di immensi apparati burocratici, affermarsi del capitale monopolistico, il formarsi di grandi metropoli moderne, contribuiscono all’indebolimento dell’ “io” : l’uomo è ridotto ad una insignificante “rotella” di un meccanismo che lo inghiotte e lo annulla rendendolo anonimo. L’uomo perde quindi la sua indentità e La presa di coscienza di questa inconsistenza dell’ “io” suscita nei personaggi pirandelliani smarrimento e dolore. L’avvertire di non essere “nessuno”, l’impossibilità di possedere un’identità, provoca angoscia e orrore e genera un senso di solitudine tremenda.
L’uomo soffre anche ad essere fissato dagli altri in “forme” in cui non può riconoscersi. L’uomo si esamina dall’esterno e “si vede vivere”, come sdoppiato, nel compiere atti abituali che gli impone la sua “maschera” la sua “parte” e che gli appaiono assurdi e privi di senso.
Queste “forme” sono sentite come una “trappola” come un “carcere” in cui l’individuo si dibatte lottando invano per liberarsi. Nella visione pirandelliana, la società appare come un’ “enorme pupazzata”, che isola l’uomo dalla “vita” lo impoverisce e lo conduce alla morte anche se egli apparentemente continua a vivere.
Alla base di tutta l’opera pirandellina è possibile sorgere il rifiuto delle forme della vita sociale, dei suoi istituti, dei ruoli che essa impone e un bisogno disperato di autenticità, di immediatezza, di spontaneità vitale. Pirandello in fondo in fondo un anarchico, un ribelle insofferente dei legami della società contro cui scaglia la sua critica impietosa e corrosiva. Le convenzioni e le finzioni su cui la vita sociale si fonda, le maschere e le “parti” fittizie che essa impone vengono disgregate e irrise nelle sue opere narrative e teatrali. In particolare l’azione distruttiva di Pirandello è nelle novelle e nei romanzi la condizione piccolo borghese nell’Italia Giolittiana e post-bellica, mentre il teatro predilige ambienti alto borghesi.
L’istituto in cui si manifesta per eccellenza la “trappola” della “forma” che imprigiona l’uomo separandolo dall’immediatezza della vita è la famiglia. Pirandello è acutissimo nel cogliere il carattere opprimente dell’ambiente famigliare, il suo grigiore avvilente, le tensioni segrete, gli odi, i rancori, le ipocrisie, le menzogne.
L’altra “trappola” è quella economica, la condizione sociale e il lavoro, almeno a livello piccolo borghese : i suoi personaggi/eroi sono prigionieri di una condizione misera e stentata, fatta di lavoro monotoni e frustranti, soffocati da una organizzazione gerarchica oppressiva. Da questa “trappola” per Pirandello non c’è via d’uscita : il suo pessimismo è totale e non gli è consentito vedere altre forme di società diverse. Per lui la società in quanto tale è condannabile in quanto negazione del movimento vitale. La sua critica feroce alle istituzioni borghesi resta quindi puramente negativa, non propone alternative, anzi, si accompagna a posizioni fortemente conservatrice se non addirittura reazionarie. Pirandello non indaga sulle cause storiche per cui la società è una “trappola”, la società borghese del suo tempo per lui non è altro il particolare di una condizione metafisica universale.
L’unica via di relativa salvezza che si da ai suoi eroi è la fuga nell’irrazionale , nell’immaginazione che lo porta in un “altrove” fantastico come per l’impiegato Belluca di “il treno ha fischiato” che sogna paesi lontani e attraverso questa evasione può sopportare l’oppressione del suo lavoro di contabile e della sua famiglia, composta di tre ciece, due figlie vedove e sette nipoti da mantenere. Altro strumento di fuga dalla realtà è la “follia” per Pirandello usa come mezzo di contestazione delle forme più fasulle di vita sociale riducendole all’assurdo e rivelandone le inconsistenze.
Il Rifiuto dalla vita sociale nell’opera pirandelliana da luogo alla figura ricorrente del “forestiere della vita” : di colui che ha capito il “gioco”, ha preso coscienza del carattere tutto fittizio del meccanismo sociale e si esclude, si isola, guardando vivere gli altri dall’esterno della vita e dall’alto della sua superiore consapevolezza, rifiutando di assumere la sua “parte”, osservando gli uomini imprigionati dalla “trappola” con un atteggiamento “umoristico” di irrisione e pietà.
E’ quella che Pirandello definisce “filosofia del lontano” : essa consiste nel contemplare la realtà come da un’infinita distanza, in modo da vedere in una prospettiva “straniata” tutto ciò che l’abitudine ci fa considerare “normale” e in modo quindi da coglierne inconsistenza, l’assurdità, la mancanza totale di senso. In questa figura dell’eroe estraniato dalla realtà si proietta la condizione stessa di Pirandello come intellettuale , che rifiuta il ruolo politico attivo perseguito dagli altri intellettuali del primo novecento e nel suo pessimismo radicale si riserva solo un ruolo contemplativo, di lucida coscienza critica del reale.