Stati signorili e principeschi

Stati signorili e principeschi

Mentre l’unità del Mezzogiorno continentale e insulare si spezzava, il resto dell’Italia soggiaceva alla forza centrifuga dei particolarismi locali: i Comuni maggiori si trasformavano in signorie (monarchie embrionali a base popolare), quali Milano dei Della Torre poi dei Visconti, Verona degli Scaligeri, Mantova dei Bonacolsi e dei Gonzaga, Ferrara degli Estensi, Ravenna dei da Polenta, Rimini dei Malatesta, ecc.; o si dibattevano tra il regime comunale e quello signorile, come Pisa, Lucca, la stessa Firenze, che tuttavia conservò la forma repubblicana, superando una serie di crisi, tra le quali quella gravissima del 1302; il medesimo processo si compiva anche nelle Marche, in Umbria, nel Lazio. Con metodi diversi s’illusero di sottoporre queste energie scatenate alla propria disciplina un grande papa, Bonifacio VIII (1294-1303) e un imperatore visionario, Arrigo VII di Lussemburgo (1308-1313). Bonifacio VIII impostò la sua politica italiana in funzione di una più ambiziosa politica ecumenica, fidando nella monarchia angioina e nelle forti fazioni guelfe di molte grandi città d’Italia; ma le sue armi, politiche e spirituali, furono spezzate dalla Francia di Filippo IV il Bello, che gli inflisse l’oltraggio d’Anagni (1303) e, alla sua morte, trascinò il papato nella cosiddetta cattività avignonese (1309-1376). Arrigo VII di Lussemburgo credette di poter riprendere la politica italiana dei grandi imperatori germanici; ma se pure credette o lasciò credere di voler “drizzare l’Italia” imponendovi la pace e resuscitandovi il culto dell’Impero, fu sin dal suo ingresso nella penisola (1310) trascinato nel gioco dei partiti e trasformato egli stesso in uomo di parte, di quella parte ghibellina che esisteva ormai meno come realtà e idealità politica che come rancore contro la parte guelfa, sorretta questa dal prestigio della monarchia napoletana di Roberto d’Angiò e dalla ricchezza della borghesia di Firenze e delle altre città a essa legate. Incoronato a Milano e a Roma, ripiegò davanti alla minacciata offensiva di Roberto d’Angiò, e nulla poté fare contro Firenze; morì improvvisamente a Buonconvento nel Senese (1313), segnando la catastrofe di quell’Impero universale, sacro e romano, che ebbe allora in Dante l’ultimo credente, teorico e poeta.

D’altronde, la storia dei Comuni, nel suo complesso, era stata la storia di una lotta contro l’Impero, anche se non sempre apertamente dichiarata; Federico I, Enrico VI, Federico II avevano combattuto per un secolo i Comuni e avevano perduto; e in quel secolo i Comuni erano divenuti più forti e aggressivi, e, insieme, più civili; e i maggiori avevano raggiunto la maturità politica, consistenza economica ed estensione territoriale tali da poter operare ormai come Stati sovrani. Tra quelli che erano evoluti in signorie, primeggiava Milano, dove la parte popolare, la credenza di Sant’Ambrogio, fin dall’indomani della rotta di Cortenuova, aveva dato amplissima balia a Pagano Della Torre, signore della Valsassina. I Della Torre governarono Milano dal 1240 al 1277; rovesciati dalla parte nobiliare, capeggiata dall’arcivescovo Ottone Visconti, tornarono al potere dal 1302 al 1311, quando Arrigo VII, con un infelice esperimento di pacificazione, fece il gioco dei loro avversari, e Matteo Visconti, nipote di Ottone, li scacciò e gettò le basi di una signoria, destinata a regnare per oltre un secolo. Matteo e la sua dinastia allargarono i domini milanesi in tutte le direzioni, e prepararono a Gian Galeazzo il terreno per aspirare a un regno italico dalle Alpi agli Appennini, con espansioni nel Veneto e avamposti a Genova, a Pisa, a Perugia, ad Assisi, e mire su Firenze. Gian Galeazzo ricevette l’investitura imperiale da Venceslao re dei Romani, diventando duca di Milano (1395); morì sul punto di attaccare Firenze (1402), e lo Stato si frantumò. Ma, nonostante la pressione di Venezia e di Firenze, fu ricostituito da Filippo Maria, ultimo della dinastia, e salvato superando una grave crisi (la Repubblica Ambrosiana, tardiva rivendicazione di inattuali libertà) dal genero di Filippo Maria, il condottiero Francesco Sforza (1450). Sotto la dinastia sforzesca (1450-1535), il ducato di Milano dovette rinunciare alla politica di egemonia che aveva condotto con tanta fortuna nella seconda metà del Trecento: si cristallizzò nel sistema di equilibrio degli Stati italiani, inaugurato nel 1454 (pace di Lodi tra Milano, Venezia e Firenze), ebbe una stupenda vita culturale e rovinò infine sotto l’urto straniero.

Mentre cresceva Milano, cresceva Venezia: venuta nel  XIII sec. in possesso, con la quarta crociata, di un impero coloniale imponente a spese di Bisanzio e in acerba concorrenza con Genova, nel  XIVsec. era costretta a iniziare una politica di espansione nel Veneto, per contenere l’avanzata delle signorie locali, i Della Scala di Verona anzitutto, che frenò con l’aiuto visconteo, acquistando i primi domini continentali (1337), poi i Visconti. Minacciata da Gian Galeazzo alle spalle e dai Genovesi nel golfo, nella guerra di Chioggia (1378-1381), Venezia superò la crisi e, nella prima metà del Quattrocento, con la costante alleanza di Firenze, portò avanti i suoi confini raggiungendo Brescia e Bergamo. La sua avanzata nella Val Padana, coincidente con la crisi dell’impero coloniale sottoposto all’urto ottomano e con quella del ducato di Milano sotto gli ultimi Visconti, fu arrestata all’Adda dall’inatteso mutamento della politica di Firenze, che ruppe l’alleanza con la Repubblica e la strinse con Francesco Sforza; la pace di Lodi del 1454 fissò così il limite del dominio veneziano come quello del dominio milanese, gettando le basi per un sistema d’equilibrio. Nel corso del XIV sec., la Repubblica consolidò il regime oligarchico (già affermatosi con la serrata del Maggior consiglio nel 1297), e il patriziato veneziano monopolizzò per cinque secoli il potere, preservando la Repubblica dagli attentati alla sua integrità territoriale. Diverso fu il destino della repubblica di Genova, sotto tanti aspetti simile alla sua grande rivale nell’imperialismo mercantile in Oriente. Impegnata nel  XIII sec. a contrastare a Venezia il predominio nell’area bizantina e a eliminare la concorrenza di Pisa (battuta alla Meloria nel 1284), nei secc.  XIV e  XV Genova cercò stabilità interna e sicurezza nelle signorie esterne: i Visconti, poi gli Sforza, e i re di Francia. La sua politica rimase così subordinata a quella di tali maggiori potenze dalle quali d’altronde dipendeva per ragioni geografiche la sua attività mercantile.

Altro grande Stato era la repubblica di Firenze, potenza mercantile di importanza europea, dominata dalla borghesia d’affari; il regime oligarchico tuttavia, dopo le intransigenti affermazioni della fine del Duecento, venne temperandosi, nel senso di una più aperta democrazia di produttori, artigiani e mercanti. La sua floridezza economica resistette integra fino a mezzo il Trecento, nonostante le ininterrotte lotte di parte tra guelfi e ghibellini nel XIII sec. e, dopo la vittoria dei guelfi, tra i Bianchi e i Neri agli inizi del  XIV sec., poi tra magnati e popolani, e tra popolo e plebe, sino al tumulto dei Ciompi (1378). Correlativamente i suoi ordinamenti si trasformavano, oscillando tra l’oligarchia borghese e la democrazia vera e propria, con momentanee signorie, fino alla definitiva affermazione della casa dei Medici con Cosimo il Vecchio (1434). Nel quadro generale della politica italiana, Firenze tenne quasi ininterrottamente la parte di roccaforte del guelfismo che, nell’accezione locale, significò sostegno della monarchia angioina da Carlo I a Roberto il Saggio (1266-1343), gestione degli interessi franco-papali in Italia (mentre il papato era ad Avignone) e opposizione intransigente a ogni tentativo di egemonia sull’Italia. La Repubblica, che intanto realizzava il predominio su tutta la Toscana, veniva così assumendo la veste di paladina dell’equilibrio tra gli Stati italiani, e al tempo stesso della libertà dell’Italia nei confronti delle potenze transalpine; in questa veste Cosimo de’ Medici patrocinò la pace di Lodi del 1454, e sull’equilibrio tra la potenza veneziana e la milanese imperniò un regime di convivenza pacifica, fragile ma durato quarant’anni grazie alla vigile e intelligente attività diplomatica sua e del suo successore, Lorenzo il Magnifico.

Gli Stati della Chiesa, in assenza dei papi, si frazionarono in irrequiete e ambiziose signorie, e Roma stessa, sollevata da Cola di Rienzo, fu sul punto di sottrarsi alla potestà pontificia (1347). La missione restauratrice del cardinale Egidio di Albornoz (1353-1367) esercitò bensì una benefica influenza sui domini pontifici, e consentì a Urbano V, e infine a Gregorio XI, di ritornare a Roma; ma lo Scisma d’Occidente, apertosi alla morte di quest’ultimo, rigettò gli Stati nel disordine e nella guerra, fino alla lenta restaurazione, iniziata alla chiusura dello Scisma (concilio di Costanza), da Martino V (1417- 1431) e continuata dai suoi successori nel corso di tutto il Quattrocento. Niccolò V patrocinò la pace e la solidarietà tra gli Stati italiani, e li raccolse in Santa lega; ma la sua linea politica venne in seguito abbandonata da Sisto IV (1471-1484) e da Innocenzo VIII (1484-1492) che praticando largamente il nepotismo turbarono l’equilibrio della penisola l’uno con gli interventi a Firenze (in occasione della congiura dei Pazzi contro Lorenzo e Giuliano de’ Medici) e a Ferrara (per la progettata spartizione del ducato), l’altro con l’intervento nel regno di Napoli (in occasione della congiura dei baroni contro Ferdinando I [Ferrante] d’Aragona).

Nel Mezzogiorno, l’insurrezione e la guerra dei Vespri (1282-1302) separarono il regno di Sicilia, divenuto dominio aragonese, dal regno di Napoli, conservato dagli Angioini; e solo quest’ultimo continuò a svolgere una parte, talora di primo piano, nella storia d’Italia. Durante il regno di Roberto il Saggio (1309-1343), esso fu certamente lo Stato più prestigioso e influente della penisola, grazie alla figura del sovrano, capo del guelfismo trionfante in Italia, tutore degli interessi del papato in esilio, garante della libertà della penisola di fronte alle rivendicazioni imperiali di Enrico VII e di Ludovico il Bavaro, cardine ideale di un Impero franco-angioino con propaggini in Oriente, impeccabile cavaliere, letterato e prodigo coi letterati (forse il primo principe-mecenate d’Europa). Ma la floridezza di Napoli fu dovuta anche, in buona parte, al largo appoggio concesso al regno dalle finanze fiorentine. Il regno infatti non aveva fondamenti saldi, e non solo nelle finanze e nell’economia, ma anche nelle strutture, prevalendo ancora una società essenzialmente feudale in cui le istituzioni statuali avevano scarso peso. Ciò determinava le incertezze e le deficienze del programma politico, su cui pesava la perdita, onerosissima, della Sicilia. Alla morte del re, il Napoletano precipitò in una serie di guerre civili per la successione, che toccò infine ad Alfonso V il Magnanimo, re d’Aragona e di Sicilia (1442); così anche l’Italia meridionale finì nell’orbita iberica, come la Sicilia e, dal terzo decennio del XIV sec., la Sardegna. Morto Alfonso, il regno tornò indipendente sotto il figlio naturale Ferdinando I (Ferrante) [1458- 1494], si inserì nel sistema d’equilibrio e prese parte attiva alla vita politica e alla civiltà intellettuale della Rinascenza; ma il dominio franco-angioino e quello aragonese insinuarono nella società locale, già dissestata, fermenti di ulteriori discordie e di dissoluzione (tipica, la congiura dei baroni del 1485-1486), i quali predisposero il paese a divenire, tra la fine del  XVsec. e il principio del  XVI, campo di battaglia tra l’imperialismo francese e quello spagnolo, destinato a prevalere.

Alla fine del medioevo l’Italia si configurava come un sistema di cinque Stati maggiori: Napoli, Roma, Firenze, Venezia e Milano, legati da un fragile patto di non aggressione che, nonostante alcuni attentati interni, resistette per un quarantennio (1454-1494). Tale “sistema di equilibrio” rappresentava l’epilogo di un secolo e mezzo di lotte di predominio, durante le quali avevano sfiorato il successo gli Angioini di Napoli nella prima metà del Trecento, i Visconti di Milano nella seconda, Venezia nella prima metà del Quattrocento; Firenze, dopo aver concorso a sventare tutte le egemonie incipienti, si pose infine ad arbitra dell’equilibrio, identificandone le ragioni con quelle della libertà, ossia dell’indipendenza, della penisola. Molti Stati minori sopravvivevano incuneati tra i maggiori, grazie soprattutto alle loro gelosie: Ferrara degli Estensi, Mantova dei Gonzaga, Rimini dei Malatesta, Urbino dei Montefeltro, le repubbliche di Lucca e di Siena, altri anche minori. Ai margini del sistema, oltre a Genova con la costa ligure e la Corsica, vi erano i domini dei conti e, dal 1416 (con Amedeo VIII), duchi di Savoia, a cavaliere delle Alpi, ma, sebbene largamente estesi in Piemonte, e con sbocco al mare (Nizza, 1388), ancora gravitanti più verso la Francia che verso la valle del Po, e gli antichi marchesati aleramici del Monferrato e di Saluzzo; all’estremo opposto dell’arco alpino, gli antichi domini friulani e giuliani del patriarcato di Aquileia erano invece venuti nella prima metà del  XV sec. in possesso di Venezia. Mentre sulla penisola non pesava alcuna pressione tedesca o slava, gravavano sempre più le pressioni francesi, per le aspirazioni dei re di Francia a rivendicare il Mezzogiorno e la Sicilia, e quelle spagnole, per la presenza degli Aragonesi in Sicilia, Sardegna e Napoli. Tali pressioni si manifestavano direttamente o indirettamente, ed erano sensibili anche nell’ambito della curia romana che, dopo la lunga preponderanza francese nel  XIVsec. e il travagliato ripristino di quella italiana nella prima metà del   XV sec., si aprì successivamente anche all’influenza spagnola coi due papi di casa Borgia, Callisto III e Alessandro VI.

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