ENEIDE LIBRO 12 VV 887 952 METRICA

ENEIDE LIBRO 12 VV 887 952 METRICA


Il duello finale (II)

(Eneide, XII, 887-952)

Abbiamo lasciato gli eroi uno di fronte all’altro, nel momento di massima tensione. E’ in gioco il destino del Lazio. Lo scioglimento finale viene però rimandato da Virgilio, che inserisce a questo punto un dialogo fra Giove e Giunone: il padre degli dei intima alla sposa di desistere dai suoi tentativi di salvare Turno; che Enea sia destinato ad essere vincitore è dato non controvertibile. Giunone accetta, se pure ancora a malincuore, di non intervenire più, chiedendo però, in cambio della propria remissività, un compenso: perisca il nome dell’odiata Troia; dopo le nozze che concluderanno la pace, il popolo nuovo viva felice, ma non perda né il nome, né la lingua, né i costumi italici: siano tutti Latini. Giove acconsente, e Giunone si ritira definitivamente. A questo punto il dio invia sulla terra una delle Furie che stanno vicino al suo trono (probabilmente Alletto, già inviata da Giunone ad infiammare di furor Turno e Amata), e questa, come una freccia velenosa che porta morte, vola rapida sulla terra, si trasforma in una civetta e comincia a volare sul viso di Turno e a cozzare con le ali contro il suo scudo. Il giovane viene preso da un torpore insolito (novus) e si sente privo di forze. Giuturna, vedendo l’animale, comprende il segno: si scioglie i capelli, si graffia il petto, maledice la propria immortalità, che non le consente la speranza di poter sfuggire al disumano dolore. La ninfa, accusando sarcasticamente Giove di averla davvero ben ricompensata in cambio del dono della propria verginità, si tuffa nel fiume per non ricomparire più (cfr. V5). Il fuoco della scena, come se non ci fosse stata sospensione dal v. 790, torna sui due eroi, uno di fronte all’altro.

Aeneas instat contra telumque coruscat

ingens arboreum, et saevo sic pectore fatur:

“Quae nunc deinde mora est? aut quid iam, Turne, retractas?

Non cursu, saevis certandum est comminus armis. 890

Verte omnis tete in facies et contrahe quidquid

sive animis sive arte vales; opta ardua pennis

astra sequi clausumque cava te condere terra.”

Ille caput quassans: “Non me tua fervida terrent

dicta, ferox; di me terrent et Iuppiter hostis.” 895

Nec plura effatus saxum circumspicit ingens,

saxum antiquum ingens, campo quod forte iacebat,

limes agro positus litem ut discerneret arvis.

Vix illum lecti bis sex cervice subirent,

qualia nunc hominum producit corpora tellus; 900

ille manu raptum trepida torquebat in hostem

altior insurgens et cursu concitus heros.

Sed neque currentem se nec cognoscit euntem

tollentemve manu saxumve immane moventem;

genua labant, gelidus concrevit frigore sanguis. 905

Tum lapis ipse viri vacuum per inane volutus

nec spatium evasit totum neque pertulit ictum.

Ac velut in somnis, oculos ubi languida pressit

nocte quies, nequiquam avidos extendere cursus

velle videmur et in mediis conatibus aegri 910

succidimus; non lingua valet, non corpore notae

sufficiunt vires nec vox aut verba sequuntur:

sic Turno, quacumque viam virtute petivit,

successum dea dira negat. Tum pectore sensus

vertuntur varii; Rutulos aspectat et urbem 915

cunctaturque metu letumque instare tremescit,

nec quo se eripiat, nec qua vi tendat in hostem,

nec currus usquam videt aurigamve sororem.

Cunctanti telum Aeneas fatale coruscat,

sortitus fortunam oculis, et corpore toto 920

eminus intorquet. Murali concita numquam

tormento sic saxa fremunt nec fulmine tanti

dissultant crepitus. Volat atri turbinis instar

exitium dirum hasta ferens orasque recludit

loricae et clipei extremos septemplicis orbis; 925

per medium stridens transit femur. Incidit ictus

ingens ad terram duplicato poplite Turnus.

Consurgunt gemitu Rutuli totusque remugit

mons circum et vocem late nemora alta remittunt.

Ille humilis supplex oculos dextramque precantem 930

protendens “Equidem merui nec deprecor” inquit;

“utere sorte tua. miseri te si qua parentis

tangere cura potest, oro (fuit et tibi talis

Anchises genitor) Dauni miserere senectae

et me, seu corpus spoliatum lumine mavis, 935

redde meis. Vicisti et victum tendere palmas

Ausonii videre; tua est Lavinia coniunx:

ulterius ne tende odiis.” Stetit acer in armis

Aeneas volvens oculos dextramque repressit;

et iam iamque magis cunctantem flectere sermo 940

coeperat, infelix umero cum apparuit alto

balteus et notis fulserunt cingula bullis

Pallantis pueri, victum quem vulnere Turnus

straverat atque umeris inimicum insigne gerebat.

Ille, oculis postquam saevi monimenta doloris 945

exuviasque hausit, furiis accensus et ira

terribilis: “Tune hinc spoliis indute meorum

eripiare mihi? Pallas te hoc vulnere, Pallas

immolat et poenam scelerato ex sanguine sumit.”

Hoc dicens ferrum adverso sub pectore condit 950

fervidus; ast illi solvuntur frigore membra

vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras.

Enea incombe e palleggia l’asta grande, simile a un albero e parla così, con cuore crudele: “Che indugio, adesso? Perché, Turno, esiti? Non bisogna combattere correndo, ma con armi crudeli, da vicino. Trasformati pure in ogni forma, metti insieme quanto sei capace di fare, vuoi con il coraggio, vuoi con l’inganno; prova a seguire in volo le stelle irraggiungibili, o a nasconderti chiuso nella cava terra”. Quello, scuotendo il capo: “Non mi fanno paura le tue parole di fuoco, feroce: mi fanno paura gli dei, e Giove nemico”.

Senza dire di più, dopo aver rivolto intorno lo sguardo, vede un sasso enorme, un antico enorme sasso, che giaceva per caso nel terreno, pietra di confine posta al campo, per potere discernere le contese relative ai terreni: a stento dodici uomini scelti l’avrebbero sollevato sul collo , corpi d’uomini come quelli che la terra genera ora. Quell’eroe, ergendosi più alto e dato impulso alla corsa, cercava di scagliarlo contro il nemico, dopo averlo sollevato con mano tremante. Ma non riconosce se stesso al correre, all’andare, né al sollevare il sasso né allo smuoverlo; le ginocchia cedono, il sangue gelido di freddo si si rapprende. Allora la pietra gettata dall’eroe, scagliata nel vuoto, non percorse tutto lo spazio e non colpì l’avversario. Come nei sogni, quando di notte una languida quiete preme sugli occhi, ci sembra di volere allungare una corsa bramosa, e, stremati, in mezzo ai tentativi veniamo meno: la lingua non ha vigore, non ritroviamo le forze del corpo che ci sono solite, la voce, le parole non escono; così la dea nefasta nega a Turno il successo, per qualunque strada egli tenti la via con il valore. Allora nel petto si muovono variamente le sensazioni; guarda i Rutuli, e la città, e indugia per il terrore, e trema al pensiero che la morte gli è addosso, e non vede né dove potersi sottrarre (alla morte), né con quale forza scagliarsi contro il nemico, né carri, da nessuna parte, né la sorella auriga. Enea palleggia, verso di lui che sta esitando, l’asta fatale, dopo essersi procurato la fortuna con gli occhi, e con tutto il corpo la scaglia da lontano. Pietre, scagliate da una macchina da guerra per abbattere le mura, non sibilano mai così, né così violenti balzano i tuoni dal fulmine. L’asta vola come un nero turbine, portando funesta distruzione e squarcia il bordo della corazza e dello scudo a sette strati; stridendo trapassa a mezzo la coscia. Il grande Turno, colpito, cade a terra, piegate le ginocchia. Con un grido i Rutuli si alzano tutti insieme e tutto il monte intorno muggisce e i profondi boschi fanno eco per largo tratto. Lui, a terra, supplice, levando gli occhi e la destra in preghiera, disse: “certo. L’ho meritato e non ti imploro; usa il tuo destino. Ti prego, se una qualche preoccupazione per un padre può toccarti, abbi pietà delle vecchiaia di Dauno (anche tu hai avuto un padre così, Anchise) e restituisci ai miei me o, se preferisci, il mio corpo spogliato della vita: hai vinto, e gli Ausoni mi hanno visto vinto, tendere le mani; Lavinia è tua moglie. Basta con l’odio”. Enea si fermò, infiammato in armi, girando gli occhi e trattenne la mano. E ormai, ormai le parole di Turno cominciavano a piegare lui che esitava, quand’ecco che apparve, in cima alla spalla di Turno, il triste balteo del giovane Pallante, e le cinghie risplendettero nelle borchie ben note, Pallante che Turno aveva abbattuto, vinto dalla ferita, e ora portava sulle spalle il trofeo nemico. Quello, dopo che bevve con gli occhi le spoglie, ricordo di un dolore crudele, acceso di furore e terribile d’ira, disse: tu, vestito delle spoglie dei miei, dovresti sfuggirmi ? E’ Pallante a immolarti con questa ferita, Pallante a vendicare il sangue scaturito da una violenza scellerata”. Dicendo questo affonda, ribollente d’ira, la spada proprio nel petto; a quello invece è nel freddo che si sciolgono le membra, e la vita, con un gemito, fugge sdegnosa sotto le ombre.

I protagonisti

Al momento dell’epilogo, Virgilio ci presenta i due contendenti sottolineandone lo statuto di eroi epici: la terra non genera più uomini di tale caratura. Il testo è disseminato di richiami all’enormità dei personaggi e degli oggetti da loro maneggiati: ingens, arboreum, è il giavellotto di Enea (v.888); ingens, tanto che a fatica lo solleverebbero dodici uomini, è il sasso scagliato da Turno (v.896-7), così come ingens è lo stesso Turno (v.927), Enea è implicitamente paragonato ad una macchina da guerra (v.921-922). Siamo in una dimensione mitica, di regressione ad uno scontro di forze titaniche.

Tuttavia Turno non è più se stesso: la consapevolezza del proprio destino di morte, rappresentata, secondo lo statuto dell’oggettività epica, dall’intervento della Furia, lo debilita e lo fiacca: il paragone con l’impotenza talora sperimentata in sogno, di matrice omerica (vedi scheda), diventa la dimensione stessa del racconto, che si fa onirico, rallentato (sette versi per descrivere il lancio del sasso), claustrofobico.

Ma è difficile riconoscere anche Enea, abituati come siamo a conoscerlo come pius: l’aggettivazione insiste sulla sfera della violenza e della crudeltà (e non solo nelle parole di Turno, che definisce fervida i dicta e ferox l’avversario ai vv. 894-895): saevo pectore (v.898), acer (v. 938), furiis accensus et ira terribilis (vv.946-947), fervidus (v.951).


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ENEIDE LIBRO 12 VERSI 887 952 PARAFRASI

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Il duello finale (II)

(Eneide, XII, 887-952)

Abbiamo lasciato gli eroi uno di fronte all’altro, nel momento di massima tensione. E’ in gioco il destino del Lazio. Lo scioglimento finale viene però rimandato da Virgilio, che inserisce a questo punto un dialogo fra Giove e Giunone: il padre degli dei intima alla sposa di desistere dai suoi tentativi di salvare Turno; che Enea sia destinato ad essere vincitore è dato non controvertibile. Giunone accetta, se pure ancora a malincuore, di non intervenire più, chiedendo però, in cambio della propria remissività, un compenso: perisca il nome dell’odiata Troia; dopo le nozze che concluderanno la pace, il popolo nuovo viva felice, ma non perda né il nome, né la lingua, né i costumi italici: siano tutti Latini. Giove acconsente, e Giunone si ritira definitivamente. A questo punto il dio invia sulla terra una delle Furie che stanno vicino al suo trono (probabilmente Alletto, già inviata da Giunone ad infiammare di furor Turno e Amata), e questa, come una freccia velenosa che porta morte, vola rapida sulla terra, si trasforma in una civetta e comincia a volare sul viso di Turno e a cozzare con le ali contro il suo scudo. Il giovane viene preso da un torpore insolito (novus) e si sente privo di forze. Giuturna, vedendo l’animale, comprende il segno: si scioglie i capelli, si graffia il petto, maledice la propria immortalità, che non le consente la speranza di poter sfuggire al disumano dolore. La ninfa, accusando sarcasticamente Giove di averla davvero ben ricompensata in cambio del dono della propria verginità, si tuffa nel fiume per non ricomparire più (cfr. V5). Il fuoco della scena, come se non ci fosse stata sospensione dal v. 790, torna sui due eroi, uno di fronte all’altro.

Aeneas instat contra telumque coruscat

ingens arboreum, et saevo sic pectore fatur:

“Quae nunc deinde mora est? aut quid iam, Turne, retractas?

Non cursu, saevis certandum est comminus armis. 890

Verte omnis tete in facies et contrahe quidquid

sive animis sive arte vales; opta ardua pennis

astra sequi clausumque cava te condere terra.”

Ille caput quassans: “Non me tua fervida terrent

dicta, ferox; di me terrent et Iuppiter hostis.” 895

Nec plura effatus saxum circumspicit ingens,

saxum antiquum ingens, campo quod forte iacebat,

limes agro positus litem ut discerneret arvis.

Vix illum lecti bis sex cervice subirent,

qualia nunc hominum producit corpora tellus; 900

ille manu raptum trepida torquebat in hostem

altior insurgens et cursu concitus heros.

Sed neque currentem se nec cognoscit euntem

tollentemve manu saxumve immane moventem;

genua labant, gelidus concrevit frigore sanguis. 905

Tum lapis ipse viri vacuum per inane volutus

nec spatium evasit totum neque pertulit ictum.

Ac velut in somnis, oculos ubi languida pressit

nocte quies, nequiquam avidos extendere cursus

velle videmur et in mediis conatibus aegri 910

succidimus; non lingua valet, non corpore notae

sufficiunt vires nec vox aut verba sequuntur:

sic Turno, quacumque viam virtute petivit,

successum dea dira negat. Tum pectore sensus

vertuntur varii; Rutulos aspectat et urbem 915

cunctaturque metu letumque instare tremescit,

nec quo se eripiat, nec qua vi tendat in hostem,

nec currus usquam videt aurigamve sororem.

Cunctanti telum Aeneas fatale coruscat,

sortitus fortunam oculis, et corpore toto 920

eminus intorquet. Murali concita numquam

tormento sic saxa fremunt nec fulmine tanti

dissultant crepitus. Volat atri turbinis instar

exitium dirum hasta ferens orasque recludit

loricae et clipei extremos septemplicis orbis; 925

per medium stridens transit femur. Incidit ictus

ingens ad terram duplicato poplite Turnus.

Consurgunt gemitu Rutuli totusque remugit

mons circum et vocem late nemora alta remittunt.

Ille humilis supplex oculos dextramque precantem 930

protendens “Equidem merui nec deprecor” inquit;

“utere sorte tua. miseri te si qua parentis

tangere cura potest, oro (fuit et tibi talis

Anchises genitor) Dauni miserere senectae

et me, seu corpus spoliatum lumine mavis, 935

redde meis. Vicisti et victum tendere palmas

Ausonii videre; tua est Lavinia coniunx:

ulterius ne tende odiis.” Stetit acer in armis

Aeneas volvens oculos dextramque repressit;

et iam iamque magis cunctantem flectere sermo 940

coeperat, infelix umero cum apparuit alto

balteus et notis fulserunt cingula bullis

Pallantis pueri, victum quem vulnere Turnus

straverat atque umeris inimicum insigne gerebat.

Ille, oculis postquam saevi monimenta doloris 945

exuviasque hausit, furiis accensus et ira

terribilis: “Tune hinc spoliis indute meorum

eripiare mihi? Pallas te hoc vulnere, Pallas

immolat et poenam scelerato ex sanguine sumit.”

Hoc dicens ferrum adverso sub pectore condit 950

fervidus; ast illi solvuntur frigore membra

vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras.

Enea incombe e palleggia l’asta grande, simile a un albero e parla così, con cuore crudele: “Che indugio, adesso? Perché, Turno, esiti? Non bisogna combattere correndo, ma con armi crudeli, da vicino. Trasformati pure in ogni forma, metti insieme quanto sei capace di fare, vuoi con il coraggio, vuoi con l’inganno; prova a seguire in volo le stelle irraggiungibili, o a nasconderti chiuso nella cava terra”. Quello, scuotendo il capo: “Non mi fanno paura le tue parole di fuoco, feroce: mi fanno paura gli dei, e Giove nemico”.

Senza dire di più, dopo aver rivolto intorno lo sguardo, vede un sasso enorme, un antico enorme sasso, che giaceva per caso nel terreno, pietra di confine posta al campo, per potere discernere le contese relative ai terreni: a stento dodici uomini scelti l’avrebbero sollevato sul collo , corpi d’uomini come quelli che la terra genera ora. Quell’eroe, ergendosi più alto e dato impulso alla corsa, cercava di scagliarlo contro il nemico, dopo averlo sollevato con mano tremante. Ma non riconosce se stesso al correre, all’andare, né al sollevare il sasso né allo smuoverlo; le ginocchia cedono, il sangue gelido di freddo si si rapprende. Allora la pietra gettata dall’eroe, scagliata nel vuoto, non percorse tutto lo spazio e non colpì l’avversario. Come nei sogni, quando di notte una languida quiete preme sugli occhi, ci sembra di volere allungare una corsa bramosa, e, stremati, in mezzo ai tentativi veniamo meno: la lingua non ha vigore, non ritroviamo le forze del corpo che ci sono solite, la voce, le parole non escono; così la dea nefasta nega a Turno il successo, per qualunque strada egli tenti la via con il valore. Allora nel petto si muovono variamente le sensazioni; guarda i Rutuli, e la città, e indugia per il terrore, e trema al pensiero che la morte gli è addosso, e non vede né dove potersi sottrarre (alla morte), né con quale forza scagliarsi contro il nemico, né carri, da nessuna parte, né la sorella auriga. Enea palleggia, verso di lui che sta esitando, l’asta fatale, dopo essersi procurato la fortuna con gli occhi, e con tutto il corpo la scaglia da lontano. Pietre, scagliate da una macchina da guerra per abbattere le mura, non sibilano mai così, né così violenti balzano i tuoni dal fulmine. L’asta vola come un nero turbine, portando funesta distruzione e squarcia il bordo della corazza e dello scudo a sette strati; stridendo trapassa a mezzo la coscia. Il grande Turno, colpito, cade a terra, piegate le ginocchia. Con un grido i Rutuli si alzano tutti insieme e tutto il monte intorno muggisce e i profondi boschi fanno eco per largo tratto. Lui, a terra, supplice, levando gli occhi e la destra in preghiera, disse: “certo. L’ho meritato e non ti imploro; usa il tuo destino. Ti prego, se una qualche preoccupazione per un padre può toccarti, abbi pietà delle vecchiaia di Dauno (anche tu hai avuto un padre così, Anchise) e restituisci ai miei me o, se preferisci, il mio corpo spogliato della vita: hai vinto, e gli Ausoni mi hanno visto vinto, tendere le mani; Lavinia è tua moglie. Basta con l’odio”. Enea si fermò, infiammato in armi, girando gli occhi e trattenne la mano. E ormai, ormai le parole di Turno cominciavano a piegare lui che esitava, quand’ecco che apparve, in cima alla spalla di Turno, il triste balteo del giovane Pallante, e le cinghie risplendettero nelle borchie ben note, Pallante che Turno aveva abbattuto, vinto dalla ferita, e ora portava sulle spalle il trofeo nemico. Quello, dopo che bevve con gli occhi le spoglie, ricordo di un dolore crudele, acceso di furore e terribile d’ira, disse: tu, vestito delle spoglie dei miei, dovresti sfuggirmi ? E’ Pallante a immolarti con questa ferita, Pallante a vendicare il sangue scaturito da una violenza scellerata”. Dicendo questo affonda, ribollente d’ira, la spada proprio nel petto; a quello invece è nel freddo che si sciolgono le membra, e la vita, con un gemito, fugge sdegnosa sotto le ombre.

I protagonisti

Al momento dell’epilogo, Virgilio ci presenta i due contendenti sottolineandone lo statuto di eroi epici: la terra non genera più uomini di tale caratura. Il testo è disseminato di richiami all’enormità dei personaggi e degli oggetti da loro maneggiati: ingens, arboreum, è il giavellotto di Enea (v.888); ingens, tanto che a fatica lo solleverebbero dodici uomini, è il sasso scagliato da Turno (v.896-7), così come ingens è lo stesso Turno (v.927), Enea è implicitamente paragonato ad una macchina da guerra (v.921-922). Siamo in una dimensione mitica, di regressione ad uno scontro di forze titaniche.

Tuttavia Turno non è più se stesso: la consapevolezza del proprio destino di morte, rappresentata, secondo lo statuto dell’oggettività epica, dall’intervento della Furia, lo debilita e lo fiacca: il paragone con l’impotenza talora sperimentata in sogno, di matrice omerica (vedi scheda), diventa la dimensione stessa del racconto, che si fa onirico, rallentato (sette versi per descrivere il lancio del sasso), claustrofobico.

Ma è difficile riconoscere anche Enea, abituati come siamo a conoscerlo come pius: l’aggettivazione insiste sulla sfera della violenza e della crudeltà (e non solo nelle parole di Turno, che definisce fervida i dicta e ferox l’avversario ai vv. 894-895): saevo pectore (v.898), acer (v. 938), furiis accensus et ira terribilis (vv.946-947), fervidus (v.951).


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