STORIA DELLA LINGUA ITALIANA

STORIA DELLA LINGUA ITALIANA


-L’italiano deriva dal latino, come le altre lingue romanze (portoghese, spagnolo, francese, rumeno, ecc.). Tutte queste lingue non derivano però dal latino classico degli scrittori, ma dal cosiddetto “latino volgare”, ossia la lingua popolare dei soldati, dei provinciali, dei rustici, che parlavano in modo diverso dai romani istruiti della capitale. Di fatto il latino, come tutte le lingue vive, mutò nel corso del tempo, tanto che i territori dell’Impero conquistati in epoche diverse, ricevettero un latino in parte differente o non furono raggiunti da certe innovazioni che si svilupparono successivamente.

Il latino non aveva quindi una unità linguistica assoluta (come del resto si può osservare ancora oggi per le lingue parlate in aree molto vaste: si pensi per esempio all’inglese parlato negli USA, differente da quello britannico o dell’area dell’Oceania). Questo fenomeno si acuì al tempo delle invasioni barbariche, per cui si verificò un’influenza della lingua germanica degli invasori sulla lingua parlata dai popoli dell’ex-impero romano. L’apporto lessicale di queste lingue germaniche non è di grande rilevanza però, in quanto la cultura dei Goti, dei Longobardi e dei Franchi – quasi totalmente orale – dovette fare i conti con la cultura latina, estremamente prestigiosa e dotata di una tradizione scritta ormai solidificata.

La genesi di una lingua è un fenomeno lungo e complesso e, nel caso del passaggio dal latino alle lingue romanze, la trasformazione durò secoli e si svolse sul piano dell’oralità, dato che il latino continuò a mantenere il suo ruolo di lingua della scrittura e della cultura. Nel corso del tempo però, il latino stesso cambiò, in parte per l’ignoranza degli scriventi, in parte per nuove abitudini e parole ormai invalse, tanto che si parla di “latino medievale” contrapposto al “latino classico”. Vi fu quindi un lungo lasso di tempo in cui la lingua volgare, formatasi dalla trasformazione del latino volgare, esistette nell’uso (sulla bocca dei parlanti), senza mai essere testimoniata da alcun campione scritto. Ad un certo punto però, l’esistenza del volgare cominciò a farsi sentire, almeno in maniera indiretta: il latino medievale infatti è molto ricco di “volgarismi”, tanto che ci si accorge facilmente che chi scriveva quel latino stava in realtà pensando in un’altra lingua.

Tuttavia, perché si affermasse la dignità delle nuove parlate romanze, bisognava che si accettasse di metterle per iscritto e si prendesse l’uso di farlo sistematicamente. Il problema era grave, perché non è facile mettere per iscritto una lingua che è sempre stata orale, soprattutto per quanto riguarda la trascrizione grafica di certi fonemi (=suoni). Per fare un paragone: si può immaginare un individuo costretto a dover scrivere improvvisamente nel proprio dialetto: egli dovrebbe per forza di cose appoggiarsi alle norme della lingua italiana, l’unica che tutti siamo abituati a scrivere fin dalle elementari.

Per questo bisogna distinguere – esaminando i volgari italiani – tra i documenti che mostrano l’uso occasionale, involontario del volgare e documenti invece più importanti in cui scrittori e letterati, rifacendosi ai modelli francesi, iniziarono ad usare il volgare in maniera motivata e sistematica. Pertanto vanno separate testimonianze come le incisioni della Catacomba di Commodilla o il Placito di Capua dagli usi del volgare della scuola siciliana o toscana.

Ma procediamo con ordine. Le più antiche testimonianze italiane di scritture volgari sono carte notarili, documenti processuali, verbali, documenti d’archivio. Casi curiosi e particolari invece sono le iscrizioni della catacomba romana di Commodilla, antica testimonianza da collocare tra i secoli VII e IX, e quella di S. Clemente, più tardo (da collocarsi verso la fine del sec. XI).

L’atto di nascita della nostra lingua però, è solitamente considerato il Placito Capuano, in quanto documento ufficiale (è il verbale di un processo) e non più graffito o pittura. Il Placito è un atto notarile, scritto su un foglio di pergamena, relativo ad una causa discussa di fronte al giudice capuano Arechisi. Al suo cospetto si erano presentati l’abate del monastero di Montecassino ed un certo Rodelgrimo di Aquino, che rivendicava con una causa il possesso di certe terre che, a suo avviso, il monastero possedeva abusivamente. Rodelgrimo portava, a sua difesa, una memoria scritta. L’abate ribatteva che – siccome il monastero coltivava quelle terre da oltre trent’anni – per legge longobarda esse appartenevano ormai al monastero stesso (come l’odierno usucapione). Nel giorno stabilito si presentarono di fronte al giudici tre testimoni, i quali – tenendo in mano la memoria di Rodelgrimo e giurando sul Vangelo – recitarono una formula testimoniale con la quale davano ragione all’abate. Il giudice preparò allora il verbale, ma si verificò una scelta inconsueta rispetto alle abitudini. Era chiaro infatti che il dialogo tra il giudice e i testimoni si era svolto in volgare, ma di solito gli atti dei processi venivano riscritti in latino (lingua scritta della cultura): nel caso del Placito Capuano, però, la verbalizzazione fatta in latino arrivò anche ad includere vere e proprie formule testimoniali volgari, una lingua nuova che contrasta con il testo latino del documento, per ben quattro volte. Per esempio, la testimonianza del chierico Gariperto, viene verbalizzata così:

Come si vede, il contrasto tra volgare e latino è netto, anche se si tratta di un latino che risponde ai caratteri propri dell’uso dell’epoca (tenens in manum sarebbe considerato un errore nell’uso del latino classico). Poiché il testimone è un chierico, però, ci viene fornito un ulteriore indizio. Gariperto, infatti, essendo chierico potrebbe benissimo parlare in latino al momento di deporre, ma perché allora usa il volgare? Molto probabilmente la formula volgare del giuramento aveva già subito una certa formalizzazione in ambito giuridico e veniva ripetuta senza modificarla in base all’uso del parlato. Inoltre la scelta di scriverla in volgare piuttosto con il latino va spiegato non solo con il desiderio di essere fedeli al parlato dei testimoni, ma come un modo di rivolgersi ad un pubblico diverso, più vasto e forse esterno a quella causa, come se il monastero volesse far sapere a tutti l’esito della lite per evitare altri processi.

L’USO LETTERARIO DEL VOLGARE E LA SCUOLA SICILIANA

Vi è differenza tra l’uso occasionale del volgare nei documenti che abbiamo appena visto e l’adozione del volgare stesso come lingua letteraria o d’arte. La scelta del volgare, anche se riservata alla poesia (e quindi assai limitata) implicava pur sempre una maggiore considerazione della nuova lingua, una sua promozione, che vedeva impegnato non un singolo, ma un gruppo omogeneo di autori, socialmente collocati in posizioni molto rilevanti. Questa fu la caratteristica di una vera e propria scuola, la prima scuola poetica italiana che ebbe la sua sede nell’ambiente colto e raffinato della corte palermintana di Federico II. Quando si sviluppò la scuola siciliana, però, già due altre letterature romanze si erano affermate al di là delle Alpi: la letteratura francese (lingua d’oil) e quella provenzale (lingua d’oc). Quest’ultima, in particolare, esercitava grande fascino: essa stessa era per definizione la lingua della poesia, una poesia incentrata sulla tematica dell’amore (intellettualizzato, espresso in forme raffinate e stilizzate) che trovava la sua sede nelle corti dei feudatari di Provenza, Aquitania e Delfinato. La sua influenza si era estesa anche in Italia e molte famiglie nobili del Nord (Malaspina, Este, da Romano, ecc.) avevano presso di sé poeti “italiani” che scrivono in provenzale, imitando i trovatori. Anche la scuola siciliana fece una cosa del genere, ma ebbe l’originalità di sostituire al provenzale un volgare “italiano”, quello di Sicilia. Questa sostitituzione fu indubbiamente geniale, perché ebbe conseguenze decisive per tutta la nostra tradizione poetica.

Tra i maggiori esponenti della scuola siciliana si ricordano Guido delle Colonne del quale sono pervenute cinque canzoni, Giacomo da Lentini, Pier della Vigna, Rinaldo d’Aquino, Stefano Protonotaro da Messina al quale dobbiamo l’unica composizione conservata in lingua originale siciliana. In alcuni di questi, accanto al repertorio contenutistico provenzale, fa però riscontro in alcuni poeti, come re Enzo, un interesse psicologico che lascia già intuire qua e là la madonna angelicata degli stilnovisti. Siamo comunque molto distanti dall’erotismo provenzale e francese, e più vicini al platonismo italiano e alla tradizione classica, che si sente maggiormente nel periodare e nel contenuto. Di diversa estrazione era infatti la scuola dell’Isola, composta prevalentemente di giuristi e notai, più vicini del mondo francese alla tradizione umanistica e nel complesso distanti dal mondo cavalleresco francese, ammirato da lontano ma difficilmente sentito come proprio, tanto più in quanto l’imperatore aveva in effetti attuato per la prima volta nella storia, dopo durissime lotte, lo smantellamento del sistema feudale. Sottovalutata dalla critica ottocentesca per il suo carattere accademico di raffinato gioco intellettuale, è stata però rivalutata nel XX secolo grazie all’opera di molti insigni studiosi quali Bruni, Segre, Contini i quali hanno sottolineato i felici risultati linguistici, che dettero per la prima volta all’Italia quel ricco vocabolario in volgare di cui ancora mancava, e che fu assimilato e successivamente arricchito dalle sperimentazioni dei grandi bardi toscani, dalle imitazioni di Guittone all’elaborazione del fresco ma ricco linguaggio degli stilnovisti. [→ Testi visti in classe: G. da LENTINI, Amor è un desio che vien da core]

È tuttavia da notare che i testi in siciliano sono perduti (tranne la canzone Pir meu cori allegrari di Stefano Protonotaro), in quanto la gran parte dei manoscritti siciliani ci è stata trasmessa da copie provenienti da aree toscane. I copisti toscani che intervennero sulla lingua della scuola siciliana, lo fecero con una vera e propria operazione di “traduzione”, eliminando ogni tratto tipico e “normalizzando” la lingua siciliana alla loro.  Si vedano per esempio alcuni versi della canzone S’eo trovasse pietanza di Re Enzo, poeta attivo in quel periodo e figlio di Federico II:

Versione siciliana (cod. Barbieri)

La virtuti ch’ill avi

D’alcìrm’ e guariri

A lingua dir nu l’ausu,

Per gran timanza ch’azu nu ll’isdegni

 

Versione toscanizzata (cod. Vaticano 3793)

La vertute ch’il ave

D’ancider me e guerire

A lingua dir non l’auso,

Per gran temenza c’agio no la sdigni

Con la morte di Federico II (1250) e la fine del regno di Sicilia conquistato dagli Angioini, vi fu la distruzione fisica dei manoscritti di origine siciliana o meridionale, cosicché le testimonianze linguistiche sul volgare siciliano furono pressoché annientate. Ma le idee e i temi della scuola siciliana passarono in Toscana, dove nuovi autori le ripresero e le adattarono alla loro lingua: per questo si parla di autori “siculo-toscani”, con riferimento spesso a Bonagiunta Orbicciani e Guittone d’Arezzo.

La poesia didattico-moraleggiante dell’Italia settentrionale

In Italia settentrionale fiorì nel Duecento una letteratura in volgare molto diversa da quella sviluppatasi in Sicilia. Tra gli autori di questa poesia in versi di carattere moraleggiante ed educativo vanno ricordati il cremonese Girardo Patecchio, Giacomino da Verona e il milanese Bonvesin da la Riva, tutti di area lombarda. La lingua di questi scrittori è fortemente settentrionale non essendo influenzata né dai siciliani, né dai toscani, ed oggi è di faticosa comprensione. Anche se essa tendeva comunque ad emergere letterariamente, a “farsi illustre” come quella siciliana, il confronto con la letteratura toscana l’avrebbe spazzata via e messo fine agli esperimenti in lingua “lombarda”.

La poesia religiosa dell’Italia centrale 

Il più antico componimento in volgare italiano (quello umbro) è il Cantico di san Francesco d’Assisi. Tuttavia la vera nascita della lirica religiosa in volgare si colloca nel 1260, quando nacque il movimento dei Disciplinati (a Perugia, sotto la guida di Raniero Fasani), cioè una confraternita laica che usava la flagellazione pubblica come mezzo di espiazione. Il rito era accompagnato da canti corali che usavano come schema la canzone a ballo profana (ballata di ottonari). Le “laude” svolsero una vera e propria azione di propaganda che diffuse il movimento in tutta l’Italia del Nord. I laudari (ne restano circa 200) ebbero come centri di produzione soprattutto Perugia e Assisi. Le laude erano liriche e drammatiche, pasquali e passionali, secondo l’argomento religioso trattato. Solo con Iacopone, tuttavia, la lauda si elevò a dimensione artistica.  I due principali esponenti di questo filone sono quindi Francesco d’Assisi e Iacopone da Todi.

Francesco d’Assisi (1182-1226), figlio del mercante Pietro Bernardone, ebbe una discreta formazione letteraria (conosceva sia il latino, sia le letterature francesi) prima di dedicarsi al commercio. Nel 1202-03 partecipò alla guerra tra Perugia e Assisi; nel 1204, durante una malattia, cominciò a realizzare un radicale cambiamento di vita che lo portò a rinunciare a ogni avere (1206) e a predicare il Vangelo assieme ad alcuni seguaci. Per l’ordine da lui fondato (1210) stese in latino la Regula prima (1221), poi rielaborata (Regula secunda). Questi testi, assieme ai postumi Testamentum e Admonitiones, costituiscono la sua produzione ufficiale in un latino ecclesiastico piuttosto rozzo. Ma l’opera che più fortemente rivela la sensibilità francescana è il Cantico di Frate Sole, o Cantico delle creature (Laudes creaturarum), una prosa ritmica in volgare umbro (il più antico componimento poetico in volgare italiano), vero inno di lode alla creazione, in cui Francesco riprese spunti biblici e liturgici per rielaborarli attraverso la propria spiritualità. Il testo rivela una concezione positiva della natura, capace di interagire con l’uomo come stimolo nel cammino verso la salvezza. La scelta delle parole, spesso semplici e collegate tra loro solo da una congiunzione, rivela il favore dell’autore per immagini di forte contenuto cromatico, capaci di parlare all’immaginazione, magari non educata sul piano culturale, ma vivida, come quella delle persone comuni.

Iacopone da Todi (nato verso il 1230-36 e morto nel1306), forse fu notaio, partecipò alla vita letteraria della sua città; i suoi testi fanno ipotizzare una conoscenza della produzione di Guittone d’Arezzo.La produzione poetica di Iacopone, costituita da 93 laude di sicura attribuzione e da altre più incerte, tra cui lo Stabat Mater, è caratterizzata da una religiosità ascetica, focosa. Egli si sofferma costantemente sulla negatività della vita e del mondo, segnato da una continua violenza, prodotta dal peccato, che si manifesta nel perpetuo processo di distruzione. In questa prospettiva Iacopone guarda alla vita quotidiana spesso con un realismo crudo e sarcastico: i suoi versi sono scritti in un volgare umbro di grande intensità, non ancora assoggettato alle norme della lingua letteraria, e talvolta arricchito da apporti del latino ecclesiastico e da invenzioni linguistiche e lessicali. L’atteggiamento pedagogico indusse Iacopone a drammatizzare lo strumento della lauda: nacquero così i contrasti, in cui più voci si alternano strofa per strofa; si tratta perlopiù della voce divina che cerca di scuotere l’anima dalla sua pigrizia spirituale, dall’attaccamento ai beni terreni. A tale atteggiamento Iacopone oppone con estrema forza il mistero dell’incarnazione e della passione di Cristo, viste come capovolgimento di tutti i valori che regolano le convenzioni della società umana. Su questo tema Iacopone scrisse i suoi versi più intensi e celebri, quelli del Pianto della Madonna che rappresenta i diversi momenti della Passione.

[→ Testi visti in classe: Francesco d’Assisi, Cantico di Frate Sole]

La poesia comico-realista

Dalla metà del Duecento si diffuse in Toscana e in Umbria una poesia giocosa, di carattere realista. L’invettiva, la bestemmia, la ribellione, la comicità prendono il posto della bellezza ideale. Figura letteraria di un certo rilievo fu il fiorentino Rustico di Filippo (circa 1230-1300), che godette di grande fama e ha lasciato 58 sonetti nei quali sul motivo dell’amore è ancora preponderante la lezione siculo-guittoniana, mentre rispetto al genere comico si intravedono soluzioni originali. Altre figure di rilievo furono il senese Meo de’ Tolomei (nato attorno al 1260), autore di sonetti dall’intenso gusto caricaturale; il giullare aretino Cenne della Chitarra (morto già nel 1336), che cantò e descrisse scene di vita rustica. Tuttavia i due poeti comico-realisti più grandi furono Folgore da San Gimignano e Cecco Angiolieri.

Del senese Cecco Angiolieri (circa 1260 – morto prima del 1313) si conoscono solo pochi episodi marginali della vita, come le multe per infrazioni alla vita militare, la sua morte in miseria, il rifiuto da parte dei figli della sua eredità, perché condizionata da molti debiti. Queste le ragioni per cui la critica romantica ha dato una facile ed erronea interpretazione autobiografica della sua opera. Sono attribuiti ad Angiolieri 112 sonetti distinti a fatica dalle numerose imitazioni; rare sono le rime amorose secondo il gusto di Guittone d’Arezzo, mentre nel suo canzoniere domina il registro comico-realistico. La sua poesia è costruita sul rovesciamento del modello stilnovista e sulla raffinata parodia di molti generi cortesi: il plazer (elenco di cose desiderabili), l’enueg (elenco di sgradevolezze), il contrasto e così via. L’appassionato spirito invettivo, o addirittura aggressivo, non deve far dimenticare l’aspetto di gioco letterario: il romanzo d’amore tra Cecco e Becchina, che al poeta ha preferito un marito ricco, riprende in forma parodistica il genere del contrasto. A livello tematico, il suo universo poetico è organizzato intorno a un limitato numero di motivi emblematici, così riassunti dal poeta stesso: “la donna, la taverna e il dado”. Quasi certamente “letterario” e non realistico è l’autoritratto di personaggio maledetto che il poeta dà di sé nei suoi testi.

[Testi visti in classe: C. ANGIOLIERI, S’i’ fosse foco – I’ sono innamorato ma non tanto – Dante Alighier, s’i’ son bon begolardo]

LO STILNOVO

Il “Dolce stil novo” è un movimento poetico sviluppatosi a Firenze alla fine del XIII secolo.

Il termine (che si può trovare anche sotto le forme dolce stil nuovo, stilnovo, stilnovismo, dolcestilnovismo) deriva dalla Divina commedia (Purgatorio, XXIV, 19-63), dove è utilizzato dal poeta Bonagiunta Orbicciani: dopo che Dante gli ha esposto i propri principi poetici, Bonagiunta riconosce le differenze che separano l’approccio alla tematica amorosa da parte della scuola siciliana, di Guittone d’Arezzo e di se stesso da quello dello stile ‘novo’ di cui Dante si fa portavoce.

Iniziatore del nuovo stile fu il poeta bolognese Guido Guinizelli, che nella celebre canzone Al cor gentil rempaira sempre amore definì quelli che sarebbero stati i canoni della nuova scuola: anzitutto, in un’Italia centrosettentrionale che evolveva in senso cittadino e borghese (fu questa l’età dei Comuni), il concetto della nobiltà come dote spirituale piuttosto che come fatto ereditario e lo stretto rapporto fra la nobiltà (‘gentilezza’) d’animo e la capacità di amare; in secondo luogo l’immagine della donna come angelo, in grado di purificare l’anima dell’amante e di condurlo dal peccato alla beatitudine celeste. Questi concetti ricevettero un approfondimento sia dal punto di vista filosofico sia da quello psicologico, che dava conto con precisione, tra l’altro, degli effetti di Amore sull’anima dell’innamorato.

Il dolce stil novo si mosse nella direzione di una poesia concettualmente e formalmente rigorosa: sul piano dei contenuti, trascendeva il dato biografico e concreto dell’esperienza amorosa per farne esperienza spirituale e morale, mezzo per raggiungere la virtù; sul piano della forma, si proponeva di utilizzare un linguaggio ‘dolce’, privo di asprezze tanto negli effetti fonici quanto nelle immagini, perché fosse adeguato all’altezza dei contenuti espressi.

Al modello lirico e ideologico di Guinizelli si ispirò a Firenze un gruppo di giovani poeti, i cui maggiori esponenti furono Guido Cavalcanti e Dante Alighieri; quest’ultimo, in alcune rime giovanili e in particolare nella Vita nuova, approfondì l’analisi psicologica del sentimento amoroso e accentuò il tema della virtù salvifica della donna. L’inconoscibilità finale della donna e il doloroso binomio Amore-Morte di Cavalcanti venne ripreso da Gianni Alfani, mentre leggerezza ed eleganza contraddistinsero il canzoniere di Lapo Gianni. Dopo la rielaborazione prevalentemente psicologica che ne fece Cino da Pistoia, il dolce stil novo venne ripreso e ulteriormente rielaborato dalla grande poesia del Canzoniere di Francesco Petrarca, che fu il modello dominante della tradizione lirica italiana ed europea almeno fino al XVII secolo.

[Testi visti in classe: G. GUINIZZELLI, Io voglio del ver la mia donna laudare – G. CAVALCANTI, Chi è questa che ven – D. ALIGHIERI, Tanto gentile e tanto onesta e A ciascun alma presa e gentil core]

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