SENECA ed il concetto di tempo

SENECA ed il concetto di tempo


-Lucio Anneo Seneca nacque a Corduba, capitale della provincia romana dell’Hispania Baetica, negli ultimi anni del I sec. a.C. (tradizionalmente il 4 a.C.); la gens Annaea era di rango equestre e il padre, Seneca il Retore, viene ricordato nella storia letteraria come autore di controversiae e suasoriae. Compí studi di retorica e filosofia a Roma: i suoi maestri lo orientarono ad un ideale ascetico, di progressiva conquista di una piena libertà spirituale; tra di essi gli fu particolarmente caro lo stoico Attalo, frequentemente ricordato nell’epistolario. Fin da giovane non dovette godere di buona salute, tanto che, terminati gli studi, si recò in Egitto per curare in un clima piú adatto un grave male da cui era affetto; sulla natura di questa malattia c’è ancora incertezza tra gli studiosi. Nel 31 d.C., all’indomani della caduta di Seiano, crudele prefetto del pretorio di Tiberio, tornò a Roma, deciso a dedicarsi alla carriera forense e ad intraprendere la strada della politica: nel 38, quando era imperatore Caligola, ottenne la questura, primo gradino del cursus honorum; in seguito ebbe accesso alla corte imperiale ed ottenne grandi successi grazie alle sue brillanti capacità oratorie, ma nel 39 – forse a causa di un discorso inopportuno pronunciato alla presenza del princeps – corse il rischio di essere condannato alla pena capitale. Nel 41, dopo la presa di potere di Claudio, fu coinvolto nei complessi intrighi di corte intessuti dall’imperatrice Messalina e relegato in Corsica, in seguito ad un’accusa di adulterio. Il forzato soggiorno in quella terra semideserta, senza la speranza di un immediato ritorno, lo avviò definitivamente alla riflessione filosofica: negli otto anni di permanenza in quell’isola selvaggia si avvicinò allo stoicismo, ma effettuò anche diversi tentativi per poter rientrare a Roma, tra i quali l’invio di un’adulatoria consolatio al potentissimo Polibio, liberto di Claudio, a cui era morto il fratello.

Soltanto dopo la condanna a morte di Messalina, implicata in una congiura contro il consorte, S. venne richiamato dall’esilio: la nuova imperatrice, Agrippina minore, vide in lui l’ideale precettore del figlio di primo letto Domizio, il futuro imperatore Nerone, che, adottato da Claudio, era destinato alla successione per ragioni di maggiore età rispetto a Britannico, figlio dello stesso Claudio e di Messalina. Impegnatosi a fondo nell’insegnamento, S. si illuse di poter educare il suo allievo ai valori dell’humanitas e della tolleranza, indicandogli la figura di Augusto come modello di equilibrio e rispetto delle tradizioni, e, nello stesso tempo, indirizzandolo alle arti, care al mondo ellenico, del canto, della musica, della ginnastica. Quando Nerone prese il potere, nel 54, a soli diciassette anni di età, S., pur mantenendosi in una posizione defilata, continuò ad influenzare positivamente il giovane princeps, ispirando alcuni atti significativi della sua politica, come i provvedimenti per migliorare la condizione degli schiavi e il progetto di riforma fiscale, e riuscendo nello stesso tempo ad equilibrare i rapporti tra l’imperatore e il Senato. Al termine di questo lungo periodo di serenità – il cosiddetto “quinquennio felice”, dal 54 al 59 – la prepotente affermazione della personalità dello imperatore, deciso tra l’altro a ripudiare la moglie Ottavia per legarsi a Poppea Sabina, accentuò gravi contrasti con la madre, che, in concorrenza con lo stesso S. e con il prefetto del pretorio Afranio Burro, tentava di esercitare una decisa influenza sul giovane. Alle forti pressioni di Agrippina, che minacciava di promuovere la salita al trono del fratellastro Britannico, Nerone non esitò a rispondere con una reazione violentissima: dapprima fece uccidere il rivale, poi, a breve distanza di tempo, ordinò la morte della stessa madre; è difficile valutare quale sia stato l’atteggiamento di S. in questa vicenda: sembra comunque che non rimase estraneo all’organizzazione del matricidio o quantomeno – secondo lo storico Tacito – non fece nulla per impedirlo. Nel 62, dopo la morte di Burro, forse avvelenato, e di Ottavia, esiliata e poi uccisa per ordine dell’imperatore, S. decise di ritirarsi dalla vita politica; Nerone, sempre piú isolato, lo avrebbe voluto ancora al suo fianco, ma il suo antico precettore fu irremovibile, manifestando un forte desiderio di tornare alla meditazione filosofica e adducendo anche motivi di salute. In questo periodo egli si dedicò ad opere di grande impegno, spingendosi con ottimi risultati anche nel campo della poesia tragica.

Nel 65 venne scoperta la congiura antineroniana “dei Pisoni” (dal nome del suo principale promotore, il nobile Gaio Calpurnio Pisone); ad essa aderí Lucano, nipote del filosofo. Anche S. fu accusato di averla sostenuta; corse persino voce che alcuni dei congiurati avessero deciso di elevare al trono imperiale non Pisone, ma lo stesso S.. Inviatogli da Nerone l’ordine di uccidersi, lo accolse serenamente e morí alla maniera di Socrate, mentre conversava di filosofia con gli amici (aprile 65).


Il tempo nell’opera di Seneca 

Seneca, che deriva la sua concezione sul tempo dagli stoici (rivalutazione del tempo nel suo dinamismo e nel suo perenne fluire), si sofferma a riflettere in numerosi passi delle sue opere sul concetto di tempo, senza però mai farne oggetto di una trattazione specifica. Il tempo assume in S. una connotazione prevalentemente etica : è il tempo vissuto nell’inquietudine di una ricerca esistenziale e nel timore che esso sfugga all’uomo troppo preso da occupazioni terrene e quindi incapace di farne buon uso.

La riflessione sul tempo, tema centrale nell’opera senecana, ruota essenzialmente attorno a due poli:

il tempo come entità fuggevole e caduca, dalla quale il sapiens deve affrancarsi e che l’uomo comune impiega in occupazioni dispersive, e, viceversa,

il tempo come unico bene in possesso dell’uomo, strumento per raggiungere la perfezione morale e la saggezza. Questi due aspetti apparentemente contraddittori fra loro sono accomunati da un unico presupposto filosofico, che fa leva non sulla “quantità” ma sulla “qualità” del tempo: il tempo è fuggevole, labile e per definizione caduco, ma, se usato proficuamente, al fine di raggiungere la saggezza, è l’unica nostra vera ricchezza.

Non il tempo, ma il suo uso dipende da noi: a dispetto della sua precarietà, il tempo della nostra vita è l’unica dimensione attraverso la quale ci è dato assurgere alle verità filosofiche, raggiungere la perfezione della saggezza. Il sapiens, che avrà fatto buon uso del suo tempo, riuscirà ad elevarsi al di sopra della condizione mortale e a vivere, simile ad un dio, in un presente atemporale, privo di desideri, timori e speranze.


Fugacità del tempo

Il senso della fuga del tempo e della precarietà delle cose umane percorre tutta l’opera di S. ; a dargli espressione S. utilizza tre metafore; il tempo come un fiume che scorre inarrestabile (De brev. vit. 8,5″ andrà il tempo della vita per la via intrapresa e non tornerà indietro né arresterà il suo corso; non farà rumore, non darà segno della sua velocità; scorrerà in silenzio; non si allungherà per editto di re o favore di popolo; correrà come è partito dal primo giorno, non farà mai fermate, mai soste”) , il punto nel quale si risolve e si vanifica l’esistenza umana (Ep. ad Luc. 49,3 “è un punto quello che viviamo, e ancor meno di un punto”), l’abisso nel quale si perde ogni cosa (Ep. ad Luc. 49,3 “tutte le cose cadono nel medesimo abisso”)

In S. il motivo della fuga “rapinosa” del tempo si tinge spesso dei toni di un’angosciosa consapevolezza, che guarda all’instabilità e alla precarietà delle sorti umane; la riflessione sul tempo che scorre si trasforma così, spesso, in una penosa riflessione sulla morte (Ep. ad Luc.99,9 ”  in tanta fluttuazione delle cose umane niente per alcuno è certo se non la morte“; De brev. vit.7,3” ci vuole tutta una vita per imparare a vivere, e, ciò che ti stupirà di più, ci vuole una vita per imparare a morire“). 

Il Tempo nel De brevitate vitae e nelle Epistole ad Lucilium

Al tempo, al suo significato e al suo uso, S. dedica un intero dialogo, il De brevitate vitae, composto tra il 49 ed il 54d.C.; il dialogo sviluppa come tema centrale l’opposizione tra l’atteggiamento degli “occupati” che “scialacquano” il proprio tempo disperdendosi in occupazioni futili, ed il “sapiens”, che, vivendo in aristocratica solitudine, dedica il proprio tempo alla sola conquista della saggezza.

La riflessione senecana sul tempo, che trova una sua prima, articolata espressione, nel De brev. vit. , si completa nell’epistolario. Se l’antidoto al fluire incessante del tempo è costituito dalla conquista di un’immortalità che “supera” il tempo, nel dialogo questa conquista si circonscrive ad una dimensione puramente intellettuale di “evasione” dal presente; il saggio è in grado di dominare col pensiero anche le età che lo hanno preceduto, in un’ideale comunione con i grandi spiriti del passato (De brev vit. 14,1″ Soli fra tutti sono sfaccendati quelli che dedicano il loro tempo alla saggezza, solo essi vivono; né solo della loro vita sono attenti custodi: vi aggiungono ogni età; tutti gli anni alle loro spalle sono un loro acquisto. Se non siamo mostri di ingratitudine, quei fari di luce, fondatori di sacre dottrine, sono nati per noi, hanno predisposto la vita per noi…, non siamo esclusi da nessun secolo, a tutti abbiamo libero accesso, e, se vogliamo evadere dalle angustie della debolezza dello spirito, è molto il tempo per cui spaziare”) .

Nelle Epistole l’ideale dell’atemporalità del saggio si concreta e si estende: il sapiens usa del tempo per uscire dal tempo, nella conquista di valori che del tempo non hanno più bisogno (101,8-9 ” Chi ogni giorno dà alla sua vita l’ultima mano, non sente il bisogno del tempo; da questo bisogno nascono il timore, la brama del futuro che ci rode l’animo…Come riusciremo a sfuggire a tale agitazione? In un solo modo: se la nostra vita non si espanderà al di fuori, ma si concentra in se stessa; giacché è in balia del futuro colui per il quale il presente è vano. Ma quando non ho più alcun debito verso di me, e quando l’animo, ben saldo, sa che non c’è differenza fra un giorno e un secolo, esso guarda dall’alto tutti i giorni e gli eventi futuri e considera ridendo allegramente il succedersi del tempo”; 92,25 ” Qual è la caratteristica della virtù? Essa non ha bisogno dell’avvenire e non fa il computo dei suoi giorni: in uno spazio di tempo quanto vuoi breve giunge al pieno possesso dei beni eterni“) . 

Seneca ed il “carpe diem” epicureo

La valorizzazione attenta di ogni attimo dell’esistenza è il mezzo attraverso il quale è possibile raggiungere la saggezza e superare la debole condizione umana (Ep. 101,10 “perciò affrettati, o mio Lucilio, a vivere, e considera ogni giorno una vita“). Il concetto del vivere pienamente in ogni istante della propria vita è, anche, ideale epicureo, e ricorre come si sa in Orazio, Odi I,11 vv7-8 “dum loquimur, fugerit invida/ aetas; carpe diem, quam minimum credula postero”; Odi III,29 vv41ss.” Ho vissuto. Offenda pure domani Giove di nere nubi il cielo o brilli il sole, non potrà rendere vano il passato, né disperdere o mutare quello che mi ha dato l’ora fuggitiva”.

Le analogie tra il concetto espresso da Orazio e quello espresso da Seneca tradiscono però una grande differenza di impianto: alla base del carpe diem epicureo c’è il concetto del vivere intensamente ogni attimo dell’esistenza, capitalizzandone gioie e piaceri, in un’ottica “distensiva” dello spirito. Nel concetto stoico del “vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo” si concretizza invece l’ideale di una pratica filosofica sempre tesa alla conquista della saggezza, in lotta con il tempo che scorre implacabile; un’ottica, quindi, che non mira alla distensione, quanto piuttosto alla tensione dello spirito. Padroneggiare il presente ed affrancarsi dal domani diventa in Seneca un invito al possesso integrale di se stessi, non solo e non tanto, quindi, un richiamo al carattere effimero dell’esistenza.  

N.B.

Le sentenze ed i motti proverbiali che chiudono le lettere dei primi 3 libri costituiscono la componenente parenetica dell’epistolario senecano. (da parenesi, termine di derivazione greca dal verbo paraineo “esorto”, che ha il significato di “esortazione”, riconducibile a motivi o caratteri oratori) 

Epistulae morales ad Lucilium I, 1-5 

Il  primo passo per riprendere il controllo di sé è il controllo del proprio tempo: la soluzione di questo problema è per Seneca il banco di prova e la condizione preliminare per un giusto avvio alla sapienza, cioè alla filosofia e alla vita impostata secondo principi filosofici. La lettera contiene la puntualizzazione di alcune nozioni importanti, come la iactura temporis, la perdita del tempo che avviene senza che ci accorgiamo di perderlo (parr. 1 e 2), o come l’osservazione che. nessuno pone un prezzo al tempo, considerandolo res vilissima, cosa di poco conto, mentre è il bene più prezioso che possediamo (par.3). Nei due paragrafi conclusivi (4 e 5) si hanno esortazioni al corretto uso e alla valutazione costante del proprio tempo

Nelle prime lettere a Lucilio, Seneca vuole evitare il tono trattatistico e richiamare piuttosto il carattere leggero e confidenziale della lettera, intesa come comunicazione personale. La novità, rispetto alla lettera tradizionale, non sta nel tono, che anzi rimane semplice e vicino alla sensibilità del destinatario, ma nei contenuti, che non sono le solite notizie personali e i fatti quotidiani delle lettere, ma argomenti filosofici, principi di vita, che devono avviare il destinatario all’interesse per la filosofia e alla riforma della propria esistenza.

Acceso è l’invito a distaccarsi dalle attività che sottraggono tempo, in corrispondenza con l’atteggiamento finale di Seneca nei confronti della vita pubblica, che ormai, in questa fase, egli vede compromessa e a lui preclusa dall’atteggiamento tirannico e dai crimini di Nerone.

Da un punto di vista stilistico è da rilevare anzitutto il tono, rassicurante e quasi affettuoso, di amico coinvolto nella vicenda spirituale di un amico: Ita fac, mi Lucili.. (par. 1) e ancora Fac ergo, mi Lucili, quod facere te scribis… (par. 2). Altro aspetto significativo è l’uso di modelli analogici, che rendono visibile l’astrazione del pensiero, come il ricorso all’immagine del tempo-denaro (par. 1 e più esplicitamente par. 4). Proprio questa necessità di fornire una sapienza subito accostabile e fruibile da parte del destinatario spinge Seneca a fare ricorso anche più del consueto alle sententiae che concentrano in poche, dense parole importanti principi filosofici, come dum differtur, vita transcurrit e omnia aliena sunt, tempus tantum nostrum est.


Sequenze 

1 Occorre salvare il tempo che ci viene sottratto in vari modi

“Fa’ così, o mio Lucilio, rivendica il possesso di te stesso, e il tempo che finora o ti veniva portato via, o ti veniva sottratto, o ti sfuggiva, raccoglilo e custodiscilo. Convinciti che è così come scrivo: certi spazi di tempo ci sono portati via, altri ci sono sottratti di nascosto, certi scorrono via. Tuttavia la più vergognosa di tutte è la perdita di tempo che avviene per negligenza . E se vuoi badare, gran parte della vita sfugge nel fare il male, una grandissima parte nel non far nulla, tutta la vita a fare altro.

2 Occorre valutare il presente per non essere dipendenti dal futuro

Chi mi indicherai che determini un prezzo per il tempo, che dia un valore al giorno, che si renda conto di morire ogni giorno? In questo ci sbagliamo, che guardiamo la morte avanti a noi: invece gran parte di lei è già alle nostre spalle. Tutto il tempo dietro a noi, lo tiene in pugno la morte. Fa’ dunque, o mio Lucilio, quello che mi scrivi di fare già, abbraccia tutte le tue ore, avverrà così che tu dipenda meno dal domani , se allungherai la mano sull’oggi.

3 Il tempo è l’unico nostro bene e va difeso e custodito

Mentre si rincorre, la vita se ne va. Tutto appartiene ad altri, solo il tempo è una cosa nostra; la natura ci ha immesso nel possesso di un solo bene, fugace e sfuggente, dal quale ci caccia chiunque lo voglia.. E tanta è la stoltezza dei mortali che si riconoscono debitori (imputari sibi patiantur), una volta ottenutale (cum inpetravere), di cose che sono di scarsissima importanza e di scarsissimo valore e sicuramente recuperabili; nessuno invece, che abbia ricevuto del tempo, , ritiene di essere debitore di alcunché, mentre è questa l’unica cosa che neppure una persona grata può restituire.

4 Il tempo, come fosse denaro, va sempre tenuto controllato

Chiederai forse che cosa faccio io, che ti do questi consigli. Te lo dirò schiettamente: : quello che capita a chi spende molto (luxuriosum) ma che è sempre attento (diligentem), ho sempre il controllo della spesa. Non posso dire di non sprecare nulla, ma posso dire che cosa spendo, quanto e come, posso dire le cause della mia indigenza. Ma a me capita quello che capita a coloro che si sono ridotti in miseria non per colpa loro: tutti dimostrano comprensione, ma nessuno dà loro una mano.

5 Conclusione della lettera e riepilogo del contenuto dottrinale in forma di sentenza

Quale è dunque la conclusione? Non ritengo povero colui il quale, per quanto poco gli resti, ne ha abbastanza; quanto a te, tuttavia, preferisco che tu tenga da conto le tue cose, e comincerai al momento giusto. Infatti, come è sembrato ai nostri antichi, “è troppo tardi risparmiare quando si è al fondo” . Al fondo non resta solo la parte più piccola, ma anche la peggiore. Addio”