VITA DI CESARE PAVESE
VITA DI CESARE PAVESE
VITA DI CESARE PAVESE
Cesare Pavese nacque a S. Stefano Belbo, un paese delle Langhe, nel 1908. Il padre, cancelliere al tribunale di Torino, aveva in quelle Langhe un podere, in cui Cesare da ragazzo trascorreva le vacanze estive. A quei luoghi dell’infanzia, mitizzati nei simboli di una memoria indelebile, egli rimase sempre legato anche negli anni della maturità; anzi essi avranno un valore determinante nella sua vita e nella sua poetica. Questa felicità del ragazzo dura fino al 1916; poi il podere e la casetta vennero venduti in seguito alla morte del padre.
A Torino Cesare compì i primi studi ed ebbe come maestro Augusto Monti, che poi doveva essere un punto di riferimento dei giovani liberali torinesi e maestro eccezionale di tutta una generazione di patrioti.
La sua vocazione letteraria si manifestò assai presto e con una serietà non comune in un giovane. Né va dimenticato che egli si forma in quella cultura piemontese che era all’avanguardia con Gobetti, Gramsci e poi Ginzburg. Il 20 giugno 1930 si laureò in Lettere discutendo con Ferdinando Neri una tesi Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman, che costituì l’avvio di una lunga attività di americanista e, anche il modello iniziale delle sue prove poetiche. Infatti egli inizia dal novembre di quello stesso anno la sua collaborazione alla “ Cultura ”, diretta allora da Cajumi, con un saggio critico su S. Lewis, a cui seguiranno altri su Anderson, Lee Masters, Melville, Dos Passos, G. Stein, Whitman, Faulkner. Questi saggi furono seguiti presto da magistrali traduzioni dall’americano e dall’inglese.
Negli scrittori americani egli cercava nuovi modelli realistici, che gli confermassero e chiarissero la sua insofferenza contro le forme estetiche allora dominanti in Italia, ermetiche e rondiste. In un certo senso egli, scoprendo la nuova letteratura americana cercava di scoprire se stesso e iniziava una rottura profonda contro la cultura ufficiale italiana; così, anche senza volerlo, si schierava con quella cultura politica della Resistenza che sarà convogliata nel Partito Comunista.
Ma a questo contribuiscono anche alcune vicende familiari; gli muore la madre nel 1931; ed egli continua a vivere con la famiglia della sorella Maria a Torino, ma chiudendosi sempre più in se stesso. Non essendo iscritto al partito fascista, si doveva adattare ad insegnare per poco in Istituti privati e serali. L’apertura della casa editrice Einaudi lo vede tra i primi collaboratori insieme a Monti, Ginzburg, Geymonat, Mila, Antonicelli, Cajumi e Levi. Nel 1934, essendo stato arrestato Ginzburg per motivi politici, lo sostituisce nella direzione della “Cultura”; di questo periodo è il suo amore per una professoressa di matematica, donna dura e volitiva, impegnata nel Partito Comunista clandestino. Fu proprio a causa di questo amore che subì una delle più violente frustrazioni della sua vita. Egli aveva accettato di ricevere alcune lettere politiche, dirette alla sua donna; ma la polizia irruppe nella sua abitazione arrestandolo. Processato e condannato, fu inviato al confino a Brancaleone Calabro per tre anni nel 1935.
La rivista veniva soppressa e l’allontanamento da Torino non contribuì certamente a migliorare la sua indole introversa e meditativa.
Dopo un anno di confino, gli vennero condonati gli altri due e poté ritornare nella sua terra e nella sua città, ma la professoressa, da lui amata si era sposata già da un anno con un altro. Comincia di qui il suo trauma maggiore, la sua inadattabilità alla vita; si tratta di una grave crisi, che per anni lo terrà sospeso in una tormentosa ossessione di suicidio. Così si chiuse in un isolamento disperato, trovando rifugio soltanto nella letteratura e riprendendo a lavorare instancabilmente. Le testimonianze di questo travaglio interiore si trovano in un diario, Il mestiere di vivere, che sarà pubblicato nel 1952.
Nel 1936, al ritorno dal confino, pubblica la sua prima raccolta di poesie, Lavorare stanca per le edizioni di “ Solaria ”. Saranno pochi ad apprezzarlo, anche perché pochi lo capiranno, essendo la sua raccolta un libro del tutto nuovo, condotto con una tecnica prosastica sconosciuta in Italia. Intanto era ritornato presso la Casa Einaudi, dove riprende con lena e successo il lavoro di traduttore. Nel 1941 egli pubblicava il romanzo Paesi tuoi, scritto nel 1939, che ebbe un certo successo di critica.
Nel 1940 comincia la guerra fascista; egli viene chiamato alle armi, ma per una grave forma di asma viene congedato. Nel 1942 pubblica La spiaggia, un romanzo di cui presto si vergognerà perché non impegnato. Nel 1943 è a Roma, dove la Casa Einaudi ha aperto una succursale; ma l’armistizio dell’8 settembre 1943 lo coglie a Torino. In seguito allo sbandamento dell’esercito e alla conquista dei tedeschi, egli si rifugiava con la famiglia della sorella a Serralunga di Crea nel Monferrato. Quelle colline, ricordandogli le sue Langhe, gli ripresentavano i miti della sua giovinezza.
Il 1944 è per lui un anno di grazia e di riposo, dedicato alla meditazione, che neppure la presenza dei partigiani riesce a turbare. Insegna in un istituto di Padri Somaschi, a Casale, e li frequenta con assiduità discutendo con loro. Pare che sia alla soglia di una conversione religiosa. Ma dopo la Liberazione è di nuovo a Torino, che trova molto cambiata, si iscrive, senza convinzione, al Partito Comunista e collabora al giornale “L’Unità”. Intanto il romanzo Il compagno (1947) vince il premio Salerno consacrandolo come autore impegnato in un nuovo realismo letterario. Nel 1950 ottenne il premio Strega per il trittico de La bella estate.
Conosce una giovane attrice americana, Constance Dawling, se ne innamora, scrive per lei soggetti cinematografici, le dedica l’ultimo suo romanzo La luna e i falò. Ma la bella attrice partirà per l’America, lasciandolo solo; il 27 giugno del 1950 Pavese si uccide in una stanza di un albergo di piazza Carlo Felice a Torino inghiottendo numerose cartine di sonnifero. Sul frontespizio di una sua opera posata sul tavolino da notte, si potevano leggere le sue ultime parole, le stesse di Majakovskij: “Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate molti pettegolezzi.” Cesare Pavese
Le componenti dell’esperienza umana e poetica di Pavese emergono già, nel loro vario intersecarsi, da Il mestiere di vivere (Diario, 1935 1950): «un diario sui generis che ha tutta la dignità e l’importanza di un documento letterario prima che autobiografico». Esse sono fondamentalmente tre: la coscienza che sempre ebbe lo scrittore della propria inadeguatezza a «vivere», ad inserirsi nel flusso della storia superando la vocazione all’isolamento e il pericolo del solipsismo decadente; l’amorosa fatica del suo «mestiere di poeta», connessa all’esigenza di definire una poetica che traducesse le istanze morali, oltre che estetiche del suo tempo; il tema dell’amore, che egli sentì come esperienza centrale e totale della vita, romanticamente legata a quella della morte (e il motivo del suicidio per amore ritorna sempre più insistente nelle note degli ultimi cinque anni, fino all’ultima secca annotazione: «Non parole. Un gesto. Non scriverò più»: 18 agosto 1950).
Esperienza umana e poetica, si è detto: e in effetti la sua opera e la sua vita ci appaiono saldate da una strenua e tragica coerenza, al punto che, alla pari del Diario, ciascun romanzo può considerarsi autobiografico.
Nel 1936 Pavese pubblicò la sua prima raccolta di poesie: Lavorare stanca. Fu un insuccesso, quasi scontato, in tempi in cui l’unica poesia possibile sembrava essere quella rarefatta e dolorosa dei poeti «ermetici». Lavorare stanca si presentava invece con caratteri prepotentemente originali, sia sotto il profilo stilistico, sia sotto quello dei contenuti.
1) Sotto il profilo stilistico proponeva il nuovo modulo della poesia racconto, prosastica, discorsiva e costituiva l’avvio ad una direzione realistica, antitetica a quella degli ermetici (in una direzione simile si stava muovendo Saba, che però ricuperava in parte certa tradizione tardo ottocentesca e crepuscolare: mentre Pavese volgeva l’occhio piuttosto a recenti autori americani di cui fu assiduo traduttore). Di questa nuova poesia pavesiana avrebbe tenuto conto tanta poesia «epico realistica» del secondo dopoguerra (Pasolini, Fortini , ecc.).
2)I temi anticipavano quelli della successiva opera narrativa, e sono in fondo riducibili ad uno, cui tutti gli altri si ricollegano: il dissidio insanabile tra mito e storia, mito e realtà: realtà di cui lo scrittore vede il paradigma nella moderna città industriale (Torino), coi suoi viluppi di ipocrisie, di solitudine, di angoscia, con le sue uniche squallide evasioni: la violenza e il sesso (“Val la pena esser solo, per essere sempre più solo? / Solamente girarle le piazze e le strade / sono vuote»); mito, che per Pavese si identifica con l’infanzia, col paese natale (le Langhe), con l’innocenza che l’umanità ha perduto nel corso della storia, che ogni uomo perde nel corso della vita: in una parola, con la Natura. Questa è idillio di teneri cieli, di vigne e cascinali e torrenti; ma è anche la campagna come fatica e abbrutimento (Lavorare stanca), come “selvaggio” “incontro del rustico e del primitivo” (e questo concetto del «selvaggio» Pavese andò via via approfondendo sulla scorta delle sue letture vichiane).
Dicotomie pavesiane, l’espatriato
Il dissidio mito storia, presente in Lavorare stanca, si declina dunque in altre fondamentali «dicotomie» (campagna città, infanzia maturità), che sarebbero stati ricorrenti nodi dolorosi dei mondo pavesiano Non a caso una figura tipica del mondo di Pavese è quella dell’espatriato che, legato affettivamente all’infanzia e al paese natale, la vita ha sradicato e gettato lontano. Questo personaggio, che già compare nella prima lirica, I mari del sud, tenta spesso, col ritorno al paese, il ricupero di una felicità perduta, la vittoria sull’incomunicabilità, sulla condizione alienata, sulla vocazione al suicidio che intossicano la vita cittadina: ma il ritorno è amaro (questo tema è presente dal primo romanzo, Paesi tuoi, all’ultimo La luna e i falò), l’infanzia è irrecuperabile e la solitudine è tragica fatalità della vita.
La poetica
La riflessione, di matrice vichiana, sul mito riflessione che, stimolata dagli studi psicanalitici e di etnologia, occupò un lungo periodo dell’attività intellettuale di Pavese presiede anche alla concezione della poesia, quale è espressa ne Il mestiere di poeta, nelle prose narrative di Feria d’agosto, nei Dialoghi con Leucò.
1)”Miti” sono gli “universali fantastici” che germinano in noi dall’inconscio e che risalgono alla prima infanzia, quando il fanciullo entra in contatto con la natura; essi sono legati ai “luoghi unici», quei luoghi dell’infanzia cioè che il ricordo assolutizza e colloca in una dimensione fuori dello spazio e del tempo, trasfigurandoli così in simboli dell’umana vicenda. Luoghi mitici sono il mare, la collina, la vigna, la terra col suo brulicare di vitalità, ma anche il «selvaggio» (cioè la natura come esplosione di forze primordiali e ferine), il sangue, la morte (che sono poi i temi dell’opera di Pavese).
2) Il mito non è solo oblio e consolazione, ma anche tramite dell’intelligenza di una più vasta realtà: al mito la poesia deve dare forma, facendo rivivere «lo stato di aurorale verginità della natura», al fine di rendere gli uomini consapevoli «del proprio esistere e del proprio destino». Il bagaglio di simboli cui attinge il poeta è «sovranamente umano, necessario a serbare la coscienza di sé e insomma a vivere».
Vivere significa però non chiudersi in un prezioso isolamento d’intellettuale, bensì impegnarsi nella ricerca di valori e sentimenti comuni a tutti gli uomini. Per questo nell’opera di Pavese l’indagine sulla dimensione simbolica del reale non è mai disgiunta da quella condotta sul vivo delle pene e degli affetti, colti incisivamente talvolta anche nella loro quotidianità.
A proposito dei compenetrarsi dei due piani del simbolo e della realtà possiamo citare, tra i tanti esempi, la vicenda autobiografica del Carcere. Il romanzo, che descrive il confino di un intellettuale, Stefano, relegato in un paese del Mezzogiorno per motivi politici, esprime emblematicamente la solitudine dell’uomo (e di Pavese stesso), impotente ma anche privo di coraggio di fronte al suo destino d’incomunicabilità e d’angoscia («Starsene soli, come dalla finestra di un carcere … “) al tempo stesso però riesce a ricreare attraverso l’attenzione agli aspetti più umili della vita, il vissuto quotidiano.
Il diavolo sulle colline .
Di contro alla compattezza monolitica di Tre donne sole, Il diavolo sulle colline si distingue per la trama frantumata, per gli incroci casuali e imprevedibili, addirittura inverosimili, delle storie dei personaggi. Nel consueto scenario torinese, un gruppo di giovani conduce vita spensierata e avventurosa, libera e dimentica dell’angoscia del tempo. Ma durante uno dei vagabondaggi per la collina, viene a contatto con la realtà tragica del male, attraverso l’incontro con Poli, ricco borghese tisico e destinato in breve a morte sicura che, non trovando il coraggio di suicidarsi, si distrugge a poco a poco con la droga, in cerca di una libertà demoniaca e dionisiaca. Turbati dall’esperienza, i giovani cercano di recuperare l’armonia perduta recandosi nelle Langhe, nella casa di campagna di uno di loro, Oreste: la ricerca di un contatto primordiale con la natura è evidente nelle scene in cui fanno il bagno nudi nello stagno o sono colti da un improvviso e violentissimo temporale. Anche qui, però, si insinua il dolore della solitudine e dei rapporti umani impossibili, attraverso l’arrivo casuale dello stesso Poli con la moglie: Oreste, infatti, si innamora della donna, che pur ricambiando il suo sentimento lo respinge, scegliendo di dedicarsi interamente alla cura del marito, fino a che questi morrà.
Rispetto agli altri romanzi pavesiani, sembra qui aprirsi uno spazio, seppur circoscritto, di speranza, dovuto in parte alla rappresentazione mitizzata della campagna come luogo di salvezza, libertà, autenticità, in parte alla rassegnazione e al senso del dovere con cui Oreste e la moglie di Poli accettano la loro condizione infelice. La figura di Poli, invece, conferma quel l’impossibilità di redenzione per la borghesia cittadina già affermata nel precedente Tre donne sole.
«La casa in collina» (1948)
La necessità di non rinchiudersi nel mito di non fare cioè del mito un alibi per sfuggire alle responsabilità della vita- è rappresentata esemplarmente da “La Casa in collina” (scritta nel 1948 e pubblicata insieme col Carcere in un unico volume, Prima che il gallo canti).
Sfondo del racconto, condotto in chiave autobiografica, è la Torino dei 1943, quando la caduta del Fascismo e il maturare della fase più cruenta della guerra, tragicamente complicata dalla lotta civile, impongono precise scelte. Ciononostante Corrado, un insegnante sfollato su una vicina collina, s’illude in un primo tempo di evadere dalle proprie responsabilità. La campagna, con la voce amica dei suoi boschi e dei suoi torrenti, sembra quasi incontaminata dalla guerra, e quasi per curiosità Corrado si trova a frequentare, in un vecchio cascinale, un gruppo di giovani tra cui ritrova Cate, un’operaia che lo ha amato e del cui figlio, Dino, egli è forse il padre. I giovani sono in realtà partigiani, e il loro esempio stimola in Corrado il formarsi di una coscienza civile; quando Cate gli chiede: «Non sei mica fascista?». «Lo siamo tutti, cara Cate» risponde «Se non lo fossimo dovremmo rivoltarci, tirare le bombe, rischiare la pelle. Chi lascia fare e s’accontenta, è già un fascista» Ma, nell’impatto con la realtà, il tentativo d’impegno di Corrado si rivela puramente velleitario: quando i tedeschi operano i rastrellamenti nella zona, egli, bloccato dalla paura e dalla nausea, pensa solo a mettersi in salvo, incurante della sorte degli amici: «A Cate, a Nando, a tutti gli altri non osavo pensare, quasi per darmi un attestato d’innocenza. A un certo punto mi scrollai, mi feci schifo» Si rifugia in un convento con Dino, ma è una pace breve. Gli eventi incalzano dopo l’8 settembre, e anche il convento non è più un rifugio sicuro. Torna alla casa in collina, ma gli amici sono ormai dispersi; e allora decide di prendere la via delle Langhe, per tornare al paese natale, alla mitica infanzia.
E un ritorno tragico, la cui strada è disseminata di roghi e di sangue. I tedeschi hanno saccheggiato le stalle, incendiato i fienili; Corrado vede i corpi dei fascisti uccisi dai partigiani in un’imboscata, imbrattati di sangue, «contorti, accasciati, bocconi, di un livido sporco». E finalmente è a casa. A novembre, gli eserciti tornano a trincerarsi: «tolto il fastidio e la vergogna, niente accade». Eppure proprio ora, in questo vuoto inerte, in questa vita che è «davvero la vita dei boschi che si sogna da ragazzi», Corrado sa di avere perduto definitivamente la sua infanzia, «l’innocenza dei ragazzi, un’autentica, non mentita incoscienza»: quella che lo aveva finora fatto vivere «in un solo lungo isolamento», che lo aveva spinto sempre a fuggire: «Che c’è di comune tra me e quest’uomo che è sfuggito alle bombe, sfuggito ai tedeschi, sfuggito ai rimorsi e al dolore?». Ora egli ha visto i morti, e sa che la guerra non è gioco, e che riguarda tutti: «E verrà il giorno che nessuno sarà fuori dalla guerra: né i vigliacchi, né i tristi, né i soli”
La conclusione della Casa in collina sembrava prospettare il superamento –o, almeno, la volontà di superamento della tentazione decadente del solipsismo: ma si trattava, per Pavese Corrado, di un effimero approdo: racconti compresi ne La bella estate (La bella estate, Il diavolo sulle colline, Tre donne sole), lo scandaglio della vita cittadina un ingranaggio che non lascia spazio vitale ripropone i temi dell’incomunicabilità, dell’angoscia, del suicidio come mezzo per «togliersi dal baccano». L’oscillare di Pavese tra delusione e speranza, il tormentato arrovellarsi alla ricerca di uno sbocco (anche attraverso la militanza politica) assumono il definitivo orientamento di un pessimismo radicale e ormai irreversibile.
«La luna e i falò» (1950)
L’ultima opera, La luna e i falò, riassorbe e rielabora tutte le precedenti esperienze letterarie e umane dell’autore, in una sintesi spietata e lucidissima, che aduna tutti i simboli e i temi pavesiani: l’esilio e l’impossibile ritorno, l’infanzia e la maturità, il mito e la storia, la morte e il tempo. Il convergere dei piani realtà mito è ottenuto attraverso la mediazione della memoria che trasfigura i dati naturalistici, facendone simboli dell’assoluto.
Anguilla, una tipica figura pavesiana di espatriato, è stato in America, dove «un ubriaco lo caricavano di botte, lo mettevano dentro, lo lasciavano per morto»; ed ha covato a lungo dentro di sé il ricordo degli amici d’infanzia, dei cascinali, delle vendemmie, dei grandi falò che si accendevano, secondo un antico rituale agreste, sulle colline delle Langhe per «svegliare la terra», oppure la notte di San Giovanni, in segno di festa.
Anguilla è tornato al paese, ma sulla collina di Gaminella, che lo ha visto ragazzo, tutto è cambiato la gente, le case, perfino gli alberi anche se tutto sembra uguale: «Nemmeno una vite era rimasta delle vecchie, nemmeno una bestia; adesso i prati erano stoppie e le stoppie filari, [ … ]; le radici franate, travolte in Belbo; eppure a guardarsi intorno, il grosso fianco di Gaminella, le stradette lontane sulle colline del Salto, le vie, i pozzi, le voci, le zappe, tutto era sempre uguale, tutto aveva quell’odore, quel gusto, quel colore di allora» E passata la guerra: tanti sono spariti, morti o dispersi («Ero tornato, ero sbucato, avevo fatto fortuna [ … ] ma le facce, le voci e le mani che dovevano toccarmi non c’erano più»): soprattutto sono spariti tra le macerie il passato, il tempo, le memorie («Di tutto quanto, della Mora, di quella vita di noialtri, che cosa resta? [ … ] Più ancora che al danno materiale e ai morti, dispiace pensare a tanti anni vissuti, tante memorie, spariti cosi in una notte senza lasciare un segno. 0 no? Magari è meglio così, meglio che tutto se ne vada in un falò d’erbe secche e che la gente ricominci”
Un falò d’erbe secche: sono altri ora, i falò, da quelli festosi che s’accendevano un tempo sulle colline: un segno nerastro è rimasto sul terreno dove i partigiani hanno bruciato come spia Santina, la più piccola delle tre figlie del «padrone», che Anguilla ricordava bambine; e un mostruoso incendio, appiccato dal contadino Valino, che la miseria e la fatica hanno reso pazzo, divorerà il casotto della Gaminella, dove Anguilla era stato allevato.
Al fondo del romanzo, l’ineludibile legge di morte che governa il destino di ogni uomo: di lì a pochi mesi il “vizio assurdo», (la vocazione al suicidio) si sarebbe configurato per Pavese come unico «sbocco» e ne avrebbe troncato prematuramente l’esistenza.
Il titolo La luna e i falò allude allo svolgersi ciclico del tempo, segnato dalle lunazioni, e al ritmo di generazione, crescita e morte che nella tradizione popolare alla luna è connesso; anche i falò sono quelli accesi dai contadini, in particolare la notte di san Giovanni, come inconsapevole ricordo di antichissimi rituali di fecondità. Al centro dei romanzo è ancora una volta un viaggio, quello di Anguilla, trovatello che ha fatto fortuna in America e torna nella terra dell’infanzia, le Langhe, alla ricerca di quelle radici di cui tanto avverte la mancanza. Dopo la sua partenza, tuttavia, ogni cosa è cambiata, e i luoghi sono ormai irriconoscibili. Il mondo che si svela ai suoi occhi è un mondo di violenza cieca e devastante, dominato dalla fatica e dal dolore, segnato dalle divisioni e dalle lotte tra gli uomini (il romanzo è ambientato nell’immediato dopoguerra). Ai falò apparentemente rassicuranti della festa contadina, si sovrappongono quello che distrugge la piccola casa in cui Anguilla da ragazzo è vissuto, e quello che consuma il cadavere di Santa, un tempo segretamente amata dal protagonista e dopo la sua partenza uccisa dai partigiani perché accusata di fare il doppio gioco con i fascisti. Se l’esperienza del mondo è stata inutile e deludente, altrettanto fallimentare è risultato il tentativo di far ritorno al paradiso dell’infanzia: Anguilla, ancora più solo e disilluso, dovrà ripartire per il mondo senza più obiettivi o speranze.
Per comprendere il suicidio di Pavese
La stessa delusione del suo personaggio, ma con tanto minore capacità di rassegnazione e di sopportazione, vive anche l’uomo Pavese. Il successo e i riconoscimenti (nello stesso 1950 riceve il premio Strega per La bella estate) non valgono a cancellare le incomprensioni e il senso tragico di solitudine. Il rapporto con il PCI, già difficile, si deteriora definitivamente dopo che Rino Dal Sasso, sull`Unità”, accusa Pavese di avere messo sullo stesso piano, nella Casa in collina, lotta partigiana e Fascismo, suscitando a risentita reazione dello scrittore:
“non dobbiamo dimenticare, come ci insegna l’Iliade, che la guerra è triste cosa, e anche e soprattutto perché bisogna uccidere i nemici.”
I condizionamenti imposti dal partito agli intellettuali gli risultano ormai inaccettabili, come pure, sul piano letterario, il diffondersi della moda neorealistica, con le inevitabili schematizzazioni e semplificazioni che comporta. In questo clima, si risolve dopo molte esitazioni a collaborare alla rivista “Cultura e realtà”, che raduna un folto gruppo di esponenti della sinistra cattolica (tra gli altri, Balbo, Del Noce, Guerrieri). A far precipitare una situazione già precaria, giunge nel 1949 l’incontro a Roma con l’attrice americana Constance Dowling. Pavese se ne innamora subito; ma le sue speranze cadono ben presto, quando Constance, fallito il proposito di far carriera nel cinema, decide di tornare in America senza neppure avvertirlo. Rientrato a Torino, il 26 agosto 1950, si suicida in una camera dell’albergo Roma, ingerendo una forte dose di barbiturici.
Il suicidio di Pavese costituisce un evento con cui è impossibile non fare i conti, anche per il ruolo decisivo che ebbe nella creazione del mito dello scrittore: ma vanno evitatigli opposti eccessi di ridurlo a gesto impulsivo e passionale, o di negare il peso effettivo che le delusioni personali vi ebbero. Un primo strumento per comprenderne le ragioni sono le parole scritte sulla prima pagina della copia dei Dialoghi con Leucò, l’opera più cara allo scrittore, rimasta sul suo comodino: “Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi. Cesare Pavese.” E’ evidente, anche solo dalla firma, che non si tratta di una scrittura destinata ai familiari, ma di un documento pensato come pubblico. Pavese vi appare come la vittima di interlocutori che necessitano di essere perdonati (per le delusioni politiche, sentimentali, letterarie, di cui si sono resi responsabili), ma ai quali a vario titolo (per la sofferenza che il suo gesto provocherà in loro, o per le scelte compiute, diverse dalle loro attese e desideri) si sente tenuto pure a chiedere perdono. Un invito a non fare troppi pettegolezzi (avvertiti dunque come inevitabili) è l’invito a non ridurre in maniera automatica e immediata le ragioni del suicidio a quelle della biografia, per quanto tale legame non sia del tutto negato.
Viene in soccorso, allora, una nota del diario, datata 25 marzo 1950, che chiarisce il senso di tale affermazione:
Non ci si uccide per amore di [una] donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla.
Un’altra, datata 27 maggio, pone invece il suicidio in relazione con l’impegno politico:
Adesso, a mio modo, sono entrato nel gorgo: contemplo la mia impotenza, me la sento nelle ossa, e mi sono impegnato nella responsabilità politica, che mi schiaccia. La risposta è una sola: suicidio.
Né con ciò si deve ridurre il suicidio ad una forma di evasione dal dovere: nel privato, dall’incapacità di essere marito e padre; nel pubblico, di essere intellettuale civilmente impegnato. Un’evasione, semmai, è l’illusione di poter risolvere lo scacco esistenziale in termini di possesso (di una donna o dell’impegno politico): e la delusione che ne consegue è in tal senso illuminante. Nel modo di ragionare di Pavese, afferrare una donna o affermare un’idea è negarla in quanto simbolo; laddove la morte rappresenta l’unica, vera azione possibile, il viaggio risolutore verso l’eterno presente, in cui tutto vive e, nello stesso tempo, tutto si annienta. Già il 30 novembre 1937 aveva scritto:
Non riesco a pensare una volta alla morte senza tremare a quest’idea: verrà la morte necessariamente, per cause ordinarie, preparata da tutta una vita, infallibile tant’è vero che sarà avvenuta. Sarà un fatto naturale come il cadere di una pioggia. E a questo non mi rassegno: perché non si cerca la morte volontaria, che sia affermazione di libera scelta, che esprima qualcosa? Invece di lasciarsi morire? Perché?
Conclusione A questo punto, si pongono alcuni interrogativi. Che cosa rappresentò e cosa rappresenta Pavese nel quadro della letteratura italiana? Quali furono i suoi rapporti col Neorealismo? E quelli con la contemporanea narrativa europea?
1) Pavese non fu isolato: al contrario fu espressione completa e complessa di una particolare temperie culturale e spirituale che si formò in Italia tra le due guerre. Come tanti «solariani» oppose la sua resistenza culturale al fascismo (lo stesso mito dell’America che egli coltivò a lungo fu una manifestazione, come sappiamo, di questo atteggiamento politico); ed ebbe la volontà di uscire dal chiuso ed egoistico culto dell’arte («La Ronda») per aderire ad un’esigenza costruttiva di valori morali e partecipare alle responsabilità dei suoi contemporanei. Questi propositi non rimasero allo stato velleitario, ma presero vita trasfigurati “in pensiero e fantasia» nelle opere, le quali si presentano così non solo come un fatto estetico, ma come testimonianza di tutto un clima storico.
2) Mise a nudo l’alienazione, l’angoscia di vivere in solitudine tra milioni di uomini, lo spietato meccanismo della civiltà industriale, la dissacrazione dei valori primigeni dell’uomo, l’ansia di un ritorno alle origini attraverso la natura e la memoria dell’infanzia: per queste tematiche s’inserisce nell’alveo della letteratura decadente europea.
3)Rinnovò, nello svolgimento delle sue trame, i vecchi modelli naturalistici, in quanto il dato umano e ambientale, pur evidente e reso con intensità, finisce coi rivelarsi sempre sottilmente allusivo ad una dimensione simbolica del reale; parallelamente, anche la psicologia dei personaggi è semplificata, risolta più che altro in evocazione di atmosfere spirituali (quelle «atmosfere» tanto care ai solariani), volta a fare dei personaggi stessi altrettanti «tipi» esemplari dell’umana vicenda. Da quanto si è detto, emerge il divario che separa Pavese dai «neorealisti» dei quali pure, per certi squarci crudamente veristici della sua opera, e per certi temi (la Resistenza, la guerra, l’impegno) fu considerato un maestro. In effetti il realismo di Pavese è di una qualità particolare: è un realismo lirico e, ripetiamo, simbolico, che si estrinseca, nell’ultima produzione, anche nelle tecniche del «monologo interiore» e del «tempo della memoria», e che permette d’individuare nell’opera dello scrittore alcuni degli orientamenti più significativi delle letterature contemporanee.
(Liberamente tratto da Giuseppe Giacalone –La Pratica della Letteratura Novecento–Guida Modulare alla storia della letteratura Italiana Antologia Tomo II F.lli Ferraro Editori 1997 Pag.814-830 839-844 854-856); Autori Vari