SINTESI DELLA DELLA GINESTRA

SINTESI DELLA DELLA GINESTRA

Sintesi della Canzone libera “La Ginestra”.

DI GIACOMO LEOPARDI



La sintesi della “Ginestra” sviluppa il lungo ragionamento filosofico del Leopardi, ma soprattutto è una violenta accusa che il poeta fa contro il pensiero filosofico dei moderati liberali in nome della sua filosofia pessimistica, “dura, ma vera”. Nella prima strofa il Leopardi parte dalla constatazione della presenza della Ginestra nelle terre desolate del Vesuvio rallegrate dal suo odore profumato. La Ginestra diventa subito il simbolo della lotta dell’umanità contro la natura e della sopravvivenza dell’uomo contro il passare del tempo che trasforma ogni cosa. La Ginestra è il fiore che accompagna il trascorrere del tempo, è amica degli spazi desolati e tristi e testimonia la grandezza dell’impero di Roma. Ora la Ginestra ricopre quei campi che un tempo furono terreni fertili e floridi, pieni di palazzi e dimore gradite per il riposo dei potenti; i campi furono ricoperti da città famose  che il Vulcano ricoprì con la sua lava insieme ai suoi abitanti e la Ginestra manda un profumo al cielo che consola questi luoghi desolati.  Inizia qui, da parte del poeta, la critica e la violenta accusa contro l’ottimistica filosofia dei cattolici liberali. Venga qui chi vuol vedere la condizione misera dell’umanità e qui potrà vedere anche quanto la natura ha a cuore il genere umano, che la dura matrigna può annientare con improvvisi sussulti sotterranei.
In queste terre le magnifiche sorti e progressive dell’umanità sono ben visibili.
Nella seconda strofa il Leopardi si scaglia direttamente contro la filosofia dei cattolici liberali, fiduciosi nel progresso dell’umanità, sorretto dal progredire dalla scienza. Rivolgendosi direttamente al XIX secolo il Leopardi lo accusa di aver abbandonato la via del pensiero rinascimentale che aveva aperto la strada al pensiero illuministico che a sua volta aveva distrutto la barbarie della civiltà medioevale. Ora invece il nuovo pensiero dei cattolici liberali fa marcia indietro e chiama “avanzare” questo che è, invece, regresso culturale e filosofico. Il Leopardi a questo punto proclama la sua estraneità all’infantile pensiero cattolico e dice che lui non morirà con questa vergogna; il poeta vuole inoltre manifestare tutto il suo disprezzo verso il secolo superbo e sciocco prima di morire, ben sapendo che sarà dimenticato chi troppo al suo tempo dispiacque. Tu, o secolo superbo e sciocco, vai cercando la libertà politica e sociale, ma sei servo di utopie umanitarie e credenze religiose, e hai abbandonato il pensiero illuministico che ha superato, in parte, la barbarie medioevale e che da solo ha risollevato la civiltà che guida il progresso civile e sociale. E tu, secolo, non hai accettato la verità che il pensiero illuministico ha messo in chiaro e cioè l’aspra sorte e il depresso luogo che la natura ha assegnato all’umanità. Per questo motivo, tu secolo, hai voltato le spalle alla luce della filosofia dei lumi e chiami vile, chi segue la filosofia illuministica, e nobile chi, per follia o per astuzia, innalza il livello degli uomini fin sopra le stelle.
Nella terza strofa il Leopardi traccia la grande distinzione tra l’uomo dalla coscienza reale e l’uomo dalla falsa coscienza. Il primo è quello che accetta la sua condizione misera e malata, senza false illusioni sul suo destino ultraterreno e anzi parte proprio da questa condizione per unirsi a tutta l’umanità per vincere la natura. Il secondo è l’uomo che misconosce le sorti dell’umanità e che persegue felicità straordinarie, che sono sconosciute, non solo all’umanità, ma a tutto l’universo.
Il Leopardi conclude dicendo che solo su una conoscenza vera si può costruire una nuova società, dove l’onesto e leale consorzio civile, la giustizia e la solidarietà avranno ben altro fondamento che non le favole superbe della religione, sulle quali la civiltà del popolo è di solito tanto solida quanto può stare ciò che ha il fondamento sull’errore.
Nella quarta strofa il Leopardi si scaglia contro l’illusione e l’utopia dell’antropocentrismo. Il poeta si siede dall’alto a contemplare il cielo stellato e vede le innumerevoli galassie rispetto alle quali la terra e il mare non sono che un punto, così come le galassie appaiono alla terra. Di fronte a questa piccolezza della terra e degli uomini sperduti nell’universo, allora che cosa diventa l’umanità? Niente. E se a questa pretesa degli uomini si aggiunge anche la presuntuosità dell’umanità di voler essere la padrona e il fine della terra, umanità che ha immaginato che gli Dèi siano venuti quaggiù per parlare con lei e che pensa, perfino che la presente civiltà sia la più avanzata, allora un sentimento di ripulsa e di commiserazione e un pensiero di scherno assale il poeta, che non sa se in lui prevalga il riso di scherno o la pietà verso l’umanità.
Nella quinta strofa il poeta delinea una lunga similitudine per dimostrare come la natura sia indifferente ed imparziale nei confronti di tutti gli esseri viventi. Come un pomo, cadendo da un albero schiaccia e uccide una popolazione di formiche a loro insaputa, così il Vesuvio distrusse le antiche e ricche città che il mare bagnava. Ora su queste terre desolate sorgono altre città e il vulcano, ancora oggi, calpesta le antiche mura. La natura distrugge indifferentemente tutto e se la distruzione è più frequente tra le formiche e non tra gli uomini ciò, conclude il poeta, è dovuto soltanto al fatto che gli uomini si generano più lentamente delle formiche.
Nella sesta strofa il poeta se la prende anche con l’illusione del passare del tempo che è talmente veloce che ciò che successe ieri può ripetersi ancora oggi. Il povero contadino guarda la vetta del vulcano perché ha paura che si possa ripetere una nuova eruzione che distrugga il suo campicello e la sua modesta abitazione; se sente ribollire l’acqua del pozzo allora sveglia i suoi figli e sua moglie per scappare insieme dalla lava, che giungendo, si solidifica sopra i suoi beni. Anche il forestiero, che guarda dalla piazza di Pompei la cima del Vulcano, vede il bagliore della lava che attraversa la città, come una torcia sinistra che attraversa i palazzi vuoti e rosseggia in tutti i luoghi intorno ad essa. Intanto i popoli scompaiono, le lingue spariscono e la natura ignara dell’umanità e del passare del tempo si evolve così lentamente che sembra stare immobile. Ma l’umanità in mezzo a tanta indifferenza della natura si proclama eterna.
Nell’ultima strofa il poeta, dopo aver supposto, nelle strofe precedenti, la stoltezza e la superbia dell’umanità, quasi per un senso di orgoglio, si ravvisa, e con un colpo di bontà, si rivolge di nuovo alla Ginestra che di fronte alla distruzione passata, imminente e futura, diviene l’allegoria del poeta stesso e dell’umanità, la quale, solo comportandosi come la Ginestra, potrà sopravvivere alla natura. La Ginestra sarà annientata dalla potenza distruttrice della lava, ma si piegherà senza invocare la misericordia del vulcano, né si eleverà con forsennato orgoglio di fronte alla natura, perché da essa sarà annientata e perché sa che, né da Dio, né da se stessa, ha ricevuto l’immortalità, a differenza dell’uomo che ha la presunzione di credersi immortale.

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