secondo Beccaria la pena di morte è ingiusta

secondo Beccaria la pena di morte è ingiusta

Dei delitti delle pene, pubblicato nel 1764 dall’italiano Cesare Beccarla, divenne nel ‘700 un
autentico “best seller”. In questo libro Beccaria metteva in discussione tutti i principali
aspetti del diritto penale dell’epoca. Innanzi tutto egli si sofferma sull’origine delle pene; in
altri termini, cerca di rispondere alla domanda: chi ha il diritto di punire un altro uomo e
perché?
Le leggi sono le condizioni, colle quali uomini indipendenti ed isolati si unirono in società,
stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile
dall’incertezza di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con
sicurezza e tranquillità. […] Ecco dunque sopra di che è fondato il diritto del sovrano di punire
i delitti: sulla necessità di difendere il deposito della salute pubblica dalle usurpazioni
particolari; e tanto piú giuste sono le pene, quanto piú sacra ed inviolabile è la sicurezza, e
maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi.
Dopo aver spiegato l’origine della società e del diritto di punire, Beccaria spiega qual è, a suo
parere, la finalità delle pene applicate a coloro che non rispettano le leggi.
Il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto
già commesso. […] Il fine dunque non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi
cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel metodo
d’infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione [tra al gravità della pena e la
gravità del delitto], farà una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini,
e la meno tormentosa sul corpo del reo.
Dopo queste importantissime premesse, Becccaria arriva al cuore della questione, spiegando
le ragioni che lo inducono ad escludere la pena di morte.
Uno dei piú gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse, e per
conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severità di un giudice inesorabile, che, per
essere un’utile virtù, dev’essere accompagnata da una dolce legislazione. La certezza di un
castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un
altro piú terribile, unito colla speranza dell’impunità. […] I paesi e i tempi dei piú atroci
supplizi furon sempre quelli delle piú sanguinose ed inumane azioni, poiché il medesimo
spirito di ferocia che guidava la mano del legislatore, reggeva quella del parricida e del
sicario.
Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non
certamente quello da cui risulta la sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di
minime porzioni della privata libertà di ciascuno; esse rappresentano la volontà generale, che
è l’aggregato delle particolari.
Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo? Come mai nel
minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la
vita? […]Ma colui che si vede avanti agli occhi un gran numero d’anni, o anche tutto il corso
della vita che passerebbe nella schiavitù e nel dolore in faccia a’ suoi concittadini, coi quali
vive libero e sociabile, schiavo di quelle leggi dalle quali era protetto, fa un utile paragone di
tutto ciò coll’incertezza dell’esito dei suoi delitti, colla brevità del tempo di cui ne godrebbe i
frutti. L’esempio continuo di quelli che attualmente vede vittime della propria inavvedutezza,
gli fa una impressione assai piú forte che non lo spettacolo di un supplizio che lo indurisce piú
che non lo corregge. […] Non è utile la pena di morte per l’esempio di atrocità che dà agli
uomini. Se le passioni o la necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue
umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbero aumentare il fiero
esempio, tanto piú funesto quanto la morte legale è data con istudio e con formalità. Parmi un
assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono
l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio,
ordinino un pubblico assassinio. […]Ecco presso a poco il ragionamento che fa un ladro o un
assassino, i quali non hanno altro contrappeso per non violare le leggi che la forca o la ruota.
[…] Quali sono queste leggi ch’io debbo rispettare, che lasciano un così grande intervallo tra
me e il ricco? Egli mi nega un soldo che li cerco, e si scusa col comandarmi un travaglio che
non conosce. Chi ha fatte queste leggi? Uomini ricchi e potenti, che non si sono mai degnati
visitare le squallide capanne del povero, che non hanno mai diviso un ammuffito pane fralle
innocenti grida degli affamati figliuoli e le lagrime della moglie. […] È meglio prevenire i
delitti che punirgli. Questo è il fine principale d’ogni buona legislazione, che è l’arte di
condurre gli uomini al massimo di felicità o al minimo d’infelicità possibile, per parlare
secondo tutt’i calcoli dei beni e dei mali della vita.