ROSSO MALPELO FILOSOFIA E ANALISI 

ROSSO MALPELO FILOSOFIA E ANALISI


-Rosso Malpelo, indubbiamente, è il  racconto più organico, in cui è stata descritta, nei suoi vari momenti culminanti, la vita etica crepuscolare di un primitivo. Esso è significativo di tutta una tendenza del Verga: dai seguaci del naturalismo, i bruti e i primitivi erano osservati nella loro logica, nelle loro abitudini, nei loro vizi, con esattezza positiva e con una impassibile curiosità scientifica. I  b r u t i, per quest’arte naturalistica, restavano però sempre dei mostri; le loro vicende avevano qualcosa di patologico, le loro apparenti stranezze venivano studiate come un caso clinico dell’arte-scienza, era mantenuta la distanza tra l’occhio dell’osservatore e la povera carne umana tratta e sottoposta alla dura diagnosi.

La novità del Verga, di quest’artista che voleva essere impersonale, è questa: lo scrittore ha risvegliato l’uomo, dove gli altri vedevano il bruto, ed egli ha saputo calarsi nella profondità misteriosa del mondo interiore del barbaro. Stilisticamente, questa miracolosa adesione alla logica dei primitivi, si è tradotta in una specie di musica triste e monotona, con cui lo scrittore viene accompagnando la narrazione degli avvenimenti del protagonista. La prosa del Verga, in novelle di tal genere, procede innanzi, precisamente, con quella tale nenia lamentevole, a cui si è accennato, e che è come il commento lirico dello scrittore alla passione dei suoi personaggi; sicché ne vien fuori un racconto che è una trenodia narrativa, in cui la pienezza del capolavoro è data dalla giusta fusione degli elementi di cronaca e dei motivi melodici. Là dove invece la parte cronachistica del racconto s’accampa troppo seccamente su sé stessa; ivi anche l’arte e l’originalità di Verga si smorza; il quale, nelle sue cose più profonde, lo si direbbe più un lirico, anzi che un narratore, e si direbbe che la sua arte migliore finisca col ritrovarsi nei componimenti di più breve respiro (novella o romanzo), dove meglio si esaurisca la melodia di questo suo lamento o nenia compassionale. La vita musicale, con cui egli accompagna le vicende del mondo interiore dei suoi protagonisti, è certamente la nota più alta della sua poesia. Si è comunemente osservato, quanto sia difficile a cogliersi la psicologia degli uomini elementari, degli scemi, degli abbrutiti; un artista, davanti a quelle anime che nulla più hanno dell’anima, si ferma per lo più a certi dati esteriori, fa la psicologia sul sensibile, ma senza penetrare nel mistero di quei cuori primitivi e bestiali; e una psicologia fatta dal di fuori, cade necessariamente nell’artificio. Si stilizzano alcuni particolari fisici, e si crea un suono tragico con talune espressioni che, con ritmica monotonia ricompaiono solennemente ad ogni svolta del racconto, raggiungendo degli effetti di attonimento e di terrore, puramente verbali. Si pensi, per un esempio vicino, al D’Annunzio giovane di Terra vergine, che, proprio sotto l’influenza di Verga, ci descrive la vita dello scemo in Cincinnato: in questo caso, si tratta proprio di una descrizione, non di una rappresentazione interiore, descrizione che vorrebbe essere pervasa da un brivido tragico, quando la tragedia è soltanto fonetica e, tutt’al più, estetica. Ed è quello che avviene nella stessa Figlia di Jorio, sebbene con effetti superiori d’arte, dove, in verità, la psicologia di quei primitivi, di quei pastori d’Abruzzo, rimane inesplorata: giacché noi non conosciamo Aligi, Mila di Cedro, Candia della Leonessa, Ornella, Lazzaro di Roio, per quello che vive nell’animo loro, ma piuttosto perché essi sono abbassati o sollevati (se piace meglio) a note di colore e di musica del paesaggio abruzzese, il quale, a dire il vero, resta il sovrano protagonista della tragedia. I primitivi dannunziani non hanno un’anima, essi sono invece gli elementi di cui si compone il cosmo paesistico dello scrittore, ed hanno la stessa dignità, in quel cosmo, che potrebbero avere le acque di un ruscello, o le fronde, o le ombre di una macchia, o i belati di un gregge, o il crepitare della fiamma bella e purificatrice. Da ciò la particolare suggestione estetico-musicale di quel capolavoro del D’Annunzio.

Arte differente quella del Verga che, fedele a un suo istintivo cristianesimo, dà ai suoi primitivi il crisma dell’umanità, individua delle anime dove altri vedono solo dei corpi, e suscita la luce dello spirito in quel loro buio mondo interiore. Rosso Malpelo è uno di questi rinnegati, di questi riprovati dalla società, che riprende il suo posto tra gli uomini, per quel suo miscuglio di cattiveria e di magnanimità, e che gli altri non sanno intendere, perché uno stranissimo pudore della propria malvagità gli impedisce gli abbandoni buoni e fiduciosi. Ma la cattiveria di Rosso Malpelo è soltanto quella che un grande politico avrebbe chiamato magnanima ed eroica; giacché, se gli uomini non sanno essere del tutto buoni e del tutto cattivi, Rosso Malpelo sa essere cattivo fino in fondo, attingendo una sua tragica grandezza in questa ognor proterva e coerente perfidia. E la sua malizia ha un’origine etica: è la nequizia castigatrice d’altra nequizia, una vendetta esasperata, un peccato voluto, per correggere quasi un peccato originale del mondo. Dacché suo padre è morto nella cava, per la miseria di trentacinque tarì, ed egli non ha mai conosciuto carezze materne ed azzurro di cieli, per quel suo vivere, come un topo, nel buio sotterraneo di una cava di rena, egli sente non soltanto il suo destino, ma tutto il destino umano, come una iniqua condanna, come una soperchieria, un oscuro flagello. contro le quali cose bisogna sfogarsi cupamente, con tutto l’ardore dell’animo. E Malpelo si sfoga con l’asino grigio, caricandolo di legnate col manico della zappa; con Ranocchio. un ragazzetto debole e malaticcio, che egli p r e n d e a proteggere quasi per d a r s i il gusto di tiranneggiarlo; coi compagni, col padrone, e con sé stesso.

Sapendo che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un pezzo di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se li pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare modo loro.

La sua filosofia ha una logica terribile: picchiare per non essere picchiati, e, quando si è picchiati, rassegnarsi alle busse per imparare a picchiare più forte.

– L’asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi.

Oppure:

– Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi; così coloro su cui cadranno ti terranno per da più di loro, e ne avrai tanti di meno addosso.

Questo istintivo machiavellismo, questa politica centauresca è vissuta da Rosso Malpelo, non solo per aforismi, ma in atto, ché gli aforismi sono anzi la semplice conclusione, il corollario di questa rozza e implicita filosofia, la quale è il vivo respiro delle sue azioni. E la grande arte del Verga è consistita nel saper far nascere il gusto fermo della lotta e della vendetta dalle cose stesse: una logica così complessa, come quella di tipo machiavellico, calata in un cervello elementare, con una sapienza di toni e di chiaroscuri, in cui non cogli mai l’ombra della riflessione intellettualistica. Il Verga sa poco o nulla di machiavellismo libresco e di politica centauresca, ma quella rappresentazione aderente al mondo interiore del suo personaggio finisce con lo scoprire a nuovo tale logica belluina, questa filosofia del più forte e del più debole, che è germinale e istintiva nell’animo umano.

Come egli sa cogliere un altro momento della vita spirituale del suo protagonista; ed è il gusto tragico del paesaggio, quel paesaggio iroso e tenebroso che un poeta dottissimo cantò, celebrandolo in anima complessa. « Già non arride spettacol molle ai disperati affetti. » Anche Malpelo odiava le notti di luna, la « placida notte » e il « verecondo raggio della cadente luna », perché per lui che è fatto per vivere sotterra, « ci dovrebbe esser buio sempre e dappertutto ».

Pure, durante le belle notti d’estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla sciara, e la campagna circostante era nera anch’essa, come la sciara, ma Malpelo stanco dalla lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria dell’alto; perciò odiava le notti di luna, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là vagamente – allora la sciara sembra più brulla e desolata.

«Per noi che siamo fatti per vivere sotterra » pensava Malpelo « ci dovrebbe essere buio sempre e dappertutto ». La civetta strideva sulla sciara, e ramingava di qua e di là; ei pensava: « Anche la civetta sente i morti che son qua sotterra e si dispera perché non può andare a trovarli ».

Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo sgridava perché chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l’asino grigio aveva paura dei cani, che se lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano più il dolore di esser mangiate.

-Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti – gli diceva -e allora era tutt’altra cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna più aver paura dei topi, né dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali, e i topi ci stanno volentieri in compagnia dei morti.

Ranocchio invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c’era il paradiso, dove vanno a stare i morti che sono stati buoni e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. – Chi te l’ha detto? – domandava Malpelo, e Ranocchio rispondeva che glielo aveva detto la mamma.

Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da monellaccio malizioso che la sa lunga. – Tua madre ti dice così perché, invece dei calzoni, tu dovresti portar la gonnella-

   E dopo averci pensato su un po’:

– Mio padre era buono e non faceva male a nessuno, tanto che gli dicevano Bestia. Invece è là sotto, ed hanno persino trovato i ferri e le scarpe e questi calzoni qui che ho indosso io -.

E questo ingenuo momento leopardiano (ci serviamo dei termini i l l u s t r i per dare maggiore chiarezza al nostro discorso), calato in un’anima elementare, ha anch’esso tutte le contraddizioni che sono proprie della poesia più complessa. Il Leopardi cantore del fiore del deserto e dell’arida schiena dello sterminator Vesevo è pur il poeta delle vaghe stelle dell’Orsa, e della notte dolce e chiara e senza vento, e della cara luna, «al cui tranquillo raggio danzan le lepri nelle selve ». E anche Rosso Malpelo avrebbe i suoi abbandoni idillici, ma che son subito soffocati, se non per soggezione alle dottissime « erinni » e al dottissimo « fato », per obbedienza a quell’altro più rozzo dio, che si chiama il destino, e che non è meno disperante e tirannico, quel destino che ha fatto nascere mastro Misciu Bestia cavatore di rena e suo figlio Malpelo nello stesso mestiere del padre, e nel quale deve morire:

Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio, e lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena – o il carrettiere, come compare Gaspare che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno per le belle strade di campagna – o meglio ancora avrebbe voluto fare il contadino che passa la vita fra i campi, in mezzo al verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa. Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui. E pensando a tutto ciò, indicava a Ranocchio il pilastro che era caduto addosso al genitore, e dava ancora della rena fina e bruciata che il carrettiere veniva a caricare colla pipa in bocca, e dondolandosi sulle stanghe, e gli diceva che quando avrebbero finito di sterrare si sarebbe trovato il cadavere di suo padre, il quale doveva avere dei calzoni di fustagno quasi nuovi.

Quale lirica, trascritta con le parole più caste e più semplici, da quel sole sulla schiena a quel canto degli uccelli sulla testa! Tutto poi terribilmente concluso dalla constatazione di una macabra necessità fatale, che lega il Rosso a quel pilastro di rena, e che per il prossimo indifferente poi non vuol dir nulla, se il carrettiere può fare anche i suoi prognostici utilitari sui « calzoni di fustagno quasi nuovi » che debbono trovarsi addosso al cadavere.

Noi ci siamo serviti di parole dotte, machiavellismo, leopardismo, e potremmo anche aggiungere ateismo, per cogliere negli idola scholae, nelle parole della conversazione colta di tutti i giorni, i momenti del mondo interiore di questo primitivo; in questa trasfigurazione o, se piace meglio, deformazione verbale da noi voluta, forse è dato riconoscere più vivacemente il miracolo dell’intuizione del Verga che, di fronte a una creatura ferma, non si è limitato a rilevare alcune caratteristiche esteriori, a sottolineare alcune curiosità e stranezze di vita, ma ha saputo vedere, in piena trasparenza, nei crepuscoli di questa umanità primigenia gli stessi momenti meridiani della vita più riflessa e più adulta, e ce ne ha potuto cantare in giusto tono la poesia germinale. In questo senso, la sua arte è arte totale, riflessa vita morale come si diceva incominciando, non puro interesse estetico, ma interesse anche umano; e in tal senso noi parliamo di una poesia cristiana del Verga, di un crisma poetico-religioso da lui segnato in questi bruti e in questi primitivi.

Anche l’ateismo di Malpelo, a cui si accennava, è tratteggiato con molta discrezione. Un sentimento della morte come distruzione totale senza sopravvivenza alcuna nell’al di là, adombrato in quasi informi riflessioni: le ossa bianche, e la bocca spolpata e tutta denti dell’asino grigio, là giù nel burrone; la tacita assimilazione degli uomini agli animali, le battute maliziose nelle brevi conversazioni con Ranocchio sulle stelle e sul paradiso; la morte di Ranocchio e la conclusione cinico-tragica che le busse i morti non le sentono più, e che anche lui, Malpelo, dopo morto, non avrebbe sentito più nulla.

Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la civetta adesso strideva anche per lui nella notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con Ranocchio. Ora del grigio non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato così, e sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la madre di Malpelo s’era asciugati i suoi dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un’altra volta, ed era andata a stare a Cifali; anche la sorella si era maritata e avevano chiusa la casa. D’ora in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, e quando sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non avrebbe sentito più nulla.

Ma questo disperato senza fede sarebbe un’astrazione, se non avesse anche lui i suoi brividi davanti al mistero dell’esistenza, così come non c’è mai gusto tragico e deserto del paesaggio che non sia una soffocata nostalgia dell’idillio. E Rosso Malpelo, così bieco di orgoglio, trema di spavento quando è ritrovata una delle scarpe del padre, sepolto sotto la rena, tanto che « dovettero tirarlo all’aria aperta colle funi, proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento ». Ed egli, Rosso Malpelo, racconta del minatore che s’è perduto nella galleria, con una specie di terrore pauroso di cui lui stesso trasale, « sebbene avesse il cuore più duro della sciara ». E l’immagine di quel minatore, che nel buio della galleria ascolta solo le sue grida, gli ritorna al momento, in cui anche lui deve iniziare una pericolosa esplorazione:

Quando lo mandarono per quella esplorazione si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al buio gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo; ma non disse nulla.

Gusto fosco del paesaggio e nostalgie idilliche, disperata incredulità e paurosa sottomissione al suo destino, cattiveria e magnanimità, crudeltà e delicatezza nel sentire. Forse la poesia più viva di questo delicato sentire si ha nella pagina dove Malpelo accarezza i suoi pantaloni di fustagno, che erano stati del suo babbo, o sta in sognante contemplazione delle scarpe del povero morto.

Malpelo se li lisciava sulle gambe quei calzoni di fustagno quasi nuovo, gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo che solevano accarezzargli i capelli, così ruvidi e rossi com’erano. Quelle scarpe le teneva appese ad un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l’una accanto all’altra, e stava a contemplarsele coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme per delle ore intere, rimuginando chi sa quali idee in quel cervellaccio.

Completano il bozzetto le sobrie note su quel triste paesaggio della cava di rena: quel paesaggio-musica, che par nasca dal sentire degli uomini o che si adegui immediatamente a quel sentire.

La sciara  si stendeva malinconica e deserta fin dove giungeva la vista, e saliva e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o un uccello che vi volasse su.

E non manca il solito coro: due o tre operai, la madre e la sorella, che fanno eco alle vicende del protagonista, e che, appena adombrati nella loro individualità, costituiscono quell’anonimo prossimo, personaggio ideale dei racconti verghiani, quasi sviluppo inconsapevole del coro dell’antica tragedia greca.

L’atmosfera del racconto, eguale dal principio alla fine: ciò che dà il senso dell’unità e del capolavoro. Solo ci lascia insoddisfatti una pagina polemica contro l’ingegnere, che tarda a correre alla miniera, quando succede la disgrazia di mastro Misciu, perché è tutto preso dall’Amleto rappresentato dal Rossi, e quella sera « c’era un bellissimo teatro » (sono le solite battute contro la società filistea). E ci lascia anche perplessi alquanto la chiusa del racconto, un po’ fiabesca, in cui Rosso Malpelo sale a diventare un personaggio di leggenda (« i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo »), e in cui ci pare che la tragedia, così dura e realistica finora nelle sue linee, sfumi improvvisa nel fantastico della favola. Ma queste riserve non menomano il riconoscimento della grandezza del Verga, che ha saputo darci, in questo racconto, la storia completa e adesiva di un uomo crepuscolare, là dove artisti più superficiali avrebbero voluto vedere o il bruto o il barbaro, guardato semplicemente con critica distanza.


Luigi Russo

(brano tratto da Giovanni Verga, Laterza, Bari, 1971, pp. 95- 103)

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