DESCRIZIONE DI DON ABBONDIO
DESCRIZIONE DI DON ABBONDIO
DESCRIZIONE DI DON ABBONDIO
Quello che ha più carattere geniale è il gruppo intermedio, e colui che in modo più pieno lo rappresenta, è don Abbondio”. La fortuna di don Abbondio presso i critici e lettori è stata davvero grande: al curato che con la sua pavidità dà inizio alle vicissitudini dei due promessi- “natura buona e pacifica, sincera e passiva, subitanea nelle sue impressioni, originale ne’ suoi giudizi, con scarsa coscienza di se e con nessuna coscienza degli altri, egli è l’inconscia macchina da cui escono tanti avvenimenti” dedica, appunto, pagine fondamentali il De Sanctis. Il quale insiste, rispetto a personaggi di più alta statura religiosa e morale, come il cardinale Federigo, sulla sua identità di “individuo compiutamente libero, con una idealità sua propria, col suo carattere, con la sua fisionomia, co’ suoi fini e co’ suoi mezzi”. Dal canto suo Luigi Pirandello nel saggio su L’umorismo (1908), muovendo dalla tesi secondo la quale l’umorismo è provocato dalla riflessione che, esercitandosi sull’ideale, induce nello scrittore il sentimento del contrario, vede in don Abbondio l’incarnazione del contro ideale il “sentimento del contrario oggettivato e vivente”, e quindi una creazione non soltanto comica, ma genuinamente umoristica: “Dove sta il sentimento del poeta? Nel disprezzo o nel compatimento per don Abbondio? Il Manzoni ha un ideale astratto, nobilissimo della missione del sacerdote su la terra, e incarna questo ideale in Federico Borromeo.
Ma ecco la riflessione, frutto della disposizione umoristica, suggerire al poeta che questo ideale astratto soltanto per una rarissima eccezione può incarnarsi e che le debolezze umane sono pur tante. Se il Manzoni avesse ascoltato solamente la voce di quell’ideale astratto, avrebbe rappresentato don Abbondio in modo che tutti avrebbero dovuto provar per lui odio e disprezzo, ma egli ascolta entro di se anche la voce delle debolezze umane. […] Sì, ha compatimento il Manzoni per questo pover’uomo di don Abbondio; ma è un compatimento […] che nello stesso tempo ne fa strazio, necessariamente. Infatti, solo a patto di riderne e di far ridere di lui, egli può compatirlo e farlo compatire, commiserarlo e farlo commiserare. Ma, ridendo di lui e compatendolo nello stesso tempo, il poeta viene a ridere amaramente di questa povera natura umana inferma di tante debolezze; e quanto più le considerazioni pietose si stringono a proteggere il povero curato, tanto più attorno a lui s’allarga il discredito del valore umano. Il poeta, insomma, ci induce ad aver compatimento del povero curato, facendoci riconoscere che è può umano, di tutti noi, quel che costui sente e prova, a passarci bene la mano sulla coscienza”.Le pagine che seguono su don Abbondio sono tratte dal libro Manzoni. Storia e provvidenza di Ferruccio Ulivi (n. 1912). Storico della letteratura italiana, già docente dell’Università di Roma, e narratore, Ulivi ha proficuamente dedicato molta parte della sua attività di studioso al Manzoni, pubblicando altri saggi (Il Manzoni-lirico, 1950; Dal Manzoni ai decadenti 1963; 11 romanticismo e A.M., 1965; Figure e protagonisti dei “Promessi sposi”, 1967), nonché una biografia (Manzoni, 1984).
Don Abbondio, “un vinto perpetuo”
Per scoprire precedenti alla figura di don Abbondio, si potrebbe frugare nei più diversi repertori letterari, fra antichi e moderni, e dargli come lontani parenti ora la maschera comica del pauroso dell’antico teatro, che prende bette da tutti ed è ventura se salva la pelle; ora la figura del buonsenso sbalestrato nelle più diverse avventure, alla stregua degli scudieri medievali, dei servi e buffoni delle commedie ch’essi condiscono con salaci commenti, fino all’inimitabile Sancho; ora l’inevitabile presenza comica che alleggerisce l’atmosfera dei romanzi storici mentre ne arricchisce il campionario umano. Partendo da questi presupposti, del resto vagamente attendibili, che possono aver incoraggiato lo scrittore a mettere in scena il personaggio, l’arte del Manzoni si schiude in un ventaglio così vario che la figura del modesto parroco brianzolo ha finito per assumere un significato proverbiale: che è il punto della massima distorsione psicologica, ma anche la controprova della coerenza e originalità di un’intuizione artistica; e si aggiunga all’aspetto d’arte quello morale, in quanto invita a far convivere il personaggio lungo i casi della vita.A confronto tuttavia di altre, il raggio d’azione della figura manzoniana sembra tutt’altro che facilitante, poiché prospetta su una società piccola, rattrappita, e lo scenario rasenta i limiti del banale […]. L’ambiente in cui siamo portati è un ambiente senza tempo abbandonato a se stesso, se non fosse il connettivo religioso all’ombra del campanile.
Di questo tipo di società, che era forse il più consono alle tristi peripezie italiche, sempre destinate a sbandare fra l’idillico e il tragico, un idillio in fondo amareggiato, un tragismo che veniva poi a smorzarsi nella rassegnata pacatezza delle abitudini, naturale rappresentante era il parroco, ed è giusto che sin dapprima lo scrittore fermi il tono del discorso sul punto idillio-tragedia. Don Abbondio, che sta nel mezzo, è il commentatore disilluso dell’uno e l’altro versante, e quando il racconto tenderà a elevarsi di tono, sarà la sua presenza a riportare al giusto l’ago della bilancia […]. Da ricordare che non a caso il romanzo, iniziato con la grande paura di don Abbondio, finisce col suo grande respiro di liberazione alla conferma della morte del persecutore. A quel punto non c’è davvero che chiudere, o vedere dove possa rinnovarsi in altro modo l’idillio; all’ambiente sul lago, a quella sua atmosfera piccolo-artigiana e contadina, i due nostri protagonisti non hanno più nulla da dire. E don Abbondio rimane dominante, figura inalienabile sulla prospettiva che sappiamo. È chiaro ch’egli non è in alcun modo un individuo di rilievo, e i suoi casi esemplificano il ritmo di vita di una comunità elementare, coinvolta nelle grandi ondate del secolo in modo completamente passivo. A questa società i secoli hanno appreso soprattutto una cosa, la rassegnata resistenza agli eventi [… ]. In linea di ascendenze manzoniane, don Abbondio è l’erede naturale, debitamente sdrammatizzato, di quei Romani del primo coro dell’Adelchi che sperano salvezza da fuori, e somigliano a un volgo ignoto, privo di nome. Anche il nome dell’uomo appartiene a questa classe; è il nome, comunissimo, del santo protettore della regione costiera. Prete si è fatto per la ragione più disarmante: per trovare da allogarsi in una classe “riverita e forte” […].Don Abbondio non si occupa […] affatto ad usufruire dei vantaggi della propria classe; ne trae soltanto gli aspetti difensivi, a preservazione del suo io privato. Non solo, ma organizza la sua mentalità a “sistema”: un sistema attentamente elaborato, sfaccettato nei comportamenti più minuti, a suo modo un piccolo congegno, una piccola opera d’arte, il cui risultato è di garantire l’entità, la monade, il soggetto don Abbondio come un’ostrica nel suo guscio. Vengano carestie, guerre, pestilenze; don Abbondio le guarderà con un distaccato interesse, apparentemente simile al comportamento del cristiano nel mondo. Per tutto e tutti potrà avere benissimo una sua parola parificante, un generico balsamo di commiserazione: questo vogliono le norme del comportamento cristiano, specie ecclesiastico. Ma il fatto è che tutto dovrà, dovrebbe, lasciar indenne l’unico sostanziale interesse di quell’esistenza; non un interesse morale di qualsiasi specie, attivo oppure passivo, affermativo oppure negativo, diretto o no all’affermazione di certe convenienze, credulità, principi; ma un interesse tutelare del proprio nucleo, accuratamente differenziante quell’unicum dal mondo, l’individuo nella propria solitudine morale, sociale, economica. Qui è il centro del suo universo. Quando Manzoni infatti scrive ch’egli è “assorbito continuamente ne’ pensieri della propria quiete”, non ci dà soltanto come potrebbe sembrare un giudizio morale, ma il senso profondo, nonché la psicologia di una certa versatilità dell’uomo. La “quiete” è poi anche il diffuso stato d’animo che ingenera nell’uomo un alone di beatitudine, è il corrispettivo rallegrante della preoccupazione che si è imposta. Certo egli è sempre all’erta col suo stato d’animo, con sfumature da moralizzatore; come c’imbattiamo in un moralizzatore, staremmo per dire un moralizzatore appagato, un “arrivato” nel suo particolare modo d’essere, quando poco prima d’incontrare i bravi, come ci apprende l’inesorabile veridicità manzoniana, “diceva tranquillamente il suo uffizio, e talvolta, tra un salmo e l’altro chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per segno, l’indice della mano destra, e, messa poi questa nell’altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo al sentiero. . . “Come avviene solo in pochi autori, in poche righe di un’apparenza sommessa Manzoni ci dà un piccolo saggio esemplare di metafora del costume. Si capisce che l’individuo è un attempato, il quale si è fatto una norma, si direbbe, igienica dei gesti e degli atteggiamenti che assume. Proprio come succede a chi è avvezzo a speculare dentro di sé, quasi meccanicamente si fa prender la mano, cioè il piede, dal “sistemati, buttando verso il muro i ciottoli che ingombrano la strada senza la minima ragione acché ci stiano.
Chiaro anche qui ch’egli vezzeggia un suo sogno o illusione, quella di un mondo tranquillo dove a nessuno possa venire in mente d’arrecar disturbo altrui, […] e che lo ha indotto a fare l’indignato moralizzatore nei crocchi degli amici più fidi -“a quattr’occhi, o in un piccolissimo crocchio” come dirà avanti – e poi qui a spese della natura inanimata: cercando di mettere a ragione i ciottoli… Non basta; in quella famosa passeggiata, dopo aver fatto il lavoro coi piedi, “alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all’intorno, li fissava alla parte d’un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora”. Nell’idillismo non mancano dunque le attrazioni di quelle che diremmo, sia pure ai fini di un don Abbondio, le bellezze del paesaggio; paesaggio che a una fantasia di poco volo come la sua richiama il pensiero di una costosa “pezza di porpora” (notazione oltre tutto verissima pensando alle tonalità del sole nel tardo autunno, che torneranno, non meno smaglianti né meno fredde, all’inizio del cap. IV, quando padre Cristoforo si dirige a casa delle due donne). Per capire ulteriormente la piccola digressione descrittiva a cui abbiamo assistito, si noti l’accentuarsi del “tema” della quiete. Don Abbondio riapre il suo breviario e arriva a una svolta della strada “dov’era solito d’alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi; e così fece anche quel giorno”. E proprio qui scatta la trappola: scatta, cioè, la sorpresa. Siamo arrivati con la più ovvia disinvoltura al primo, sarcastico, fatale urto, che il sistema pacioso di don Abbondio è votato a subire all’incontro col mondo: quel mondo, ciottoli, bravi, vessatori, e magari bravi parrocchiani e presuli santi che siano, che non vuoi saperne di ridursi a ragione: alla modesta ma essenzialissima ragione di lui […].La comicità di don Abbondio dipende proprio da questo continuo dislivello tra se e la vita, tra le ragioni ch’egli difende con tanto zelo e si può dire con tanto ingegno, frutto d’esperienza vissuta, e quell’incomprensibile, immitigabile, irriducibile realtà, che con la sua esigua vena missionaria egli tenta invano di scongiurare. Comica è la lotta delicata, affabile, circuente ch’egli tenta: coi bravi, che non vogliono intendere ragioni, e alla fine sigillano il tutto con una “buona bestemmia” e gli tappano la bocca col terribile nome, che, una volta glielo estorca Renzo, don Abbondio sa quanto è grave il suo sacrificio, ingiusta la pretesa dell’antagonista; col cardinale, che lo spedirà al castello del neoconvertito un istante dopo quella strana, quanto meno opinabile, trasformazione; con lo stesso cardinale a tu per tu, che, santo e intelligente com’è, spreca forze e intelletto a frugare in se e in altri, e, una volta che gli mette avanti nientemeno i santi martiri della Chiesa, lui gli spiattella senza mezze dosi la sua sacrosanta legittima “paura”. […]. Se il superiore gliel’ha cantate, l’inferiore non si è mangiato la lingua: ha dovuto mordersela. Una volta messo allo sbaraglio e stanato, don Abbondio è capace davvero di tutto: persino di commuoversi, di arrendersi altrui, di piangere. Ma vivaddio, lo si lasci rientrare nel proprio guscio, e si vedrà se abbia inalienabili diritti, se abbia diritto di difendersi, di proteggersi. Tanto che la Provvidenza alla fine si prende cura di lui, e gli dà come estrema consolazione dei suoi giorni, in questo episodio dei due promessi sposi, la morte per merito della peste di don Rodrigo, col trionfo del suo sentimento di giustizia e della sua condiscendente bontà, conseguendo l’avvenimento delle nozze lui celebrante, nonché la pioggia di benefizi a profitto delle sue pecorelle per mano del degnissimo marchese erede. È una esistenza esemplare la sua (così crede in buonissima fede), contegnosa pur negli indispensabili accorgimenti della cautela, del dolus bonus; o avrebbe dovuto buttarsi allo sbaraglio, giocando non si sa per qual causa lo stesso bene più prezioso, la vita? Un’esistenza che gli è stato difficile forgiare, a cominciare dal sacrificio dell’andata in seminario, dove i superiori avevano forse insistito più del giusto sugli obblighi dell’ufficio di pastore; per arrivare, riferimento piccolo eppur rispettabile, a quel gruzzolo di assidui risparmi, che altri (Tonio) mostrava di apprezzare così poco con le continue dilazioni a restituire. Un’esistenza nella cui ratio è difficile sperare che altri entri, e in fondo a don Abbondio non è interessato troppo che entrasse: gli bastava che la rispettassero. Ma anche gli avversari alla fine avrebbero dovuto apprezzarlo; si sa ad esempio che l’apprezza Agnese, quando dice al cardinale: “non lo gridi… e poi non serve a nulla: è un uomo fatto così: tornando il caso, farebbe lo stesso”[cap. XXIV]. Un “uomo fatto così”: cioè disposto a tutto pur di non farsi letteralmente depredare del bene supremo; qui anche il signor cardinale trovava, com’è giusto, una legittima ripulsa. Semmai, in quel suo modo di organizzare la vita, restava oscuro il motivo per cui, a un certo momento, le cose gli giravano in senso opposto sotto gli occhi, e sembrava davvero che qualcuno si prendesse gioco di lui. Dove dunque veniva a spuntarsi il suo “sistema”? La dottrina manzoniana della vita, sarà ormai apparso chiaro anche a chi volesse credere agli spiriti riposatamente confortevoli del romanzo, s’ispira anzitutto, fondamentalmente, a un sentire attivo, eticamente dinamico, che non consente rilassamenti, a pena d’incorrere altrimenti nella presa di parte diametralmente opposta: la correità col male. È certo in ogni modo che, agli occhi del Manzoni, don Abbondio ha agito vilmente, e per di più sconsideratamente; è quel che gli rimprovera lo stesso cardinale, che anche i normali accorgimenti, ovvero i “ripari umani”, bene usati, non mancano di efficacia, e così sovvengono allo stizzito don Abbondio i “pareri di Perpetua”, le “ragioni di Perpetua”. Per neutralizzare l’accusa che a questo punto (o altrove) sorgerebbe, e finirebbe per travolgere la figura sotto un peso insopportabile, lo scrittore non ha che un mezzo: puntualizzare il carattere nel senso del rilievo patologico, percorrendo più o meno la via dei ritratti del teatro classico, dal servo astuto all’avaro plautino o molieresco, grazie a un attributivo, la paura, che s’insinua con insanabile autenticità fra l’arduo richiamo evangelico e il senno del banale egotismo.
E mai forse come qui Manzoni ha toccato una prospettiva classica, ha cioè radicalizzato la figura lungo la scia di una logica per nulla realistica; sì che non abbiamo affatto un’individuazione di tipo romantico (un unicum, un’impareggiabile individualità e intimità), ma un ritratto di ragione universale, un topos, una maschera in quel che umanamente genuino possiede, come ne possiedono Arpagone, don Giovanni, Colombina. Una maschera che si cela fra le pieghe della bonarietà stizzita, del legittimo senso comune, in un gioco di luci e ombre, di simpatia contingente, a rapide, folgoranti penetrazioni che formano l’ineguagliabile impasto del personaggio. Don Abbondio spunta da un clima tra idillico e burlesco, ma subito è chiamato a un rendiconto che lo disorienta, lo sconcerta, e col povero uomo scombussolato non possiamo a meno di sentire una certa solidarietà: di specchiare in lui certi vizi o deficienze. Siamo sospesi fra il riso e la compassione, fra il sorriso, e inevitabili riserve. Quando si aggira fra una situazione e l’altra coi suoi sommessi brontolii, don Abbondio fa più o meno la figura di un personaggio da commedia, in lui s’indovina però uno spessore diverso, il contrapposto morale o religioso è troppo forte per lasciarlo passare indenne. L’area d’azione di don Abbondio si stende sul terreno del comico, del risibile; lì è veramente impareggiabile, e lo scrittore approfitta del caso senza scrupoli (si vedano, caso esemplare, le battute del soliloquio durante il viaggio al castello [cap. XXIII]). Lo scontro avviene di rimpetto al cardinale. E qui, con le sue scappatoie insostenibili, don Abbondio diventa qualcosa più che buffo: diventa un comprimario. Se ha delle carte da spendere, deve buttarle sul tavolo. Ebbene, quelle carte si riducono a una, ma di uno sconcertante rilievo: la paura come “a solo”, la paura come folgorazione totale dello spirito. È una prospettiva, un va fondo” nell’animo umano che si impone anche a Federigo, che si fa subito pensoso: che si atteggia di colpo “a una gravità compunta e pensierosa” [cap. XXVI], riconoscendo lo spazio che bisogna attribuire al suo interlocutore. Ed è in questo stesso momento, in questo confronto, che anche la malattia radicale di don Abbondio, l’abile plasmatrice e deformatrice di tutta la sua natura etica, la paura, sale a valore testimoniale, e ci si chiede se possa essere se non indulta per lo meno pietosamente ricompresa nel finalismo evangelico. È un punto in cui, per vincere la pasta umana, come Federigo dichiara, non ci sarebbe che un mezzo: trascendersi per forza d’amore, e sanare le proprie piaghe con la virtù sanatrice della preghiera. Contro la natura umana, che è il termine più difficile a sconfiggere, il Vangelo non ha dunque che questi umili dettami: l’umile coscienza di se, la carità, la preghiera. Ed è la sanatoria a cui alla fine anche don Abbondio si appiglia: e si veda la sua pur effimera commozione. Dopo averci illuminato sulla amara regola della vita, che dà regolarmente scacco a chi non sa affrontarla in modo intrepido vuoi ai lini del bene che a quelli del male, e ha ridotto così un don Abbondio a un vinto perpetuo con l’irridente puntualità che sappiamo, dopo aver ribadito cioè l’esigenza eroica non solo della legge morale ma della legge esistenziale, e averci mostrato le travagliose peripezie di chi si illude di sottrarsi riducendosi a una specie di nucleo tutto compatto, un “sistema chiuso” all’interno come un’ostrica, ma un nucleo che chiunque può prendere a calci sballottandolo, Manzoni ci mostra il contravveleno a questa radicalizzazione nel senso umano dell’individuo, appunto la medicina dell’amore e della preghiera. Non a tutti è chiesto lo stesso grado di coscienza; don Abbondio non sarebbe certo in grado di razionalizzare con superiore saggezza la sua paura, e non è davvero in grado, lui così mediocre, di assaporare il veleno del male come ha fatto l’innominato. Con una natura come la sua, fondata su reazioni secondarie anche se complicate, le controreazioni non potranno essere che parimenti esistenziali: accanto al senso del male fatto agli altri il dispiacere di averlo fatto, accanto a una prima nozione di colpa uno spunto di amore per il prossimo. Tutto questo lo scrittore dice con la solita veggente acutezza, senza alcunché in più o meno: “sentiva un certo dispiacere di sé, una compassione per gli altri, un misto di tenerezza e di confusione”. Segue poi, più che paragone, la stupenda metafora dello stoppino umido e ammaccato d’una candela che alla fine brucia. È chiaro che quel presupposto di maschera che lo scrittore ha fatto balenare rientra in una dimensione flessibilmente, sensibilmente umana, e don Abbondio, lunge da riuscire un prototipo, appare alla fine un monotipo, un inconfondibile esempio della capacità manzoniana di articolare ogni immagine nella piena latitudine morale.