STORIA DELLA COLONNA INFAME

STORIA DELLA COLONNA INFAME

FONTE: https://promessisposi.weebly.com/colonna-infame.html


È un saggio storico scritto da Manzoni contemporaneamente alla redazione del romanzo e pubblicato in appendice alla seconda edizione nel 1842, con illustrazioni di Francesco Gonin: si tratta della ricostruzione minuziosa del processo agli untori durante la peste a Milano nel 1630, che portò alla condanna a morte di alcuni sventurati tra cui il commissario di Sanità Guglielmo Piazza e il barbiere Gian Giacomo Mora (la casa di quest’ultimo venne rasa al suolo dalle autorità milanesi e al suo posto fu eretta una colonna a ricordo “infame” delle sue presunte malefatte, che dà il titolo al saggio e allude evidentemente all’infamia dei giudici che lo condannarono). Il fatto è già accennato nel cap. XXXII dei Promessi sposi, quando l’autore dà conto del diffondersi della diceria degli untori durante l’epidemia di peste e riferisce dei processi sommari che vennero celebrati contro di essi, riservando “a un altro scritto” una più dettagliata trattazione di questo argomento (è un evidente preannuncio della pubblicazione del saggio). Il tema era peraltro già stato trattato da Pietro Verri nelle sue Osservazioni sulla tortura (stampate postume nel 1804), anche se lo scrittore illuminista prendeva spunto dal celebre processo per argomentare contro l’uso della tortura che era stata, a suo dire, causa diretta di quell’atroce ingiustizia: Manzoni è di diverso avviso e, pur condannando aspramente l’uso di tale pratica, sostiene che la colpa fu dei giudici di Milano che vollero a tutti i costi trovare un colpevole per la sciagura della peste e agirono quindi sulla spinta del furore popolare e dell’iniquità, mentre se avessero applicato correttamente le leggi in uso all’epoca (anche quelle relative alla tortura) non sarebbero mai giunti a far condannare degli innocenti per dei fatti manifestamente assurdi.
Il saggio ricostruisce in modo dettagliato la vicenda giudiziaria che ebbe per protagonisti il Piazza e il Mora, nonché altri accusati, usando come fonte la copia degli atti del processo che l’autore cita più volte nel corso della narrazione (il resoconto originale è andato infatti irrimediabilmente perduto): tutto parte dal momento in cui il Piazza viene visto da alcuni testimoni mentre sfiora un muro nei pressi di Porta Ticinese, dove poi viene ritrovata una sostanza giallastra che è subito presa per l’unguento venefico che diffonde il contagio. Arrestato e posto alla tortura, gli viene in seguito promessa falsamente l’impunità in cambio di una confessione e l’uomo è così indotto ad accusare se stesso e il Mora come suo complice, sospettato in quanto barbiere (i barbieri esercitavano in modo improvvisato alcune pratiche mediche e preparavano vari intrugli a base di erbe medicinali); successivamente viene loro estorta la denuncia di altre persone del tutto estranee alla vicenda, ma che vengono a loro volta arrestate e torturate. Alla fine cinque uomini vengono condannati a morte e giustiziati in modo atroce, nel tentativo di placare la popolazione irritata per l’infuriare del morbo cui le autorità milanesi non hanno saputo opporre alcuna seria misura di prevenzione, come spiegato nel cap. XXXI del romanzo.
Manzoni parte dall’assunto che la giustizia del Seicento era profondamente corrotta e inefficiente, come tante pagine del romanzo chiaramente dimostrano, dunque la responsabilità dell’ingiusta condanna inflitta agli accusati ricade interamente sui giudici che la pronunciarono e va ricondotta a loro come colpa individuale (nessuna giustificazione può essere addotta relativamente al condizionamento sociale, o giuridico, o semplicemente alla paura della peste, per cui la visione che emerge dall’opera è acutamente pessimistica). Il testo è animato dall’interesse per la storia che caratterizza tutta l’opera matura di Manzoni, specie negli anni posteriori al romanzo quando egli abbandona le opere che mescolano verità e invenzione, essendo convinto che le due cose siano inconciliabili: infatti nel romanzo è possibile creare un lieto fine a proprio piacimento, mentre nella concreta realtà storica non c’è nessun lieto fine per gli sventurati vittime delle ingiustizie dei potenti (scopo dello storiografo è allora quello di ristabilire la verità dei fatti, offrendo un tardivo riconoscimento a chi ha pagato con la vita la follia o l’iniquità di chi era preposto al bene pubblico). L’opera è interessante non solo sul piano storiografico ma anche come pamphlet morale, poiché Manzoni alterna la sintetica narrazione dei fatti a frequenti osservazioni di natura religiosa ed etica, accusando tra l’altro i giudici di essere doppiamente colpevoli (in quanto forzarono la procedura giudiziaria al fine di ottenere una condanna e in quanto vollero scaricare su degli innocenti delle colpe che erano, in realtà, riconducibili alle autorità sanitarie di Milano). È evidente la sua volontà di esecrare tutte quelle pratiche giudiziarie che hanno come fine non quello di accertare la verità, bensì quello di trovare dei colpevoli da gettare in pasto all’opinione pubblica per placarla, e suo bersaglio polemico sono anche quegli scrittori che successivamente al 1630 credettero fermamente all’opinione corrente sugli untori e si comportarono “come le pecorelle di Dante” (fra loro sono citati il Ripamonti, peraltro una delle fonti storiografiche più usate dall’autore nel romanzo, L. A. Muratori, P. Giannone e G. Parini, autore di un frammento in versi in cui, tuttavia, il poeta si limitò probabilmente a parafrasare l’iscrizione posta sulla famosa colonna), mentre il primo intellettuale a prendere decisamente posizione contro le dicerie sugli untori fu P. Verri nelle Osservazioni sulla tortura.
Per approfondire: L. Sciascia, I burocrati del Male.