San Martino Giosuè Carducci Analisi

San Martino Giosuè Carducci Analisi


La struttura metrica e le figure retoriche

Uno dei motivi della facilità di apprendimento mnemonico di questa poesia è la struttura metrica semplice, simile a quella delle filastrocche infantili che Carducci, nel 1871, aveva usato per Pianto antico.

La lirica è composta da quattro quartine di settenari e lo schema delle rime è ABBC.

Il fatto che l’ultimo verso di ogni strofa ha la stessa rima crea come una melodia di sottofondo che tende a tenere unita, musicalmente, tutta la breve composizione. E’ questa una caratteristica che era già stata utilizzata in alcuni Canti da Leopardi (per es. Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia).

I suoni di / ebbia/, / iggi /, /eggia / non hanno particolare funzione; ma nella prima strofa di San Martino diventano carichi di significato e rimandano alla dimensione del suono. Allo stesso modo i suoni / bor/, /ri /, / ir/, /spro/, /or/, /ra /, / ar / costituiscono la “melodia” della seconda quartina, sostenuta dal suono della a di ogni sillaba iniziale di verso (Ma, da, va, l’a-).  L’onomatopea domina la terza strofa: i suoni / ppi/, /cce/, /spied/, /scoppie/, / ttando/, /fischia/, /uscio/ servono a rappresentare i rumori che provengono dal focolare e lo zufolare soprappensiero del cacciatore. Il colore caratterizza, invece, l’ultima strofa, non tanto per gli aggettivi rossastre e neri, quanto per la presenza di vocali scure come la /o/ e la /u/ (rossastre, nubi, stormi, uccelli, esuli, vespero) che indicano un sentimento di tristezza, appena temperato da un lieve speranza che si manifesta nelle vocali di suono chiaro e nel rosso del tramonto (“rosso di sera, bel tempo si spera”).

Sostantivi molti, aggettivi pochi, due congiunzionii: La presenza di molti sostantivi e di pochi aggettivi è di per sé significativa. L’aggettivo viene usato per conferire ad un sostantivo un colore, un attributo, un valore che lo stemperino o lo rafforzino, che lo modifichino, insomma; il sostantivo da solo definisce e puntualizza, ritrae l’oggetto così com’è. In San Martino la relativa abbondanza dei sostantivi è funzionale ad una descrizione referenziale del paesaggio. L’insieme deve dare il risultato di un bozzetto, di un arazzo in cui le figure umane e la natura si sono fissate per sempre

Gli “irti colli”, però, e gli “esuli pensieri” non sono così semplici da spiegare.

Il poeta è, quindi, ricorso alla metafora: un aggettivo usato traslatamente può avere la stessa energia descrittiva di un insieme di parole atto a definire un elemento od un fenomeno. Così è per irti: le piante ormai privi di fogliame innalzano al cielo i loro rami nudi facendo apparire le colline come corpi ricoperti di spini, irti appunto.

“Esule” significa “chi va o è in esilio”; non è il caso, dunque dei “pensieri” carducciani. Qui la metafora è ancora più ardita, bisogna attuare qualche passaggio in più per poter arrivare al significato che il poeta ha voluto dare a questo aggettivo. Qualcuno pensa che possa essere interpretato nel senso di “tristi” , perché tali sono i pensieri di un esiliato; in questo modo negli ultimi tre versi il poeta esprimerebbe il desiderio di vedere volare via, lontano, come gli uccelli, i suoi tetri pensieri. Altri, invece, propongono di leggere “esuli” nel senso di “sperduti, che vagano lontano e si perdono nell’infinito”. Molto probabilmente “esuli” racchiude tutti e due i significati e forse qualche altro ancora che ci sfugge e che ci può essere suggerito dal suo ritmo sdrucciolo e dal quel cupo ed angoscioso suono della /u/ della seconda sillaba.


La rappresentazione dello spazio

Il paesaggio che ci appare nella prima quartina presuppone che l’osservatore (il poeta, ma anche il lettore) si trovi su un punto alto e panoramico, da cui l’occhio possa spaziare in lungo ed in largo. Da qui, seppure velate dalla nebbia, ci appaiono le colline maremmane che digradano verso il mare che, laggiù, infuria e rumoreggia sotto la spinta del maestrale. Nel cinema, questo modo di rappresentare il paesaggio si chiama “panoramica” ed è eseguito con un obiettivo grandangolare. Poi, la visione si restringe: dalla panoramica si passa al “campo lungo”; tra la nebbia appare il borgo, con le sue strade percorse da gente che sembra, nonostante la stagione, allegra. Il punto di osservazione è cambiato, non è più un posto panoramico; forse è una finestra alta dalla quale, oltre che osservare la vita del villaggio, si può sentire l’odore del mosto che fermenta nelle cantine.

L’inquadratura successiva è fatta con uno zoom; l’obiettivo riprende gli interni di una casa: è la spaziosa cucina contadina in cui il protagonista indiscusso è il focolare. L’occhio è attratto dallo spiedo che gira lentamente: si può anche sentire lo sfrigolio del grasso che cade sulle braci. Poi dal focolare si passa ad inquadrare il cacciatore, che se ne sta sull’uscio. La macchina da presa, seguendo il suo sguardo, si sposta dall’uscio verso il cielo, dove c’è una fuga di uccelli che si stagliano neri contro le rosse nubi del tramonto.

Così, dal paesaggio invernale, uggioso e triste, posto nella parte più bassa dello spazio, si è passati al borgo e alla casa, collocati sullo stesso piano dell’osservatore. Qui l’animo si è alquanto rinfrancato, alla constatazione che la vita continua a svolgersi nonostante la natura ostile, trovando anche momenti di serenità. Poi si passa al calore della casa; si può quindi guardare nella parte alta dello spazio, verso il cielo, dove si possono mandar via i pensieri tristi e dove le nubi si colorano di un lieve ottimismo.