SCUOLA MEGARICA

SCUOLA MEGARICA

SCUOLA MEGARICA


Fu fondata da Euclide di Megara (450 ca./380-375 ca. a.C.), che spesso si era recato ad Atene per incontrare Socrate.
Lo sforzo di questa scuola fu quello di conciliare la metafisica eleatica dell’unico essere con la teoria del bene morale del maestro.
Così il concetto di bene venne metafisicizzato, nel senso che divenne una realtà ontologica, ossia l’unico bene (di cui le singole virtù erano solo una manifestazione parziale) venne fatto coincidere con l’unico essere di cui avevano parlato gli eleati (bene = essere).
Conseguenza di questa impostazione fu la netta svalutazione del molteplice e del divenire, poiché ciò che non era unico, cioè il molteplice ed il divenire, costituiva una realtà apparente e falsa.
L’influenza della scuola eleatica fu attestata soprattutto dall’importanza che i megarici dettero alla dialettica e alle sue argomentazioni paradossali. A proposito dei megarici si è parlato infatti di eristica, ossia di un uso paradossale ed estremo della dialettica in base al quale tutte le tesi potevano essere nello stesso tempo dimostrate e confutate.
L’eristica era a sua volta la conseguenza della convinzione fondamentale dei megarici, ossia l’idea secondo cui la conoscenza umana fosse sostanzialmente falsificante e illusoria in quanto si riferiva agli enti molteplici del mondo e al loro divenire, che però, come aveva insegnato Parmenide, costituivano una realtà apparente e illusoria.
I megarici quindi sostennero l’impossibilità di costruire un discorso veritiero e di comunicare una qualche verità: tutti i linguaggi umani erano convenzioni falsificanti, poiché con le parole si designavano cose distinte e molteplici che in realtà erano solo apparenze rispetto all’unico vero essere. Illusioni erano le cose ed illusioni erano le conoscenze e i discorsi (se paragonati all’unità metafisica dell’essere).
Da ciò derivava la convinzione eristica che tutti i discorsi fossero arbitrari, quindi dimostrabili come veri e confutabili come falsi.
In questo contesto, il problema della verità si frantumava e si disperdeva in una serie di giochi logico-linguistici che formavano i cosiddetti sofismi: nessuno poteva stabilire in assoluto cosa fosse vero e cosa falso.
Uno dei più noti fu quello attribuito ad Eubulide (IV secolo), un discepolo di Euclide: se un uomo dichiarava di essere un mentitore, quando parlava diceva il vero o il falso? Se affermava di dire il vero mentiva, cioè diceva il falso, e se affermava di dire il falso mentiva ancora, perché diceva il vero. Oltre ad Eubulide si segnalarono, con i loro sofismi, altri famosi dialettici, come Stilpone e Diodoro Crono. L’impossibilità di costruire un’autentica conoscenza fu evidenziata dalla critica che i megarici rivolsero alle definizioni, ossia a quei giudizi generali che collegavano un soggetto ad un predicato, del tipo “l’uomo è un animale”.
Per i megarici risultava in un certo senso arbitrario collegare due termini diversi che, proprio perché diversi, denotavano cose diverse: animale infatti si poteva predicare di tanti altri enti, per cui la connessione tra un determinato soggetto e un predicato universale (nel senso che si riferiva ad un’intera classe di individui) produceva solo una conoscenza vaga, imprecisa e vuota.
Così i megarici pervennero alla conclusione paradossale che non fosse possibile collegare e confrontare termini diversi, anzi che nulla fosse predicabile di qualcos’altro: non era possibile costruire definizioni. La paradossalità di questa posizione radicale era testimoniata dalla convinzione megarica secondo cui i soli giudizi possibili erano quelli di identità, ossia quelli del tipo “il rosso è rosso” e “il cane è cane”.
Il senso ultimo di queste teorie, che possono sembrare un po’ strane, stava nella svalutazione della conoscenza umana, ossia di tutta quella conoscenza che si allontanava dall’unica, profonda, metafisica verità, quella che affermava che l’essere è l’essere e tutto il resto è illusione.

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